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PERCHÉ BISOGNA LASCIARSI ALLE SPALLE, CON LA PASSATA GESTIONE MINISTERIALE, ANCHE IL D.M. 13 GENNAIO 2021 A FIRMA DEL MINISTRO BONAFEDE – DI FABRIZIO LANZARONE E FABIO FERRARA

PERCHÉ BISOGNA LASCIARSI ALLE SPALLE, CON LA PASSATA GESTIONE MINISTERIALE, ANCHE IL D.M. 13 GENNAIO 2021 A FIRMA DEL MINISTRO BONAFEDE – DI FABRIZIO LANZARONE E FABIO FERRARA

LANZARONE-FERRARA – PERCHÉ BISOGNA LASCIARSI ALLE SPALLE, CON LA PASSATA GESTIONE MINISTERIALE, ANCHE IL D.M. 13 GENNAIO 2021 A FIRMA DEL MINISTRO BONAFEDE.PDF

di Fabrizio Lanzarone* e Fabio Ferrara*

Il contributo affronta il tema del rapporto tra processo penale telematico e compressione dei fondamentali diritti di difesa nel nome della supposta necessità determinata dal periodo emergenziale, evidenziando al contempo le criticità determinate dalle modalità disorganiche con le quali si pretende di disciplinare la materia, nonché l’irrazionalità della scelta di escludere la possibilità alternativa del deposito cartaceo degli atti.

Come è noto, con il D.M. 13 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. del 21 gennaio 2021, è stato ampliato il novero degli atti del processo penale per cui è previsto il deposito telematico: opposizioni all’archiviazione, denunce, querele, relative procure, nomine, rinunce e revoche di difensori di fiducia.

Le brevissime note che seguono hanno solo la funzione di corroborare la necessità, ormai ineludibile, di un’approfondita riflessione complessiva, e con una visione d’insieme che fin qui è mancata, sui tanti dubbi che si annidano dietro l’incalzante incedere della digitalizzazione del processo penale che, in occasione della pandemia, ha subito un’accelerazione a tratti destabilizzante in ragione del suo procedere in maniera pressoché unilaterale e all’insegna dell’improvvisazione, senza le dovute riflessioni e gli apporti di tutte le parti in gioco.

Lo spunto è offerto dal menzionato provvedimento che, come ogni decreto ministeriale, ha natura amministrativa: in quanto atto amministrativo, non ha forza di legge e ha carattere di fonte normativa secondaria.

Per stigmatizzare l’approccio all’insegna della frettolosità, deve – anzi tutto – rilevarsi come il D.M. sia stato emanato prima della proroga dello stato emergenziale.

L’art. 24. D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 (in S.O. n. 43, relativo alla G.U. 24/12/2020, n. 319), richiamato dal D.M. in parola per giustificare e fondare normativamente l’esclusività dei nuovi depositi ivi contemplati, fissava un termine ben preciso e non aperto tout court alla fine dell’emergenza astrattamente declinata. (Anche perché – si osserva per incidens – il periodo emergenziale è stato connotato, nel tempo, da una dinamica epidemiologica assai variegata e alternante, sicché all’intermo dell’arco temporale emergenziale se talune soluzioni possono avere un loro sostrato scientifico che le giustifica eccezionalmente in un dato torno di tempo, in altro periodo – pur di emergenza – quelle soluzioni vedono magari perdere o scemare la loro necessità: in altre parole, nessun automatismo è possibile).

Si è, però, ritenuto di far coincidere la scadenza della disposizione menzionata con il termine dello stato di emergenza o, detto diversamente, che il nuovo percorso tecnico indicato valesse per tutta la durata dell’emergenza sanitaria (attualmente fissata al 30 aprile 2021) senza che, tuttavia, quel termine – pur fondativo – venisse espressamente richiamato dal D.M.

Ed invero, con riferimento al deposito di memorie, documenti, richieste ed istanze indicate dall’articolo 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale, il legislatore dell’emergenza aveva indicato quale termine di scadenza quello di cui all’art. 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35.

Tale termine – come anticipato – è stato, però, modificato successivamente all’emanazione del Decreto ministeriale.

La proroga dello stato di emergenza è, infatti, avvenuta il giorno successivo alla firma del Decreto ministeriale del 13 gennaio 2021, con D.L. del 14 gennaio 2021.

Ora, a parte tale annotazione critica, superabile in via interpretativa (non senza, però, quelle riserve legate all’inaccettabilità degli automatismi delle proroghe all’interno di un recinto sacro quale quello del processo penale[1]), non è chi non veda come l’approccio alle complesse questioni involte risulti improntato ad assoluta disorganicità e concreta farraginosità, anche sotto il profilo tecnico prescelto (tenuto conto, peraltro, della disponibilità di PEC e firma digitale per assicurare, dal punto di vista dell’identità e autenticità, la provenienza certa del documento).

È esperienza di tutti i difensori che gli interventi estemporanei succedutisi nel tempo, con scarso coordinamento, lungo il crinale dell’informatizzazione del processo penale, hanno reso il deposito degli atti e, in particolare quelli della fattispecie di che trattasi, una vera e propria corsa ad ostacoli, estenuante anche sul piano dei tempi, ad onta del proclamato intento di semplificazione: per di più, caricando i legali dall’onere di competenze tecniche avulse dall’esercizio della professione abbracciata e affibbiando loro il peso di dover affrontare, con effetti quanto meno stressanti, guasti e deficit del sistema di riferimento. Un sistema che talora impedisce anche l’accesso ai veri e propri labirinti creati da quella che va sempre più acquisendo i lineamenti di una nuova classe sacerdotale che governa le “regole tecniche” e propone inopinatamente ai legali allibiti – in modo umiliante per l’esercizio della nostra nobile professione – ingegnosi manuali operativi, quasi che si trattasse di nuovi codici di rito, estranei alla logica del processo come luogo di garanzie e di esercizio dei diritti.

Del tutto tacendo l’irrazionalità della perimetrazione dell’intervento in termini di esclusività del deposito dal portale del processo telematico solo per alcuni atti, in stridente contrasto così con l’art. 3 Cost., il fuoco della questione è, comunque, un altro: l’emergenza epidemiologica non può essere motivo della compressione di diritti costituzionalmente garantiti, soprattutto quando slegata (o, se si vuole, solo teoricamente agganciata) dall’attualità dei dati scientifici e dall’ossequio alla gerarchia delle fonti. Men che meno può consentire di affidare diritti e facoltà defensionali, pure soggetti a scadenze, ai capricci della connessione di rete (ammesso e non concesso che essa sia capillarmente ed efficacemente presente su tutto il territorio nazionale) o agli improvvisi guasti del computer.

Non ci sarebbe, per vero, nemmeno bisogno di sottolineare tutto ciò, ma ormai – in tempi di cultura (solo emergenziale?) con tendenze chiaramente disumanizzanti, rese palesi dagli enunciati performativi del tipo “distanziamento sociale”, “isolamento”, ecc., atti ad incidere in modo subdolo e capzioso nella forma mentis e nel comportamento[2] – anche quel che è ovvio non può darsi per scontato.

Deve, allora, essere riconosciuto che il mantenimento del deposito cartaceo come via parallela al deposito telematico da parte dei difensori, sia esso via PEC, sia esso attraverso il «Portale Deposito atti Penali» (PDP), accessibile online dai difensori, tramite area riservata, dal «Portale Servizi Telematici» (PST) del Ministero della Giustizia, risulta indispensabile e non può essere – sic et simpliciter – surrettiziamente eliminato, per la semplice ragione – di pronta intuizione –  (in disparte tutte le osservazioni precedenti) che, a sensi dell’art. 99 c.p.p., al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato (ferma, ovviamente, restando l’autonomia del deposito tradizionale da parte di quest’ultimo che non può essere da alcuno impedita) e non foss’altro per il fatto che gli interventi di riforma non possono di certo elidere (e, comunque, mal si conciliano e cozzano con) tutti i diritti e le facoltà riconosciuti in modo espresso dalla legge direttamente in capo alla persona offesa in virtù dell’art. 90 c.p.p.. In tutto questo pare, poi, che ci si sia dimenticati dell’inequivoca previsione dell’art. 121 c.p.p., in forza del quale in ogni stato e grado del procedimento le parti e i difensori possono presentare al giudice memorie o richieste scritte, mediante deposito nella cancelleria (l’opposizione alla richiesta di archiviazione può essere presentata sia presso gli Uffici di Procura, sia presso il GIP[3]; in disparte il contrasto giurisprudenziale che è dato registrare tra quell’orientamento maggiormente ‘liberale’, seppur minoritario, per cui all’atto in discorso ben può riservarsi la natura ed il conseguente trattamento stabilito dal codice di rito per i mezzi di impugnazione[4] e il prevalente indirizzo incline a stimarlo alla stregua di generica richiesta scritta al giudice, assegnata alle parti ai sensi dell’art.121 c.p.p. a mezzo deposito in cancelleria).

Del resto, l’intervento d’urgenza, pur arrecando forti potenzialità di corto circuito del sistema, non ha modificato le norme processuali inserite nel codice di rito, né può ex se stravolgere tale specifica regolamentazione, sicché le innovazioni introdotte, nell’applicazione quotidiana (che si spera di brevissima durata), devono necessariamente coordinarsi – comunque – con quel consolidato apparato tradizionale, «nei limiti», appunto, e nel «rispetto delle clausole generali e dei principi espressi dal codice di procedura penale, cui è attribuita primazía nella regolazione degli istituti del processo»[5].

Sotto questo angolo visuale c’è, dunque, da monitorare attentamente sulla pratica applicazione di questi basilari principi nella consapevolezza degli insidiosi rischi per la tenuta dei diritti fondamentali che si celano dietro un fideistico soluzionismo di stampo tecnologico o, peggio, tecnocratico, ammantato dalle sirene aziendalistiche dell’efficienza e dal fascinoso appeal della dematerializzazione del processo: una rete, quella degli innovativi strumenti informatici privi di un serio governo improntato al rigido rispetto dei principi costituzionali[6], in cui[7], a rimanere preda, con inarrestabile progressiva erosione (nella realtà effettuale) delle garanzie di difesa e del giusto processo, potrebbe essere proprio l’esercizio della giurisdizione, siccome – nel bene e nel male – l’abbiamo fin qui conosciuto.

Mentre queste sommesse riflessioni erano in corso di pubblicazione, è stato emanato il D.L. 1° aprile 2021 n. 44, recante misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da Covid 19 anche in materia di giustizia.

Rispetto ai motivati auspici compendiati nel titolo delle presenti note, l’art. 6 del menzionato decreto, anziché rimediare alle segnalate storture e comunque alla necessità di non rimanere succubi del domino della thecnè e dei suoi capricci, andando al cuore delle questioni fin qui (e da più parti) criticamente poste, ha – in maniera deludente (per chi si era illuso) – propinato l’ennesima soluzione pasticciata. Una toppa peggiore del buco che – come facilmente prevedibile- sarà foriera solo di caos. Quel caos ben conosciuto nello studio dei sistemi complessi che pare essere riuscito ad assurgere a vero demiurgo in questo periodo emergenziale. Un periodo, per vero, che – sotto i nostri occhi attoniti – va sinuosamente spostandosi sempre più avanti (ora addirittura con un salto fino al 31 luglio), rendendo sempre più chiaro e offrendo la conferma di quello che molteplici indicatori, anche empirici, ci mostrano ormai da tempo: id est, l’insediamento permanente del regime di emergenza perché esso divenga la nuova normalità, a tutto discapito dei presidi di garanzia nel tempo faticosamente conquistati.

*Avvocati del Foro di Palermo

[1] Il punto cruciale, infatti, è se lo spostamento in avanti della scadenza del termine emergenziale possa giustificare eo ipso la proroga della peculiare e di per sé (ossia ontologicamente) eccezionale previsione dell’esclusività del deposito a prescindere da una valutazione del concreto atteggiarsi della situazione epidemiologica che renda quella speciale misura adeguata e proporzionale. Tanto più che tra le misure consentite dall’art. 1, co. 2, del D.L. n. 19 (oggetto di proroga) non risultano contemplate, ça va sans dire, sospensioni o limitazioni dei diritti di difesa costituzionalmente garantiti. Né il D.L. 14 gennaio 2021, n. 2 amplia nel senso anzidetto i confini applicativi delle materie d’intervento.

[2] La lingua italiana, con la sua intrinseca ricchezza, consente il ricorso a validissime alternative (solo esemplificativamente: distanza di sicurezza, precauzioni, cautele, etc.) per trasmettere, sul piano della realtà fisica, il messaggio della necessità dell’adozione di misure idonee a garantire la salute, evitando la trasmissione del virus, senza evocare moderni confinamenti e spezzare il legame sociale chedi controandrebbe promosso, alimentato e rafforzato come concetto benevolo e certamente positivo.

[3] cfr., ex pluribus, Cass. pen., 9 settembre 2016, n. 42791.

[4] Col corollario delle note statuizioni di Cass. pen., Sez. I, 3 novembre 2020, n. 32566, in tema di deposito attraverso PEC.

[5] Mutatis mutandis, v. Cass. pen., Sez. I, n. 32566, cit.

[6] Che non possono essere svuotati, comunque, nemmeno in tempi di pandemia.

[7] Tralasciando lo spinoso tema delle mire dei cc.dd. tech giants, sempre alla ricerca di dati e metadati, e dell’“artiglieria” in forza a tali big tech companies nella predisposizione di programmi, col consequenziale ulteriore potere derivatene.