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QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ SULLA RETROATTIVITÀ DELLA MODIFICA CHE HA ESTESO L’ART. 4 BIS ORD. PEN. AI REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Vittorio Manes

QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ SULLA RETROATTIVITÀ DELLA MODIFICA CHE HA ESTESO L’ART. 4 BIS ORD. PEN. AI REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Vittorio Manes

Corte Costituzionale – udienza pubblica dell’11 febbraio 2020

Discussione dell’avv. prof. Vittorio Manes*

Illustrissimo Presidente,

Eccellenze della Corte,

Ho l’impressione che, oggi, questa Corte sia chiamata ad affrontare una questione davvero cruciale per gli equilibri dello Stato di diritto. Non diversamente da quanto accaduto nel caso Taricco[1], anche se forse quella odierna è una questione ancor più nevralgica, perché riguarda le posizioni individuali e la sfera di libertà dei singoli di fronte all’Autorità e all’arbitrio punitivo dello Stato. E questo perché la legge di cui oggi discutiamo la legittimità costituzionale, ha come prima ricaduta quello che è stato appena sintetizzato nella relazione del relatore: un improvviso e inaspettato cambio di scenario per il singolo, che confidava in un quadro normativo che, ragionevolmente, assicurava la prospettiva di poter trascorrere l’esecuzione della pena in una dimensione extra-muraria, fuori da una circuito custodiale, ed improvvisamente si è visto proiettato – come moltissime persone in questa analoga situazione – nella condizione di dover patire un “forzoso assaggio di pena” in carcere.

1. Ebbene, concentrando le mie poche argomentazioni sulle domande poste dal giudice relatore, comincio dalla prima, che si interroga sull’estensione del principio di legalità. Tuttavia, le conclusioni a cui arriverò in parte divergono dalle premesse, perché probabilmente la questione di cui discutiamo oggi non è solo declinabile in termini di maggiore o minore perimetro applicativo della garanzia dell’irretroattività, ma concerne la stessa tenuta dello Stato di diritto, in ossequio al principio sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, sin dal preambolo, richiama gli Stati al rispetto delle libertà e della “prééminence du droit”, ovvero della “preminenza del diritto”.

Tuttavia, non può negarsi che la discussione si è sempre incentrata sul perimetro da dare all’articolo 25 comma 2 Cost., che, com’è noto, al centro di una discussione sulla quale grava una duplice angolatura prospettica: all’approccio formale, ereditato dal codice Rocco, caratterizzata dal tecnicismo giuridico ed acquartierato su partizioni e dicotomie formali (a titolo esemplificativo, pena/misura di sicurezza, diritto sostanziale/diritto processuale, fase cognitiva/fase dell’esecuzione, quest’ultima considerata quasi alla stregua di un momento amministrativo), si contrappone l’approccio sostanziale, suggerito dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (tra le altre, la nota decisione della Grande Camera, Del Rio Prada c. Spagna[2], non a caso menzionata nelle varie ordinanze di rimessione), volto a dare a queste garanzie una dimensione di tutela “effettiva e concreta, e non virtuale e astratta”.

Per vero, questa posizione risulta già anticipata da diversi anni dalla stessa dottrina italiana: mi limito a citare qui una voce su tutte, Franco Bricola, che ben prima della Corte europea, ammoniva sull’esistenza – nascosta nei sobborghi rimossi dell’esecuzione penale – di determinate disposizioni ad effetto sostanziale, cariche di conseguenze peggiorative per la sfera giuridico-penale del singolo; posta la chiara connotazione punitivo-afflittiva, anche a tali norme doveva esser esteso il principio di irretroattività, ed invocata la copertura del principio di legalità nelle sue diverse declinazioni, prima fra tutte quella riferibile al nullum crimen sine praevia lege poenali[3].

2. Dunque, vengo subito alla domanda posta dal relatore: esiste la possibilità di differenziare tra le norme dell’ordinamento penitenziario, oppure l’estensione -invocata da noi e dai giudici rimettenti- del principio di irretroattività dovrebbe produrre un effetto generalizzato a tutte le norme in materia di esecuzione?

A parere di questa difesa, non solo esiste la possibilità di differenziare, ma è doverosa, perché nell’ordinamento penitenziario esistono diverse tipologie di norme, diverse costellazioni di disposizioni, a cui possono riconnetersi ricadute di differente intensità afflittiva, sino a istituti più neutri, che effettivamente incidono solo su modalità esecutive della pena intramuraria.

a) Sono tali, ad esempio, le disposizioni concernenti il regime di sorveglianza particolare, le limitazioni e i controlli sulla corrispondenza o nei colloqui con il difensore: si pensi, al riguardo, alla vostra sentenza n. 143 del 2013[4], ove la Corte ha accolto la questione di illegittimità costituzionale relativa alla restrizione ai colloqui difensivi, non ponendosi, però, alcuna questione circa l’irretroattività, perché effettivamente la contrazione dei colloqui non avrebbe avuto ricadute in termini di libertà individuale.
b) Accanto a queste disposizioni, che sicuramente potrebbero essere eccettuate rispetto al dominio e alla copertura del principio di irretroattività, ci sono, però, altri istituti che consentono l’esecuzione di parte della pena al di fuori delle mura carcerarie, come il lavoro all’esterno ed i permessi premio, con riguardo ai quali verrebbe già in rilievo una dimensione di afflittività – perlomeno indiretta – qualora il regime venisse in qualche modo aggravato.

c) Infine, ci sono istituti che, invece, incidono più direttamente sulla concreta durata della pena detentiva, trai quali si annovera certamente l’affidamento in prova ai servizi sociali, che comporta una decurtazione di quel carico sanzionatorio che avrebbe dovuto essere espiato interamente tra le mura del carcere, trasferendolo in un contesto extra murario.

Ebbene, l’incidenza degli istituti di quest’ultima categoria sulla concreta dinamica della pena da eseguire è del tutto evidente, cosicché rispetto a questi si dovrebbe invocare un’estensione del principio di irretroattività delle modifiche sfavorevoli che attengano ai presupposti di questa misura.

3. Venendo alla seconda sollecitazione del giudice relatore, rispondo positivamente alla sua domanda: esiste un ulteriore parametro ed è quello offerto dall’art. 27 comma 3, ciò in quanto la garanzia dell’irretroattività non si atteggia solo e tanto a diritto di protezione del singolo (Schutzrecht), rispetto all’arbitrio punitivo dello Stato, ma opera altresì a garanzia della proporzionalità della pena inflitta -e dunque della funzione rieducativa della pena – nel momento della decisione giudiziale, ergendosi al contempo a difesa della stessa discrezionalità giudiziale, vincolata al rispetto dei principi costituzionali, come si comprende se solo si tenta di rispondere a questa domanda: il giudice, all’esito del processo di cognizione, dovendo commisurare la pena tra un minimo ed un massimo, avrebbe irrogato la stessa pena se avesse saputo che quella sanzione, in concreto, non sarebbe più risultata suscettibile di convertirsi in misura alternativa, ma avrebbe aperto le porte del carcere?

4. Non mi pare peraltro, Presidente, che la giurisprudenza di questa Corte evocata dall’Avvocato dello Stato contrasti con la possibilità di differenziazione perché, sia la sentenza n. 273 del 2001[5], che l’ordinanza n. 280 del 2001[6], insistono nel tentare di escludere dal raggio di azione dell’irretroattività determinate modifiche normative, segnalando, nel primo caso, che la disciplina censurata non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale, e nel secondo, che non comporta una modificazione dei presupposti sostanziali dei permessi premio.

5. Le perplessità di ordine costituzionale si ispessiscono se si getta uno sguardo sul diritto comparato, che avvalora questo cambio di prospettiva, invitandoci a guardare la questione non solo dalla prospettiva di inquadramento formale (fase di cognizione/fase esecutiva), e statocentrica, bensì dall’incidenza concreta sui diritti fondamentali del soggetto, attenta alle “quote di libertà” intaccate dal mutamento del quadro normativo.

La questione risulta, infatti, percorsa da un ricco numero di precedenti giurisprudenziali delle Alte Corti europee, tra le quali il Conseil Constitutionnel, che sin da 1986 ha dato una risposta diversificata: non ha effettivamente rinunciato all’idea di distinguere le norme sostanziali, o le norme relative al processo di cognizione, dalla fase esecutiva, ma ha esteso progressivamente a determinate misure (o modifiche normative che avevano comunque un contenuto afflittivo per il singolo), la garanzia della irretroattività[7]; sulla scorta di tale pronuncia, in occasione della riforma 
del codice penale del 1992, il legislatore francese, all’art. 112-2, comma 3, ha addirittura previsto espressamente di estendere la garanzia della irretroattività alle norme esecutive (sino a sancire espressamente che “quelle leggi che ha avranno come risultato di rendere più severe le pene pronunciate dalla decisione di condanna non sono applicabili che alle condanne pronunciate per dei fatti commessi posteriormente alla loro entrata in vigore”)[8].

E’ importante richiamare anche la decisione notissima in cui il Conseil Constitutionnel, in materia di “rétention de sûreté”, pur non riconoscendo una natura sostanziale a quell’istituto e pur rigettando le doglianze in punto evocate dai rimettenti, ha affermato l’irretroattività della misura sulla base del contenuto privativo della libertà e della severità della medesima, evocando – in filigrana – l’idea del mantenimento e della preminenza del diritto tipica dello Stato di diritto[9].

Questo dell’aggravamento del carico sanzionatorio é un principio di fondo che ritorna frequentemente anche nelle decisioni della Corte Suprema americana, che, in tema di “parole”, ossia di liberazione condizionale, evoca l’idea che debba essere garantita l’irretroattività di fronte ad ogni ipotesi in cui vi sia “a sufficient risk of increasing for the punishment“ , ovvero ove vi sia un sufficiente rischio di aumento di aggravamento della punizione in concreto[10].

Il principio secondo cui la garanzia dell’irretroattività deve essere estesa ad ogni ipotesi in cui la modifica normativa abbia un significativo impatto sulla libertà dell’imputato, è stato accolto anche dalla Corte Suprema canadese, di cui merita una segnalazione il caso R. contro K.R.J. del 2016[11].

Ma è orientamento consolidato anche dello stesso Tribunale Costituzionale tedesco che, pur mantenendo una distinzione tra norme di diritto sostanziale attinenti alla cognizione e norme esecutive, ed evitando di estendere la garanzia in modo generalizzato alle norme dell’esecuzione, conserva sempre e costantemente[12], il limite del rispetto del principio di determinatezza dello Stato di diritto di cui all’art. 20, comma 3 GG[13].

In estrema sintesi, questa indagine comparatistica sembra confermare la questione di fondo di cui ci stiamo occupando, che non lasciandosi inquadrare in contenitori, categorie e concetti formali, muove dalla prospettiva di tutela dei diritti fondamentali, della preminenza del diritto, della rule of law. Ed è per questa idea che allo Stato è precluso il “cambiare le carte in tavola a sorpresa”, perché ha il dovere di garantire il cittadino rispetto ai mutamenti arbitrari del quadro normativo, ossia le clausole fondamentali che lo Stato ha contratto nel patto sociale con il cittadino, che altrimenti finirebbe per essere un suddito assoggettato alla volubilità e all’arbitrio del Leviatano.

6. Un’ultima riflessione in risposta alla terza sollecitazione del giudice relatore, che interpella direttamente il diritto di difesa: se non fosse estesa la garanzia dell’irretroattività a questa tipologia di modifiche, ne nascerebbero a catena delle questioni di costituzionalità consequenziali.

Così, in materia di riti speciali, la disciplina del patteggiamento dovrebbe essere ritenuta costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la revoca del consenso prestato dal soggetto all’accordo negoziale sulla pena, a seguito del mutamento medio tempore del quadro normativo.

Ancora, la stessa disciplina del rito abbreviato – sempre con riguardo al tema dell’affidamento e del diritto di difesa – dovrebbe essere incisa dalla Corte nella parte in cui non consente di ritornare sui propri passi e richiedere di procedersi con rito ordinario di fronte a un mutamento della stessa qualità della pena immediatamente riconnessa alla pena concretamente irrogata.

Sono tutte questioni consequenziali che si aprirebbero qualora non fosse riconosciuta l’irretroattività della misura.

7. Pertanto, Presidente, insisto per l’accoglimento delle questioni di costituzionalità ovvero, come evidenziato nella memoria, intervento interpretativo correttivo da parte di questa Corte, che appare comunque percorribile a fronte di un diritto vivente che non sembra né coriaceo, né consolidato.


* Trascrizione della discussione, minimamente rivista e corredata dei riferimenti giurisprudenziali citati.

[1] Corte cost., sent. 10 aprile 2018 n. 115, Pres. e Est. Lattanzi, nonché Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, Pres. Grossi, Est. Lattanzi.

[2] Grande Camera, 21 ottobre 2010, Del Rio Prada c. Spagna, [GC] 42750/09. In tale pronuncia, la Corte – superando la propria precedente posizione – ha esteso il principio di irretroattività (art. 7 CEDU) ad una modifica delle regole di esecuzione della pena, alla luce della significativa incidenza sulla concreta durata della stessa, censurando il mutamento giurisprudenziale che aveva riguardato la determinazione della base per calcolare il momento della liberazione anticipata delle ipotesi di cumulo delle pene, comportando di fatto un prolungamento retroattivo della pena per la ricorrente dettato essenzialmente dall’allarme sociale destato dal reingresso in società di ex terroristi indipendentisti.

[3] F. BRICOLA, Le misure alternative alla pena nel quadro di una «nuova» politica criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, 33 ss.

[4] Corte Cost. sent. 17 giugno 2013 n. 143, Pres. Gallo, Est. Frigo. Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b) promosso da un Magistrato di sorveglianza di Viterbo in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, comma 3, della Costituzione, la Corte ha stabilito che le restrizioni in questione (in forza delle quali i detenuti sottoposti al regime penitenziario speciale sono ammessi ad effettuare con i difensori, «fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari», pari rispettivamente a dieci minuti e a un’ora) «per il modo in cui sono congegnate, si traducono in un vulnus del diritto di difesa incompatibile con la garanzia di inviolabilità sancita dall’articolo 24, secondo comma, della Costituzione».

[5] Corte Cost., sent. 5 luglio 2001 n. 273, Pres. Ruperto, Est. Neppi Modona. Di fronte al novum normativo consistente dell’inserimento di presupposti di accesso alla liberazione condizionale – quale la collaborazione con la giustizia, introdotta come requisito per l’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge sull’ordinamento penitenziario, (introdotto dall’art. 15 d.l. n. 306 del 1992, nel primo periodo del comma 1 dell’art. 4 bis, in precedenza introdotto dall’art. 1, d.l. n. 152 del 1991) – ha motivato l’infondatezza proprio affermando che «la disciplina censurata non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale», traendone la conclusione che essa «rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.».

[6] Id., ord. 5 luglio 2001, n. 280. La Corte era stata interpellata in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, primo periodo, ord. pen., come modificato dall’art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, «nella parte in cui preclude l’accesso ai permessi premio ai soggetti condannati per i reati ivi indicati che non collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, anche nell’ipotesi in cui la sentenza di condanna è precedente all’entrata in vigore della legge di modifica, assumendo il contrasto di tale disciplina con il principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.». La Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione prospettata «in quanto la disciplina impugnata, non comportando una modificazione dei presupposti sostanziali dei permessi premio, rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.». In effetti, tale modifica normativa concerneva modifiche circa la concedibilità dei permessi premio di indubbia natura afflittiva, ma solo indirettamente afflittiva. Infatti, la categoria dei permessi premio rientra tra gli istituti che consentono l’esecuzione di parte della pena al di fuori delle mura carcerarie, secondo la tripartizione che si è proposta, e non tra gli istituti che incidono più direttamente sulla concreta durata della pena detentiva.

[7] Cons. cost., décision du 3 sept. 1986, n. 86-215. Il Conseil ritenne che «le principe de non-rétroactivité ne concerne pas seulement les peines prononcées par les juridictions répressives mais sétend à la période de sûreté qui, bien que relative à l’exécution de la peine, n’en relève pas moins de la décision de la juridiction de jugement qui, dans les conditions déterminées par la loi, peut en faire varier la durée en même temps qu’elle se prononce sur la culpabilité du prévenu ou de laccusé» posto che «lappréciation de cette culpabilité ne peut, conformément au principe de non-rétroactivité de la loi pénale plus sévère, être effectuée qu’au regard de la législation en vigueur à la date des faits», in http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/les-decisions/acces-par-date/decisions-depuis-1959/1986/86-215-dc/decision-n-86- 215-dc-du-03-septembre-1986.8285.html.

[8] Si tratta, in effetti, di una soluzione ancor più avanzata di quella che aveva caratterizzato la decisione del Conseil Constitutionnel, il quale aveva circoscritto il principio di diritto alle sole ipotesi in cui l’adozione della misura di esecuzione della pena promanasse da una “juridicion de jugement” e comportasse un apprezzamento in termini di “culpabilité”, tanto che alcuni settori della dottrina hanno ritenuto che, in difetto di tali condizioni, la soluzione codicistica non abbia rango sovralegislativo. In effetti, tale conclusione è stata espressamente recepita dal Conseil Constitutionnel nella decisione sulla legge che ha introdotto la possibilità di disporre un regime di surveillance judiciaire in occasione della liberazione di un soggetto condannato, laddove vi sia un fondato motivo di ritenere elevato il rischio di recidiva, anche per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella (istituto che comporta una varietà di prescrizioni, tra cui l’adozione del braccialetto elettronico/surveillance elctronique). Sulla scorta di tale premessa, quindi, il giudice costituzionale, nella sentenza n. 527 del 8 dicembre 2005, ha rigettato le questioni di costituzionalità qualificando la misura come mera modalità di esecuzione della pena (essendo limitata alla durata corrispondente alla riduzione della pena di cui ha beneficiato il condannato), proprio in quanto non proveniente da una “juridiction de jugement” e non legata ad un giudizio in termini di culpabilité, bensì di pericolosità, rispondendo quindi a finalità preventive.

[9] Cons. cost., décision du 21 fevr. 2008, n. 2008-562. Se da un lato è stato confermato che tale disciplina non è subordinata al principio di irretroattività stabilito dall’art. 8 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789, proprio in ragione del carattere preventivo, dall’altro la decisione si caratterizza per un dispositivo che finisce di fatto per contraddire tale premessa argomentativa nel momento in cui viene dichiarata illegittima la retroattività della rétention de sûreté (ma non anche della surveillance de sûreté), sulla base del contenuto privativo della libertà e della severità della medesima, pur senza indicare il parametro costituzionale a sostegno di tale conclusione. In particolare, il Conseil constitutionnel, al § 10 della decisione, afferma che tale misura «[…]  avuto riguardo alla sua natura privativa della libertà, alla durata di tale privazione, al suo carattere rinnovabile senza limiti e al fatto che è pronunciata dopo una condanna da parte di una giurisdizione, la misura non potrebbe essere applicata ai condannati prima della pubblicazione della legge o condannati posteriormente sulla base di fatti commessi anteriormente», in https://www.conseil-constitutionnel.fr/decision/2008/2008562DC.html.

[10] In particolare, nel 1980, in Weaver v. Graham, la Corte afferma che il principio ex post facto impedisce al legislatore di mutare con effetto retroattivo la durata dei termini richiesti ex lege per beneficiare della “liberazione condizionale” giacché ne deriverebbe un generale peggioramento del trattamento sanzionatorio con effetti in malam partem per il condannato. La modifica sul parole incide in termini effettivi sulla sentenza di condanna, rendendosi necessario prevenire ogni forma di esercizio arbitrario e “vendicativo” del potere punitivo. A partire da questa decisione – e nonostante l’approccio adottato in Collins – con riferimento al parole la giurisprudenza si dimostra piuttosto costante nel vietarne l’applicazione retroattiva con effetti sfavorevoli per il reo. Nel 1995, un caso particolare: un soggetto già condannato per omicidio commette un secondo omicidio, per un recidivo di un reato tanto grave le possibilità di beneficiare del parole sono basse (California Department of Corrections v. Morales). Pertanto, la Corte acconsente a dare applicazione retroattiva a una previsione di modifica processuale che svantaggia il condannato, facendo leva sulla scarsa probabilità che il beneficio sarebbe in ogni caso stato riconosciuto. La nozione estesa del principio ex post facto è, però, dopo poco, ribadita in Lynce v. Mathis (1997) ove la Corte afferma che la violazione si riscontra se solo sussiste “a sufficient risk of increasing the measure of punishment attached to the covered crimes” (Garner v. Jones, 2000), rendendo Morales un caso isolato. Le conclusioni di Garner però non furono prive di ripercussioni. Le corti locali insistono sul fatto che sia il condannato a dover provare il “sufficient risk of increasing”, interpretando la decisione della Corte Suprema come una chiara indicazione in punto di onere della prova.

In sostanza: non solo il principio di irretroattività, anche per gli istituti dell’esecuzione penale, opera ogni volta che la modifica normativa comporta uno svantaggio, “by, inter alia, increasing the punishment for the crime”; ma anche solo se vi è un “sufficient risk” di tale aggravamento.

[11] R. v. K.R.J., 2016 SCC 31, [2016] 1 S.C.R. 906. La Corte Suprema era chiamata a decidere sull’applicazione retroattiva della modifica intervenuta nel 2012, che amplia la possibilità per il giudice di disporre – insieme al provvedimento di condanna per reati sessuali e pedopornografici – ulteriori preclusioni a carattere interdittivo (impossibilità di contatti con chiunque abbia meno di sedici anni, impossibilità di usare i social network). La Corte di primo grado aveva qualificato queste misure come punishment, inibendone l’applicazione retroattiva. Al contrario, il giudice di secondo grado ritiene che la finalità di prevenzione e sicurezza pubblica prevalga sullo scopo afflittivo: non trattandosi di sanzioni in senso stretto possono essere applicate retroattivamente. Sul punto, la Corte Suprema afferma che la nozione di penalty è integrata in presenza di tre condizioni: « a) the measure must be a consequence of a conviction that forms part of the arsenal of sanctions to which an accused may be liable in respect of a particular offence; b) it must be imposed in furtherance of the purpose and principles of sentencing; c) it has a significant impact on an offender’s liberty or security interests».

La terza condizione rappresenta una accezione maggiormente garantistica del test individuata dalla stessa giurisprudenza della Corte Suprema. In tale prospettiva, la modifica intervenuta nel 2012 rappresenta un punishment e non può essere applicata retroattivamente.

[12] La posizione assolutamente maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, anche costituzionale, è che il principio di irretroattività sancito dall’Art. 103 comma 2 della Grundgesetz non trovi applicazione rispetto alla fase esecutiva della pena. Il principio di irretroattività trova applicazione, anche rispetto a pene alternative o sostitutive (sospensione condizionale della pena, rinuncia alla pena § 59 ss. StGB), soltanto nelle ipotesi nelle quali queste siano già irrogate nel giudizio di cognizione (cfr. Hecker, § 2 StGB, Schönke/Schröder (a cura di), StGB, 2019, paragrafo 4; Remmert, Art. 103 GG, cit., paragrafo 74). Si veda, in proposito, nella giurisprudenza una serie di casi riguardanti una modifica peggiorativa della disciplina della revoca della sospensione condizionale della pena (OLG Dresden, Decisione del 8 aprile 2008 – 2 Ws 183/07M, in StV 2008, 313 s.; OLG Saarbrücken, Decisione del 6 agosto 2007 – 1 Ws 124/07, in NStZ-RR 2008, 91 ss.). La giurisprudenza del BVerfG ha fatto propria questa interpretazione dell’ambito di applicazione del principio di legalità sancito dall’Art. 103 comma 2 della Grundgesetz, escludendo, ad esempio, da tale ambito le norme in materia di permessi premio per gli ergastolani, seppur con riferimento al diverso corollario del principio di determinatezza (BVerfG, Decisione del 28 giugno 1983 – 2 BvR 539, 612/80 in NJW, 1984, 33 ss.), e le norme in materia di liberazione condizionale per gli ergastolani, sempre con riferimento al diverso corollario del principio di determinatezza (BVerfG, Decisione del 3 giugno 1992 – 2 BvR 1041/88, 2 BvR 78/89, in NJW, 1992, 2947 ss.).

[13] Infatti, in entrambe le decisioni il BVerfG ha ricordato che trova applicazione comunque il generale principio di legalità per qualsiasi limitazione di un diritto fondamentale, pur meno stringente che in materia penale. In particolare, nella seconda delle decisioni citate (BVerfG 3 giugno 1992 – 2 BvR 1041/88), il BVerfG ricorda, come da costante giurisprudenza, che «Il grado di determinatezza per una legge restrittiva della libertà personale (Art. 2, comma 2 e art. 104, comma 1 GG) va ricavato dal generale obbligo di determinatezza dello stato di diritto di cui all’art. 20, comma 3 GG. L’art. 103, comma 2 GG racchiude sì secondo la costante giurisprudenza della Sezione non solo la fattispecie incriminatrice, ma anche la comminatoria edittale; tuttavia qui non è in discussione la pena irrogata dal tribunale e il suo fondamento nel paragrafo 211 StGB. Le pretese dell’obbligo di determinatezza proprio dello stato di diritto sono in ogni caso tanto più stringenti, quanto più intensa è l’aggressione al diritto fondamentale, per cui il grado di determinatezza costituzionalmente richiesto dipende dalla particolarità di ciascun istituto e dalle circostanze, che conducono all’applicazione della disciplina normativa». Come spesso fa, il BVerfG ricava principi (in questo caso la determinatezza delle leggi limitative di diritti fondamentali) dal carattere dello Stato di diritto della Repubblica tedesca, a sua volta ricavato interpretativamente dal testo, piuttosto essenziale, dell’art. 20, comma 3 della GG. (Die Gesetzgebung ist an die verfassungsmäßige Ordnung, die vollziehende Gewalt und die Rechtsprechung sind an Gesetz und Recht gebunden./La legislazione è subordinata all’ordinamento costituzionale, il potere esecutivo e la giurisprudenza alla legge e al diritto).