TRASFERIMENTI DEI MAGISTRATI E FUNZIONALITÀ DEGLI UFFICI GIUDIZIARI – DI DANIELA CAVALLINI
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TRASFERIMENTI DEI MAGISTRATI E FUNZIONALITÀ DEGLI UFFICI GIUDIZIARI
di Daniela Cavallini*
La relazione, rivista dall’autrice, tenuta nel corso della manifestazione “In difesa del principio di immutabilità del Giudice” del 28.06.2022 durante l’astensione dei penalisti italiani, nella sessione “Le regole, la presa di posizione degli studiosi del processo”.
Il tema dell’immutabilità del giudice nel processo può essere analizzato non solo sul piano processuale ma anche su quello ordinamentale, cioè con riguardo alla disciplina che regola lo status del magistrato. Ai profili ordinamentali è dedicato, nello specifico, il presente intervento. Ordinamento giudiziario e fisionomia del processo sono àmbiti strettamente collegati tra loro, che si influenzano a vicenda.
Le “girandole dei giudici nei processi” (come è stato scritto di recente in alcuni articoli di stampa), e cioè i continui mutamenti del giudice nel corso del processo come effetto della sentenza Bajrami, rappresentano un problema innanzitutto di tipo ordinamentale che ha a che fare con la mobilità dei magistrati (da un ufficio all’altro o da una funzione all’altra) nel corso della loro carriera. La sentenza Bajrami ci fornisce, dunque, l’occasione per riflettere sulla disciplina dei trasferimenti dei giudici e sulle sue ripercussioni sui processi in corso.
Come noto, i trasferimenti dei magistrati sono prevalentemente vocazionali, cioè volontari. Essi si fondano sulle domande dei magistrati interessati e sulla formazione di graduatorie tra i vari aspiranti sulla base di punteggi che riguardano le attitudini, lo stato di famiglia e di salute, il merito e l’anzianità. Vi sono però anche trasferimenti richiesti dalla legge perché ad es. connessi alla temporaneità di alcune funzioni o per favorire la copertura di sedi disagiate, oppure in conseguenza del generale divieto di permanenza ultradecennale del magistrato nella stessa sede o funzione.
Data questa complessità, i trasferimenti dei magistrati richiedono un’attenta gestione e programmazione, in modo che essi abbiano il minore impatto possibile sui processi in corso, sulla continuità del servizio e, in generale, sulla funzionalità degli uffici giudiziari. Ciò risponde anche al principio del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ritenuto applicabile anche all’amministrazione della giustizia.
A tal riguardo, due punti meritano di essere sottolineati: 1) La disciplina attuale dei trasferimenti non pone la dovuta attenzione alla questione del destino dei procedimenti già assegnati al giudice da trasferire; 2) La questione da affrontare è anche di tipo organizzativo, non riguarda solo il magistrato da trasferire, ma chiama in causa direttamente anche il Csm e i dirigenti degli uffici giudiziari.
1) I trasferimenti dei magistrati sono regolati dalle norme generali di ordinamento giudiziario che ne disciplinano condizioni e limiti, cercando di contemperare le esigenze di mobilità del magistrato con quelle di funzionalità del servizio giustizia (v. in particolare gli artt. 10 e 10-bis, nonché gli artt. 192 e 194, r.d. n. 12 del 1941). Alla legislazione primaria si aggiunge la normativa di dettaglio dettata dal Csm attraverso le proprie circolari.
Le norme generali nulla dicono in merito al destino dei procedimenti già assegnati al magistrato da trasferire. Vi sono, invece, alcune norme specifiche che possono essere utili a tal fine.
La prima è contenuta nell’art. 19 del d.lgs. n. 160/2006. La norma si riferisce, in particolare, al trasferimento del magistrato a seguito del maturare del termine massimo decennale di permanenza nella medesima sede o funzione. La norma prevede una proroga, per un periodo non superiore a due anni, dello svolgimento delle funzioni del magistrato trasferito limitatamente alle udienze preliminari già iniziate e per i procedimenti penali per i quali sia stato già dichiarato aperto il dibattimento. Prevede, altresì, che nei due anni antecedenti la scadenza del termine di permanenza decennale, ai magistrati non possano essere assegnati procedimenti la cui definizione non appare probabile entro il termine di permanenza nell’incarico.
Al di là di questo caso specifico, la questione dei procedimenti pendenti a carico del magistrato trasferito viene generalmente risolta facendo ricorso ad altri istituti, come ad es. il posticipato possesso, la sospensione del trasferimento ad opera del Csm per gli uffici con una forte scopertura di organico, l’applicazione temporanea del magistrato trasferito (anche ad processum, cioè limitatamente alla trattazione di singoli processi). L’efficacia di questi istituti è però limitata. Nella maggior parte dei casi, infatti, al magistrato trasferito viene attribuito un nuovo ruolo di cause nell’ufficio di destinazione che si va a cumulare con quello da smaltire nell’ufficio di provenienza, creando inevitabilmente dei ritardi su entrambi i fronti. Ricordo, ad es., vari procedimenti disciplinari per ritardi del magistrato nell’espletamento di attività dovute riconducibili al fatto che il magistrato “aveva lasciato indietro i vecchi processi” per dedicarsi a quelli di nuova assegnazione.
Un’altra norma rilevante è l’art. 194, r.d. n. 12/1941. Per limitare la mobilità volontaria dei magistrati il legislatore ha progressivamente aumentato, nel corso del tempo, il numero minimo di anni in cui il magistrato deve permanere nella stessa sede o funzione prima di poter chiedere un trasferimento. Dal 2016 il termine minimo è di 4 anni, in passato è stato di 3 e di 2 anni. Aumentare questo lasso di tempo non risolve, di per sé, il problema del mutamento del giudice nel processo, può però diminuirne l’incidenza.
Spostando l’attenzione sulla normativa secondaria, di particolare interesse è l’art. 121 della circolare sulle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti 2020-2022. Secondo questa norma, i dirigenti degli uffici, in previsione della decorrenza dell’efficacia del tramutamento del magistrato, individuano, con apposito provvedimento motivato, i procedimenti penali in avanzato stato di istruttoria (…) che dovranno essere dallo stesso portati a termine, contemperando tale individuazione con il carico di lavoro prevedibile che sarà assegnato al magistrato nel posto di destinazione.
All’interno di questa cornice normativa si inserisce la proposta dell’UCPI volta a rafforzare la tutela ordinamentale della stabilità del giudice nel processo. La proposta, più che opportuna e condivisibile considerati gli effetti della sentenza Bajrami e le continue “girandole” dei giudici nei processi, prevede di introdurre una disciplina più stringente in tema di trasferimenti dei giudici, disponendo, per via legislativa e generale, l’obbligo per il giudice che richiede un trasferimento di portare a termine i procedimenti a lui già assegnati, o comunque già iniziati. In questo modo, il problema viene affrontato “a monte”: non ci si concentra infatti sulle conseguenze processuali del mutamento del giudice nel processo ma si cerca di evitare “a monte” che tale mutamento vi sia; il giudice, infatti, potrà richiedere il trasferimento solo a condizione che porti a termine i processi in corso.
Varie potrebbero essere le formulazioni. La norma potrebbe trarre spunto dall’art. 19 sopra citato e renderlo di applicazione generale; oppure si potrebbe prevedere un punteggio aggiuntivo (visto che i trasferimenti avvengono sulla base di punteggi), o altro “trattamento premiale”, che consenta al magistrato che ha concluso i procedimenti a suo carico di prevalere sugli altri aspiranti al trasferimento (in questo modo sarebbe interesse dello stesso magistrato ultimare i processi in corso).
2) La nuova disposizione proposta dall’UCPI, qualora venisse introdotta, richiederebbe un impegno non solo del giudice interessato ma anche del Csm e dei dirigenti degli uffici giudiziari al fine di organizzare al meglio il lavoro del giudice in previsione del suo trasferimento. Solo così la norma potrebbe essere effettiva, stante l’enorme mole di lavoro che generalmente grava sul ruolo dei giudici. Ad esempio, è una norma di tipo organizzativo quella prevista dal citato art. 19, secondo la quale: “nei due anni antecedenti la scadenza del termine di permanenza decennale, ai magistrati non possono essere assegnati procedimenti la cui definizione non appare probabile entro il termine di permanenza nell’incarico”.
La collaborazione dei magistrati dirigenti e del Csm, in base alle rispettive competenze, sarebbe quindi necessaria per l’attuazione della nuova norma. Il Csm, del resto, si comporta da tempo come il “vertice organizzativo della magistratura” (definizione su cui si potrebbe discutere a lungo), arrivando a occuparsi dell’organizzazione interna degli uffici giudiziari. Anzi, esso ritiene addirittura che rientri tra le proprie competenze istituzionali quella di garantire la funzionalità degli uffici giudiziari.
Si prospetterebbe quindi al Csm un’occasione per dimostrare la propria capacità organizzativa a tutela di principi fondamentali come quelli dell’immediatezza, del giusto processo, del giudice naturale e, più in generale, del buon funzionamento degli uffici. Del resto, come già anticipato sopra, una migliore funzionalità degli uffici giudiziari (argomento attualmente al centro dell’agenda politica, considerati gli obbiettivi posti dal PNRR) potrebbe essere raggiunta non tanto “alleggerendo” le conseguenze processuali del mutamento del giudice nel processo quanto, invece, evitando “a monte” che tale mutamento si verifichi. Questo sì che è funzionale e dovrebbe far riflettere il Parlamento e la Ministra della giustizia.
*Prof.ssa Associata di Ordinamento giudiziario, Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università di Bologna