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OLTRE LA PERSONA DETENUTA:  CARCERE, EFFETTI COLLATERALI E DIRITTI DEI TERZI – DI MARTINA GALLI

OLTRE LA PERSONA DETENUTA: CARCERE, EFFETTI COLLATERALI E DIRITTI DEI TERZI – DI MARTINA GALLI

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OLTRE LA PERSONA DETENUTA: CARCERE, EFFETTI COLLATERALI E DIRITTI DEI TERZI

BEYOND THE PRISONER: INCARCERATION, COLLATERAL EFFECTS, AND THIRD PARTIES’ RIGHTS

di Martina Galli *

Una riflessione che parte da uno spostamento focale: dai diritti della persona direttamente interessata dalla pena detentiva, lo sguardo si dirige sui diritti dei soggetti che le sono prossimi; soggetti che, in virtù di legami affettivi o di altro tipo, indirettamente soffrono l’esperienza carceraria.

I. Pur muovendo entro il perimetro del tema “Spazi di privazione della libertà personale e diritti delle persone ristrette[1], la presente riflessione propone uno spostamento focale: dai diritti della persona direttamente interessata dalla pena detentiva, lo sguardo si dirige sui diritti dei soggetti che le sono prossimi; soggetti che, in virtù di legami affettivi o di altro tipo, indirettamente soffrono l’esperienza carceraria.

L’intento è evidenziare un sentiero critico sicuramente laterale e secondario, ma meritevole di mappatura, se non altro perché – come vedremo – già in parte segnato in via normativa e frequentato dalle Corti dei diritti.

Prima d’immettersi sul sentiero, conviene avere chiare due coordinate, relative al punto di avvio e al punto di arrivo.

Per quanto la traiettoria percorsa sia “laterale”, il punto di avvio è piuttosto classico. Infatti, come d’abitudine nella materia d’interesse, la riflessione prende le mosse dall’osservazione del divario che separa la realtà carceraria, l’essere del carcere, dal dover essere che storicamente lo ha legittimato come pena assolutamente centrale[2]. Per intendersi: dal dovere essere una pena utile in quanto capace di prevenire i reati e rieducare, molto presto si è capito che il carcere tende, in verità, a presentarsi come una «scuola pubblica di perversità»[3], infettata del «veleno del reato» che i detenuti si scambiano[4]; dal dover essere la pena più uguale di tutte perché incisiva di un bene – la libertà personale – comune a ogni persona, si è notato, specie in ambito neomarxista, come il carcere finisse per riprodurre gravi disuguaglianze sociali[5]; dal dover essere una pena essenzialmente limitativa della libertà personale, si è capito che molti altri sono i diritti della persona detenuta incisi (salute, educazione, affettività e via dicendo), in maniera peraltro dissimile a seconda delle caratteristiche personali del soggetto[6]: ciò che complica grandemente anche l’idea della perfetta graduabilità della detenzione, ancorata primariamente al parametro della durata.

Qui ci occupiamo di un altrettanto tradizionale, benché meno indagato, errore prospettico: quello del carcere come pena “individuale”. Il mito della detenzione come pena personalissima rappresenta, dunque, il nostro punto di partenza: ci torneremo tra un momento.

Quanto all’arrivo, teniamo a evidenziare che la riflessione, pur tracciando una linea “larga” inclusiva del contesto socio-familiare, alla meta trova sempre la persona detenuta: chi più direttamente subisce la sofferenza dell’esperienza carceraria rimane protagonista di uno sforzo riformatore che accoglie, però, anche altri soggetti collateralmente incisi dalla pena. Le prerogative dei detenuti si vedono valorizzate assieme a quelle di chi li affianca, in una dimensione estesa che realizza, in maniera integrata, l’idea di parsimonia punitiva veicolata dai principi di proporzione, di rieducazione e di umanità della pena.

II. Torniamo dunque al punto di partenza, ossia alla falsa associazione tra carcere come dispositivo isolante e individualità della pena.

Il carcere con tutta evidenza si pone all’antitesi delle pene “collettive”, o a ricaduta collettiva (come la confisca generale dei beni)[7], tendenzialmente rifiutate dai riformatori sette-ottocenteschi per l’evidente disutilità e inumanità. Piuttosto che propagarsi lungo le relazioni del reo, le spezza; piuttosto che attrarre i terzi nella punizione, isola il soggetto che merita la condanna. Nel momento storico in cui il principio di personalità della pena va consolidandosi, il fatto di incidere su un bene personalissimo come il corpo veste il carcere di un apparente vantaggio.

Non è però certo isolando il corpo, costringendo la persona alla solitudine, che il carcere riesce anche ad arginare la sofferenza a quella sola persona. Ce lo ricorda Charles Lucas, citato anche da Foucault[8], laddove osserva che «Il medesimo decreto che invia il capo famiglia in prigione, riduce ogni giorno la madre all’indigenza, i figli all’abbandono, la famiglia intera al vagabondaggio e alla mendicità»[9]. D’altra parte, la prospettiva di Lucas non era segnata da una preoccupazione per gli interessi dei terzi collateralmente incisi. L’intento era, semmai, di segnalare un “effetto criminogeno” del carcere fuori dal carcere: l’immiserimento delle famiglie minaccia «di dare principio a una discendenza»[10].

Il meccanismo di fondo era, comunque, già svelato: come descriverà più avanti Ervin Goffman in Asylums, nell’inglobare la persona, il carcere tende a interrompere le relazioni affettive e sociali che la legano a terzi, con inevitabile pregiudizio anche per questi ultimi[11].

Sarà poi tutto un filone di letteratura sociologica e criminologica – in particolare statunitense, sviluppatosi sulla scia fenomeno del c.d. mass incarceration – a descrivere, anche mediante analisi empiriche, i riflessi negativi del carcere su terzi innocenti: dallo shock psicologico della separazione, passando per la stigmatizzazione sociale, si arriva alle deprivazioni emotive e materiali in termini di finanze, occupazione, alloggio[12].

Questi studi definitivamente mostrano come la realtà del carcere finisca per trasformare il mito della pena detentiva “individuale” nel suo rovescio. Benché – a ben vedere – nessuna pena, intesa come esperienza di sofferenza, riesca a confinarsi al solo destinatario[13] (a meno che non si tratti di una improbabile monade[14]), il carcere presenta una dannosità collaterale particolarmente elevata.

Allora, la domanda per il penalista è se in questa dannosità collaterale, in cui si rispecchiano gravi limitazioni di diritti fondamentali (all’affettività, all’educazione, alla salute, etc.), sia da rintracciarsi un limite all’irrogazione della pena carceraria e alle modalità della sua esecuzione.

III. Per rispondere, si può partire dall’osservazione del panorama normativo.

Limitandoci al paesaggio nostrano, può dirsi che gli interessi dei terzi non influenzano direttamente le decisioni relative all’irrogazione e alle modalità di esecuzione della pena carceraria. I criteri generali che dominano la commisurazione in sede giudiziale (il riferimento è all’art. 133 c.p.) hanno carattere reo-centrico, essendo ancorati alla gravità del reato e alla capacità a delinquere. Rimangono estranee alla valutazione le ricadute del carcere sui terzi[15]. Al più, questi ultimi assumono un ruolo al fine di ricostruire il contesto socio-familiare del reo e, in relazione a questo, la capacità special-preventiva della pena.

Ciò a differenza – conviene segnalarlo – di quanto accade in diversi ordinamenti di common law, su tutti il Regno Unito. In questo ordinamento, il rischio di effetti negativi sui c.d. dependants (familiari e altri terzi legati al reo da rapporti di cura o di altro tipo) incide sulla determinazione della pena già in fase di sentencing. In particolare, il fatto di essere il condannato alla pena carceraria l’unico o principale caregiver, può determinare un’ipotesi di c.d. departure, che consente al giudice di discostarsi dal limite di durata minimo dell’incarcerazione ovvero di optare per una pena di specie diversa, come il community order[16].

A sua volta, la legge penitenziaria guarda prevalentemente al condannato e al suo proprio diritto a mantenere i rapporti familiari. La disciplina relativa ad allocazione e trasferimenti, colloqui, visite, corrispondenza e altre tipologie di contatti con l’esterno, così come quella relativa alle misure alternative, segue esigenze di reinserimento sociale e individualizzazione scolpite nell’art. 1, co. 2, o.p.; esigenze che non possono che riguardare la persona condannata.

Di conseguenza, l’idea rieducativa fa sì che i terzi entrino nell’orbita di interesse dell’ordinamento non in via diretta e autonoma bensì in via indiretta, attraverso il medium della persona detenuta, in qualità di veicoli di “risocializzazione”. Anche le Regole penitenziarie europee, pur contenendo significativamente riferimenti ai familiari, in particolare nella sezione di commento, appaiono rivolte essenzialmente ai detenuti, dimenticando il significativo impatto sulle famiglie[17].

Non mancano comunque ipotesi in cui gli interessi di soggetti terzi rilevano direttamente. Così, in particolare, quando la pena carceraria sia applicata a detenute madri (o, in via residuale, a padri). L’ordinamento, anche seguendo le indicazioni sovranazionali in tema di best interest of child, si mostra sensibile agli interessi primari dei figli minori e direttamente li protegge[18], evitando sia il distacco genitoriale, sia il contatto con l’ambiente carcerario. Da qui, la disciplina del differimento dell’esecuzione delle pene non pecuniarie (artt. 146 e 147 c.p.), presente invero sin dall’introduzione del codice Rocco; e da qui le varie previsioni normative che, dalla c.d. legge “Gozzini” (l. n. 663/1986) in poi, hanno tentato di estendere la tutela del rapporto genitoriale favorendo modelli di detenzione extramuraria (artt. 47-ter ss. o.p.), anche in caso di carcerazione preventiva (art. 275, co. 4, c.p.)[19].

All’interno di questo complesso di norme, la necessità del carcere immediatamente si confronta con interessi formalmente estranei alla dinamica punitiva, nell’ambito di un bilanciamento legislativo: si riconosce la dannosità collaterale del carcere e si cerca di ridurla. Tuttavia, tale riconoscimento è limitato a casi che superano soglie molto elevate di irragionevolezza: oltre ai figli minori, solo i coniugi con disabilità grave sembrano oggetto di una qualche considerazione legislativa, ad es. nell’ambito dei permessi di visita (art. 21-ter o.p.). I limiti di rilevanza degli interessi sono rigidi e non lasciano margini di manovra al giudice: persino quando si tratta di minori, i benefici sono previsti per soglie di età fisse, e comunque si esauriscono al compimento dei dieci anni (sei in caso carcerazione preventiva).

IV. Questo stato delle cose è, però, oggi messo in discussione dalle Corti dei diritti.

Con la sentenza della Grande Camera Dickson c. Regno Unito del 2007[20] in materia di accesso alla procreazione medicalmente assistita, la Corte EDU ha proposto di vagliare la proporzionalità delle restrizioni legate al carcere, mettendo in bilanciamento le esigenze di sicurezza non solo con gli interessi della persona ristretta nella libertà personale, ma anche con il diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU) dei terzi, nel caso di specie il coniuge; terzi, dunque, non esclusivamente minori, secondo un approccio caso per caso e privo di limitazioni a priori.

L’approccio appena descritto è stato apertamente fatto proprio anche dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 10/2024 sulla affettività in carcere[21]. Ora, non vi è dubbio che la sentenza sia focalizzata sulle sofferenze ingiustamente patite dalla persona detenuta. La privazione dell’affettività, sub specie della sessualità, a causa dell’obbligo di controllo visivo rappresenta un contenuto punitivo aggiuntivo rispetto alla “pura” privazione della libertà personale che, se non mitigato quando possibile, appare sproporzionato e contrario al principio rieducativo.

A questa prospettiva se ne affianca tuttavia un’altra. Gli effetti collaterali dell’incarcerazione, in quanto incisivi di diritti dei terzi, non solo entrano nel campo visivo del giudice delle leggi, ma anch’essi direttamente partecipano al giudizio di proporzionalità.

Al § 4.2, la Corte infatti osserva che «un ulteriore profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all’espressione dell’affettività […] riguarda il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni». E aggiunge: «Per quanto in certa misura sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte, tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria».

Con questa pronuncia, dunque, la base del giudizio di proporzionalità in senso stretto[22]  della pena carceraria si allarga, per incorporare il sacrificio che in via di fatto anche i terzi sperimentano: il coniuge in questo caso, ma anche eventuali figli della coppia, i quali – come con grande sensibilità aveva notato il giudice rimettente – vantano un diritto «alla serenità del rapporto di coppia dei genitori, condizione non secondaria allo sviluppo della propria personalità»[23].

Il principio di proporzionalità lavora assieme ad altri.

Sicuramente va a braccetto con il principio rieducativo, se è vero – come vari studi a carattere empirico-criminologico dimostrano[24] – che preservare l’ambiente sociale di riferimento della persona condannata significa, almeno in linea generale, aumentare le chances di recupero e reinserimento sociale. Del resto, come nota il Rapporto Antigone 2023, nel partner e nei figli tipicamente si concentrano prospettive e speranze, promesse di riscatto[25]. La stessa Corte costituzionale ci ricorda che «la “desertificazione affettiva” […] è l’esatto opposto della risocializzazione»[26].

Il 27, co. 3, Cost., viene in gioco anche sotto il profilo dell’avvicinamento del reo alle ragioni punitive. Difatti, notoriamente una pena eccessivamente dannosa nei confronti di soggetti innocenti ha scarse probabilità di apparire giusta e meritata; invece, ha ottime probabilità di apparire eccessivamente afflittiva, con il rischio che la persona condannata sviluppi, o acuisca, un antagonismo con il sistema[27].

È chiaro, comunque, che fintantoché si discute di rieducazione della persona condannata i diritti dei terzi vengono in gioco solo indirettamente. Tornano invece direttamente in gioco quando il principio in esame è l’umanità della pena.

Ora, non vi è dubbio che l’umanità della pena sia garanzia pensata per assistere in via privilegiata la persona condannata. La connessione con l’ideale rieducativo, e dunque con un finalismo orientato sul reo, è strettissima, anzi indissociabile[28]; così come serrata è la connessione con il divieto di violenze fisiche e morali su persone ristrette nella loro libertà di cui all’art. 13, co. 4, Cost. La stessa Corte costituzionale è solita valorizzare tale connessione: ad es. nella sentenza n. 105/2023 in tema di colloqui con i minori, la valutazione della lesione dell’interesse di questi ultimi è tenuta ben separata dalla violazione del principio di umanità a danno della persona detenuta[29].

Tuttavia, ancora la sentenza n. 10/2024, riprendendo quanto avanzato nell’ordinanza di rimessione, sembra già superare questa prospettiva laddove descrive il «pregiudizio indiretto» subito dai terzi nei termini di una lesione della loro «dignità»[30]. La possibilità di un’applicazione estesa del principio di umanità è suggerita anche da un collegamento con il divieto di trattamenti “inumani e degradanti” di cui all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come interpretato dalla giurisprudenza convenzionale. In particolare, viene a mente la pronuncia con cui la Corte EDU ha qualificato come inumano e degradante il trattenimento di un imputato dentro una gabbia metallica durante il giudizio; misura, questa, che oltre a ledere la dignità dell’interessato aveva aggravato la sofferenza dei congiunti presenti in aula[31].

Non si esclude, dunque, che nel protrarsi dell’inerzia del legislatore e a fronte di una situazione di sovraffollamento carcerario tornato a livelli simili a quelli pre-Torreggiani[32], a distanza di oltre dieci anni la Corte costituzionale, qualora sollecitata, non valuti questa volta[33] di procedere all’allargamento delle ipotesi di rinvio dell’esecuzione ai casi di invivibilità dell’ambiente carcerario; e ciò anche tenendo conto dei contenuti di disumanità “oltre il reo” che tale invivibilità è in grado di esprimere.

Sin qui l’estensione ai terzi della valenza del principio di umanità sembra operare solo ad adiuvandum: per giungere a una declaratoria di incostituzionalità sarebbe già sufficiente osservare la crudeltà del trattamento che direttamente colpisce la persona ristretta. Tuttavia, non escludiamo che, in casi in cui il carcere non esprima un livello di disumanità per il reo superiore a quello a cui si è tristemente abituati, tale estensione non possa rappresentare la via maestra. Si pensi – volendo immaginare una situazione limite – a ipotesi in cui la pena carceraria, prevista in via normativa come immediata e indefettibile, comporti il venire meno di una relazione di cura essenziale, a carattere continuativo, tra il soggetto condannato e persone affette da gravi malattie croniche; persone che dal primo soggetto dipendano, dunque, materialmente ed esistenzialmente, senza che le cure siano effettivamente surrogabili da servizi di assistenza[34].

Sempre in questa ottica, è bene sottolineare il prorompente significato che il principio di umanità della pena – nella sua valenza allargata – viene ad assumere se messo in rapporto al principio di proporzionalità. Difatti, mentre quest’ultimo opera come limite sempre relativo, l’umanità si erge come limite assoluto, non bilanciabile. Di conseguenza, esso si pone come non valicabile anche ove – in ipotesi – ci trovassimo di fronte a pesantissime esigenze di “difesa sociale”, che intensificano il bisogno di pena carceraria.

Ragioniamo avendo a mente il recente disegno di legge, dichiaratamente rivolto contro il fenomeno delle borseggiatrici abituali e professionali, contenente la modifica dell’art. 146 c.p. in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per madri incinte e con prole inferiore a un anno, volto a rendere il rinvio sempre facoltativo e mai possibile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti[35]. Del resto, proprio al principio di umanità la Corte costituzionale si era, tra gli altri, appellata quando nel 2009 aveva fatto salvo il regime di obbligatorietà che oggi si vorrebbe revisionato[36]. Ebbene, a noi pare difficile immaginare che una norma che ponga il rinvio come discrezionale possa resistere al test del «senso di umanità», osservando il trattamento cui sarebbero destinati i minori e alla luce dei danni documentati sul loro sviluppo. Ricordiamo il caso del bambino di Rebibbia che a quasi tre anni conosce solo le parole “si”, “no”, “mamma”, “pappa”, e soprattutto “apri” e “chiudi”[37]. Viceversa, non è detto che, davanti a fenomeni di grave, comprovato e reale pericolo per la sicurezza pubblica (come non ci pare, peraltro, essere quello del pickpocketing), la norma revisionata non resista a un test di proporzionalità.

Come ulteriore esempio, possiamo pensare alla rigidità dei limiti di età che, come già avvisato, segnano la rilevanza degli interessi dei minori rispetto alla fruizione di modalità di detenzione extramurarie per la madre (e, in subordine, padre). In relazione all’art. 275, co. 4, c.p.p., il limite rigido dei sei anni è stato sinora fatto salvo[38] sulla base di non meglio precisate esigenze di difesa sociale, a fronte di una presunzione di autonomia dalla figura genitoriale per i bambini che abbiano raggiunto l’età scolare indicata dalla legge[39]. In tale contesto, è stata persino evocata la funzionalità di soglie oggettive e rigide in quanto «efficace usbergo della serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni»[40], in special modo nei casi in cui il potenziale beneficiario sia, assieme al minore, l’imputato per un delitto grave. Ecco, a nostro modo di vedere, sicuramente il principio di umanità pretende di anteporre la serenità del bambino a quella del giudice; ma impedisce anche di mettere a confronto l’equilibrio psicofisico del minore con esigenze di difesa sociale, pure potenzialmente di gran peso in sede di bilanciamento, almeno laddove si riscontri che un livello sufficiente di autonomia dal genitore non sia in concreto raggiunto, e che la separazione improvvisa possa causare gravi danni in termini di sviluppo psico-fisico.

Chiaramente, resta da comprendere quando davvero il senso di umanità sia sollecitato: il problema non è da poco davanti a un principio che, come detto, interrompe il dialogo con l’interesse a punire. Di certo vi è che l’estensione del principio di umanità a terzi non può mai comportare un indebolimento della sua valenza per la persona detenuta. Pensiamo all’inflizione di pene corporali (ivi inclusa la castrazione chimica[41]) a un condannato per reati sessuali in luogo della pena carceraria, al fine di salvaguardare interessi, materiali ed esistenziali, dei familiari o altri dependants che potrebbero essere altrimenti compromessi. Il senso di umanità delle pene vigila acché le strategie di mitigazione degli effetti collaterali del carcere non possano mai risolversi in una crudeltà per la persona condannata.

V. In conclusione: a noi pare che un’ulteriore pista per ridurre la dannosità del castigo carcerario e i suoi “margini di disumanità”[42] sia tracciata.

Questa pista può e anzi deve essere percorsa non solo per correggere modalità esecutive che in maniera sproporzionata e magari inumana affliggano il condannato e i soggetti vicini, ma, ben prima, per rivedere a monte l’opportunità dell’irrogazione della pena carceraria, fornendo – ad esempio – un argomento rispetto all’applicazione di una pena sostitutiva. Anche perché – evocando un nodo della sentenza n. 10/2024[43] – non è detto che i vincoli economici e organizzativi del nostro sistema penitenziario consentano di attuare misure contenitive degli effetti collaterali, una volta che l’ingresso in carcere sia decretato.

Non a caso, l’interessante Rapporto sui diritti delle famiglie dei detenuti 2019 dalla Ligue des Droits Humains belga[44], dopo avere fornito una serie di raccomandazioni sul facilitare i contatti, ridurre le spese delle visite, formare gli agenti penitenziari sulle esigenze dei familiari e via dicendo, si chiude con un invito di più ampio respiro a «ripensare il significato della pena e i suoi effetti collaterali e dannosi sulle famiglie dei detenuti»[45].

In fondo, il vero contributo della teorica degli effetti collaterali consiste nell’esortazione a osservare la pena in tutta la sua complessiva e reale costosità, nella direzione di un utilizzo sempre più parsimonioso: specie se la pena è quella carceraria.

* Ricercatrice in diritto penale presso l’Università degli Studi della Tuscia

[1] Questo il titolo del Convegno nazionale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP), in collaborazione con il Laboratorio Permanente di Diritto e Procedura Penale (DiPLaP) e con l’Università degli Studi di Firenze, tenutosi a Firenze il 4 ottobre scorso. Il presente contributo riproduce il testo della relazione presentata dall’A. in tale sede, in una versione lievemente ampliata e con il corredo di riferimenti bibliografici essenziali.

[2] Cfr. per tutti M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975), trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, 2014, 282 ss. e in part. 292; T. Padovani, L’utopia punitiva. Il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storica, Giuffrè, 1982, 8 ss. e in part. 16 nonché Id., Il carcere fra storia e ragione, in Rass. penit. e criminol., 2002, numero speciale (Carcere: esperienze e documenti. La ristampa anastatica de «Il Ponte», marzo 1949), 13 ss.

[3] J. Bentham, Théorie des peines et des récompenses (1775), tomo I, Bossange, 1825, 44.

[4] P.-J. Brissot de Warwille, Théorie des lois criminelles (1781), tomo I, J.-P. Aillaud, 1865, 172.

[5] Cfr. ad es. G. Rusche-O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure (1968), trad. it. Pena e struttura sociale, il Mulino, 1978, 83 e passim; D. Melossi-M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, il Mulino, 1977, passim; M. Pavarini, La pena “utile”, la sua crisi e il disincanto: verso una pena senza scopo, in Rass. penit. criminol., 1, 1983, in part. 29 ss.

[6] Alludiamo, dunque, all’insieme delle deprivazioni ulteriori rispetto alla pura restrizione della libertà personale, che nondimeno a questa vanno fatalmente ad associarsi, incidendo su quelli che il professor Francesco Palazzo, nell’ambito della relazione conclusiva del Convegno (v. nota 1), ha eloquentemente definito come “diritti residui” rispetto allo status captivitatis. Nella letteratura anglosassone, gli effetti del carcere aggiuntivi rispetto al contenuto di sofferenza “di base” consistente nella privazione della libertà personale (che potranno, peraltro, accompagnare il condannato nella vita post-carceraria, limitando le chances di recupero alla relazionalità e socialità), sono anche noti come ‘collateral effects’ of imprisonment: v. ad es. M. Tonry-J. Petersilia, American Prisons at the Beginning of the Twenty-First Century, in Crime & Just., 26, 1999, 5 ss.; W.A. Logan, Informal Collateral Consequences, in Wash. L. Rev., 88, 2013, 1103 ss.; D.S. Kirk.-S. Wakefield, Collateral Consequences of Punishment: A Critical Review and Path Forward, in Ann. Rev. Criminology., 1, 2018, 171 ss. Sul tema, cfr. anche J.-M. Silva Sánchez, Efectos colaterales de la prisión, in InDret, 2, 2016, 1 ss.

[7] Ben nota è l’invettiva di Cesare Beccaria contro la confisca generale dei beni in quanto misura «che lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri, sprezzando l’esterminio futuro e le lacrime d’infiniti oscuri»; notando altresì come le confische «mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo e pongono gl’innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i delitti» (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1786), Utet, 1965, 75. Alle critiche beccariane si associano quelle di Brissot de Warville, nonché dei penalisti italiani Luigi Cremani, Tommaso Nani e Giovanni Carmignani, in uno con l’elogio alla scelta di Pietro Leopoldo di procedere alla completa soppressione di qualsiasi confisca all’interno della celeberrima riforma del 1786 (la c.d. “Leopoldina”). Cfr. R. Isotton, Brevi note sulla publicatio bonorum fra diritto comune e codificazioni moderne. Verso l’abolizione o un “eterno ritorno”?, in Mélanges de l’École française de Rome – Italie et Méditerranée modernes et contemporaines, 2, 2017, 239 ss.

[8] M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., 295.

[9] C. Lucas, De la réforme des prisons, ou De la théorie de l’emprisonnement, de ses principes, de ses moyens, et de ses conditions pratiques, tomo II, É. Legrand et C. Descauriet, 1838, 64.

[10] Ibidem. Può essere curioso osservare come tra le giustificazioni che, nell’articolo 3 del Codice francese del 1971 sulla pena di morte, avevano sorretto la tecnica della decapitazione in luogo ad es. della forca, vi fosse – oltre all’uguaglianza e alla maggiore umanità legata all’istantaneità del decesso– il fatto di essere «castigo per il solo condannato, poiché la decapitazione, pena dei nobili, è la meno infamante per la famiglia del criminale»: cfr., ancora, M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., 15.

[11] E. Goffman, Asylums. Essays on the Condition of the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates (1961), trad. it. Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, 1968, 33 ss.

[12] Ci limitiamo a citare M. Comfort, Punishment Beyond the Legal Offender, in Ann. Rev. L. & Soc. Sci., 3, 2007, 271 ss.; R. Manning, Punishing the Innocent: Children of Incarcerated and Detained Parents, in Crim. Just. Ethics, 30, 2011, 267 ss.; J.A. Arditti, Parental Incarceration and the Family: Psychological and Social Effects of Imprisonment on Children, Parents, and Care-Givers, New York University Press, 2012; S. Minson, Direct harms and social Consequences: An analysis of the impact of maternal imprisonment on dependent children in England and Wales, in Criminol. Crim. Justice, 19, 2018, 519 ss. Allargando la prospettiva agli effetti negativi di comunità, ad es. J.P. Lynch J.P.-W.J. Sabol, Assessing the Effects of Mass Incarceration on Informal Social Control in Communities, in Criminology & Pub. Pol’y, 3, 2004, 267 ss.; D.R. Rose-T.R. Clear, Incarceration, Reentry and Social Capital: Social Networks in the Balance, in J. Travis-M. Waul (a cura di), Prisoners once Removed: The Impact of Incarceration and Reentry on Children, Families and Communities, Urban Institute Press, 2003, 313 ss.

[13] Come ci ricordano le nitide parole di Cesare Pedrazzi: «la pena si caratterizza come intenzionalmente afflittiva: colpisce il condannato (ma inevitabilmente il sacrificio coinvolge le persone a lui vicine)» (C. Pedrazzi, voce Diritto penale, in Dig. disc. pen., vol. IV, Utet, 1990, 64).

[14] L’unico caso escluso sarebbe quello di «applicazione della pena a improbabili soggetti privi di qualsiasi radicamento nel contesto sociale, autentiche “monadi” capaci di contenere l’afflizione della pena nei confini di una desolante solitudine esistenziale»: cfr. G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Giuffrè, Milano, 2008, 42.

[15] Impossibile tacere sulla discrepanza con il sistema delle persone giuridiche, dove la pena più grave, ossia la pena interdittiva, può essere sostituita con il commissariamento giudiziale ex art. 15 d.lgs. 231/2001, qualora suscettibile di provocare l’interruzione dell’attività dell’ente e, per conseguenza, gravi ricadute in termini occupazionali, produttivi e di fruizione di servizi essenziali.

[16] E ciò grazie alle indicazioni di una serie di linee guida: le Expanded Explanations alla General Guideline del 2019 (con particolare riguardo alla sezione intitolata “Factors reducing seriousness or reflecting personal mitigation Sole or primary carer for dependants relatives”), la Imposition of Community and Custodial Sentences Guideline e l’Equal Treatment Bench Book.

[17] Cfr. J. Matthews, Forgotten Victims. How Prison Affects the Family, Nacro, Londra, 1983. Inoltre, R. Light-B. Campbell, Prisoners’ Families: Still Forgotten Victims?, in J. Soc. Wel. & Fam. L, 28, 2006, 297 ss.; C. Albano, La famiglia del detenuto come vittima, in Rivista di servizio sociale, 1, 1985, 29 ss.

[18] Un altro, significativo, ambito in cui gli interessi dei minori entrano direttamente nel processo di commisurazione è rappresentato dall’applicazione delle pene accessorie della sospensione e decadenza dalla responsabilità genitoriale (art. 34 c.p.). Ciò avviene, in particolare, grazie a una stringa di sentenze della Corte costituzionale in materia: smentendo un precedente indirizzo (Corte cost., ord. 9 giugno 1988, n. 723), esse hanno eliminato l’automatismo applicativo che, da codice, presiederebbe le pene anzidette, chiedendo al giudice di procedere a una valutazione caso per caso circa la dannosità della pena per i minori coinvolti: Corte cost., 23 febbraio 2012, n. 31; Corte Cost., 16 gennaio 2013, n. 7; Corte cost., 29 maggio 2020, n. 102.

[19] Per un quadro complessivo delle evoluzioni normative in materia, rinviamo a P. Bernazzani-C. Bray, Detenzione e tutela del rapporto con i figli minori, in G. Fidelbo (a cura di), Diritto penale della famiglia, Giappichelli, Torino, 2021, 929 ss.

[20] Corte EDU, Grande camera, 4 dicembre 2007, Dickson c. Regno Unito.

[21] Corte cost., 6 dicembre 2023 (dep. 26 gennaio 2024), n. 10, su cui v., ex multis, R. De Vito, Frammenti di un nuovo discorso amoroso: la Corte costituzionale n. 10 del 2024 e l’affettività in carcere, in Quest. giust., 5 febbraio 2024 e I. Giugni, Affettività in carcere. Note in attesa dell’attuazione di Corte cost., sentenza n. 10 del 2024, in Osservatorio AIC, 4, 2024, 286 ss.

[22] Cfr., per tutti, N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale. Scelte di criminalizzazione e ingerenza nei diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2020, in part. 174 ss.

[23] Cfr. Ufficio di Sorveglianza di Spoleto, ord. 12 gennaio 2023, n. 23, a pagina 7.

[24] Sul ruolo delle famiglie come “catalizzatori di risocializzazione”, v. ad es. J. Laule, J. Laule, Berücksichtigung von Angehörigen bei der Auswahl und Vollstreckung von Sanktionen, Duncker & Humboldt, 2009, 9 ss.; C. Montagne, Lien familial et droit pénal. Thèse, Université Grenoble Alpes, 2015, 583 ss.; R. Light, Why Support Prisoners’ Family-Tie Groups?, in How. L.J., 32, 1993, 322 ss. Per una visuale più critica: G. De Coninck, La famille du detenu: de la suspicion à l’idealisation, in Déviance Société, 6, 1982, 83 ss.; F. Mégret, Punir les coupables, punir leur familles? Le point de vue canadien, in Les cahiers de la justice, 2018, 529 s. Per una posizione più aperta: R. Canton, Una visione olistica di probation, reinserimento sociale e vita familiare (intervista), in Giornale Europeo della genitorialità reclusa. Reinserimento sociale e legami familiari, 2016, 8 ss.

[25] Cfr. E. Paoletti-M.S. Costantini, Sradicati. I trasferimenti delle persone detenute. IXX rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione, in www.rapportoantigone.it, 29 maggio 2023.

[26] Corte cost., 6 dicembre 2023, cit., al § 4.3 del Considerato in diritto.

[27] «Una pena sproporzionata alla gravità del fatto rischierebbe invero di venire avvertita come intollerabilmente afflittiva ed “ingiusta”, stimolando in colui che dovrà subirla un atteggiamento di reazione, di rifiuto, di ribellione verso quel sistema che ha permesso di praticare nei suoi confronti un trattamento penale irragionevolmente severo»: G. De Francesco, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Giappichelli, Torino, 25. Ma v. anche Corte cost., 6 dicembre 2023, cit., sempre al § 4.3 del Considerato in diritto, questa volta laddove osserva che «L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione».

[28] «Il divieto di adottare misure concretanti un trattamento contrario al senso di umanità non può essere disgiunto, nella ricostruzione della sua ratio e della sua portata applicativa, dal riferimento alla finalità rieducativa (sentenza n. 376 del 1997): al riguardo, questa Corte ha messo in luce il contesto “unitario, non dissociabile”, nel quale vanno collocati i princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto logicamente in funzione l’uno dell’altro, posto che, in particolare, “un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato” (sentenza n. 12 del 1966)»: così, Corte cost., 9 ottobre 2013, n. 279, al § 7 del Considerato in diritto. In dottrina, per tutti, E. Dolcini, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 1979, 493 ss.; nonché più di recente Id., Pena e Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2019, 23 ss.

[29] Corte cost., 6 aprile 2023, cit., § 9 del Considerato in diritto.

[30] Corte cost., 6 dicembre 2023, cit., al § 4.2.

[31] Corte EDU, Sez. III, 15 giugno 2010, Harutyunyan c. Armenia.

[32] Cfr. i dati efficacemente riassunti da G. Amarelli, Sovraffollamento carcerario: aspettando l’efficientamento delle pene sostitutive, subito un indulto proprio condizionato, in Sist. pen., 21 maggio 2024, 8 s.

[33] Cfr. Corte cost., 9 ottobre 2013, n. 279, in relazione all’art. 147 c.p., scaturita da Corte EDU, Sez. II, 8 gennaio 2013, n. 22635/03, Torreggiani e altri c. Italia.

[34] Per le caratteristiche della malattia dell’assistito e/o per le carenze intrinseche al sistema dell’assistenza pubblica alla persona, in particolare di tipo domiciliare. Casi del genere potrebbero comunque sempre rientrare in una istanza di grazia ai sensi dell’art. 681 c.p.p. V. la Circolare del Dipartimento per gli Affari di Giustizia del 10 giugno 2021, n. 5, relativa a «Istruttoria delle domande di grazia – Indicazioni operative per gli Uffici giudiziari», dove, nell’elenco della documentazione necessaria per la presentazione della domanda di grazia, rammenta «le informazioni di P.G. sulla situazione familiare e/o documentazione relativa ai congiunti/conviventi, ove la domanda sia fondata sulla necessità di prestare assistenza ad un prossimo congiunto/convivente», nonché le «informazioni di P.G. sulle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, ove la domanda sia fondata su ragioni economiche di presunta indigenza» (pagina 5).

[35] Cfr. DDL n. 1660/C, presentato alla Camera il 22 gennaio 2024, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario». È vero che le madri, nell’idea di questa proposta, sarebbero destinate assieme ai loro figli non a una struttura ordinaria, bensì a un Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM). Tuttavia – anche al di là del fatto che attualmente si contano solo cinque ICAM in tutta Italia, con distribuzione territoriale disomogenea (Milano San Vittore, Venezia alla Giudecca, Torino “Lorusso-Cotugno”, Senorbì in provincia di Cagliari, Lauro in provincia di Avellino) – sempre di regime detentivo non domiciliare si tratta: questo regime rappresenterebbe il primo contatto con il mondo del bambino.

[36] Corte cost., 8 maggio 2009, n. 145, al § 2 del Considerato in diritto, dove la Corte chiarisce che la norma è mossa dall’esigenza «di offrire la massima tutela al nascituro e al bambino di età inferiore ad un anno», evitando «che l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto […] del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico». Alla luce del principio di umanità della pena e del valore che la Costituzione assegna alla maternità e all’infanzia, la scelta legislativa di far prevalere la tutela del rapporto madre-figlio sull’interesse statuale all’esecuzione immediata era così stata giudicata non irragionevole.

[37] Cfr. l’articolo dal titolo «Il piccolo Giacomo, in cella a Rebibbia a due anni: “Dice solo: apri e chiudi”», pubblicato su Il Dubbio, 21 luglio 2024.

[38] Corte Cost., 7 dicembre 2016, n. 17 (dep. 24 gennaio 2017). Sulla sentenza, ampiamente commentata, ci limitiamo a suggerire la lettura di E. Aprile, Per la Consulta è legittima la scelta di limitare ai figli fino a 6 anni il divieto dell’applicazione ai genitori della custodia in carcere. Osservazioni C. cost., 24/1/2017, n. 17, in Cass. pen., 4, 2017, 1460 ss; P. Bernazzani, Misure cautelari e tutela dei rapporti familiari, in G. Fidelbo (a cura di), Diritto penale della famiglia, cit., 897 ss.

[39] Per una critica a questa presunzione legislativa: G. Mastropasqua G., La legge 21 aprile 2011 n. 61 sulla tutela delle relazioni tra figli minori e genitori detenuti o internati: analisi e prospettive, in Dir. fam. e pers., 4, 2011, 1858.

[40] Cfr. Corte cost., 7 dicembre 2016, cit., al § 3.3.

[41] Cfr. V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Giappichelli, 2023, 213 s.

[42] L’espressione è ripresa da M. Pavarini, Vivere in meno di 3 metri quadrati Quando la pena carceraria è disumana e degradante, in www.ristretti.it, 5.

[43]  Corte cost., 6 dicembre 2023, cit., al § 6.

[44] AA.VV., Rapport sur les droits des familles de détenu.e.s, in www.liguedh.be, novembre 2019.

[45] Ivi, 62.