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MALEDETTI TOSCANI! – DI LORENZO ZILLETTI

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MALEDETTI TOSCANI!

di Lorenzo Zilletti*

Secondo il CSM, per i magistrati il disquisire a briglia sciolta con i giornalisti sull’attività d’indagine, svolta contro un presunto innocente, sarebbe una forma di manifestazione del pensiero riconducibile nientemeno che all’art. 21 Cost. La risposta in un antico detto toscano.

«Qui ci vuole il Cantagalli!» ho esclamato senza esitazione, leggendo il parere del CSM sugli emendamenti governativi al disegno di legge A.C. 2681, concernente la riforma dell’ordinamento giudiziario (e dintorni). A colpirmi, in particolare, sono state le osservazioni critiche contro le sanzioni disciplinari per la violazione del D. Lgs. n. 188/2021, attuativo della Direttiva UE 2016/343 sulla presunzione d’innocenza.

Il praticante, seduto dall’altra parte del tavolo, si è subito diretto verso la libreria che cinge le pareti della mia stanza. «Cordero, Conso, Carrara, Carnelutti …» -l’ho sentito rimuginare a mezza voce- «… avvocato, sotto la lettera C il Cantagalli non c’è».

«Sta sbagliando scaffali.» -gli ho risposto, rassicurante- «Deve cercare fuori dai libri di diritto». Sulle prime, il giovane è rimasto un po’ interdetto; ma, seguendo il mio dito che da lontano gli indicava la collocazione approssimativa del volume, lo ha sfilato dalla libreria con aria poco convinta.

«Guida ai detti toscani. Loro origini e significati.» – ha letto sempre più perplesso- «Mi spiega che c’azzecca?».

Passata la sgradevole sensazione da eczema, causata istantaneamente da un verbo che -deogratias- negli ultimi tempi è caduto in desuetudine, ho deciso di perdonargli il dipietrismo (“In fondo, è il trentennio di ‘Mani pulite’”, ho pensato indulgente) e mi sono accinto a chiarire.

«Veda dottore, il Cantagalli nel suo campo è un po’ come il Manzini. Quando si cerca qualcosa di inconsueto, si trova sempre». Dalla faccia del neolaureato, ho capito perfettamente che il nome del giurista friulano, coautore dei Codici Rocco ed estensore dei monumentali trattati di diritto e procedura penale, gli diceva quanto a me quello dei più famosi trapper italiani. Anche stavolta ho deciso di passarci sopra: del resto, chi si mette più a consultare polverosi volumi di dottrina, quando con un magico clic i nostri computer sciorinano interi rosari di giurisprudenza, tra i quali pescare l’ultimissima sentenza di cassazione, grazie alla quale il giudice ci darà torto? A che giova sprecare il tempo sui lavori degli studiosi universitari, quando essi stessi -esaltando la creazione giurisprudenziale del diritto- hanno regalato ai magistrati l’esclusiva della nomopoiesi?

Che abbia espresso quel concetto ad alta voce, l’ho afferrato dallo sguardo sempre più perso dell’incolpevole praticante, laureato a pieni voti in un’università ormai prona ai discepoli di Castelpulci.

«Torniamo al parere che stavamo leggendo. Dunque, secondo Palazzo Marescialli, le norme che prevedono l’illecito disciplinare avrebbero “un contenuto molto ampio ed elastico, rinviando a concetti quali la rilevanza pubblica dei fatti ovvero specifiche ragioni di interesse pubblico o specifiche esigenze investigative, che si fondano prevalentemente su valutazioni discrezionali e di opportunità”, tali da non poter essere “oggetto di sindacato in sede disciplinare”».

«Accidenti» -è sbottato il mio dirimpettaio- «come sono garantisti, quando si tratta di tutelare loro stessi! Eppure, l’ordinamento si è riempito, specie negli ultimi decenni, di fattispecie incriminatrici indeterminate, di norme sfocate ed evanescenti. Un cittadino mica è più in grado di capire, prima della sentenza, se quando agisce lo fa rispettando o violando la legge».

Qui sono stato costretto ad ammettere che qualche buona lettura, il ragazzo, doveva pure averla fatta: certi ghiribizzi non passan da soli per la testa e neppure la consapevolezza del declino del diritto penale liberale.

Incassato con compiacimento il motivo dell’interruzione, ho ripreso la lettura del parere: «“Il divieto per i magistrati del pubblico ministero di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività dell’ufficio è amplissimo ed involge qualsiasi dichiarazione e su qualsiasi procedimento, anche quelli già definiti e anche quelli non trattati dal magistrato”». Sono stato nuovamente interrotto: «A che cosa sarebbe servito il decreto legislativo 188, se la violazione delle regole che prescrive non fosse repressa disciplinarmente?  Si replicherebbe quello che accade con le norme processuali, prive della sanzione di nullità. Quasi nessuno le osserva. L’art. 124 c.p.p. è una Cenerentola. D’altra parte, vedo che lei, da qualche tempo, non porta più con sé il Codice in aula».

Touchè, avrebbe detto Aldo Montano davanti alla sciabolata del praticante, così esplicita nell’immortalare i tradimenti e le erosioni del Codice accusatorio che, quotidianamente, si consumano nei palazzi di giustizia. Per un attimo mi sono sentito un po’ in colpa, scoperto nella moderna nudità di difensore: con la toga, ma senza legge. Poi, pensando con sollievo a quanto ci hanno guadagnato spalle e cervicale, mi sono rituffato nelle critiche del CSM: «la norma introdotta “si mostra irrazionale e in contrasto con il diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati”».

Insomma, disquisire a briglia sciolta con i giornalisti sull’attività d’indagine svolta in un processo contro un presunto innocente, sarebbe una forma di manifestazione del pensiero riconducibile nientemeno che all’art. 21 Cost.?

Ecco spiegata, davanti a un passaggio argomentativo così ostico, la necessità di compulsare il volume del Cantagalli. Ricordavo, infatti, che a Firenze esiste un modo di dire originato da un antico episodio, avvenuto in un’affollatissima chiesa cittadina durante la cerimonia delle Quarantore (l’adorazione del Corpo di Cristo nel Sepolcro). Narra l’appassionato cultore di detti che, approfittando del pigia pigia di fedeli, uno di questi avrebbe sfiorato con insistenza i glutei della giovane donna che gli stava immediatamente davanti. Ella avrebbe reagito veementemente, invitando a gran voce il molestatore a desistere dalla sua condotta. Per impedire che quelle proteste gridate richiamassero l’attenzione degli altri devoti, l’uomo l’avrebbe invitata, a gesti, a fare silenzio e a non disturbare la cerimonia, bisbigliando: «Ssh! Le Quarantore…».

«Icché c’entra i’cculo con le Quarantore?» sarebbe stata la sdegnata e definitiva risposta della pia creatura, per sottolineare l’inesistenza assoluta di relazione tra la pratica religiosa e quella parte dell’anatomia umana.

«Maledetti toscani!» -ha reagito sorridendo il praticante- inconsapevole, forse, che stava citando Malaparte.

*Responsabile del Centro Studi giuridici e sociali “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere Penali Italiane