REI DI “RAVE” – DI ETTORE GRENCI
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REI DI “RAVE”.
di Ettore Grenci*
Una prima riflessione sul delitto di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, introdotto dall’art. 434 bis c.p. con il Decreto Legge del 31 ottobre 2022, n. 162.
1. Il dibattito intorno all’introduzione del reato di cui all’art. 434 bis c.p. 2. Uno sguardo al resto d’Europa. 3. I beni in gioco: il principio di legalità, ed il suo corollario principio di tassatività. 4. Le aperture a possibili modifiche alla norma e la loro sostanziale inutilità: uno sguardo all’interno dell’attuale sistema penale. 5. Le ulteriori criticità della norma e gli auspici per il futuro.
- Il dibattito intorno all’introduzione del reato di cui all’art. 434 bis c.p.
L’introduzione del delitto di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, attraverso la creazione di una nuova norma del Codice penale (l’art. 434 bis c.p.), ha giustamente generato un serrato dibattito critico che ha coinvolto non solo l’avvocatura ma anche esponenti dell’università, del giornalismo, della magistratura e del mondo politico.
Le principali censure hanno avuto ad oggetto sia il metodo che il merito della riforma legislativa.
Il metodo, ovvero la creazione di un nuovo reato per decreto legge, è stato ritenuto del tutto inappropriato anzitutto per l’assenza di effettive condizioni di necessità ed urgenza, ma anche per un approccio che limita fortemente il dibattito parlamentare su interventi normativi che richiederebbero un attento bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e diritti di rango Costituzionale (fra tutti quelli che riconoscono la libertà di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero).
Quanto al merito, sono proprio i possibili (anzi, certi) punti di contrasto del nuovo reato con libertà fondamentali in un ordinamento democratico che hanno fatto parlare di norma palesemente illiberale, se non “liberticida”[1].
Il punto critico è la pericolosa combinazione di due componenti che lascerebbero aperti spazi a possibili abusi ed arbitrii nell’applicazione del reato: la radicale carenza di tassatività del precetto normativo (declinato attraverso concetti assolutamente vaghi ed indeterminati), unita ad una risposta sanzionatoria (da tre a sei anni di reclusione) che appare ictu oculi sproporzionata rispetto alla concreta offensività della condotta.
Le voci dissenzienti che, su questi aspetti, stanno via via emergendo nel corso del dibattito pubblico sono pienamente condivisibili.
Ma una seria e non ideologica critica a questa novità legislativa non può prescindere da un punto di partenza necessario e doveroso, che riguarda le ragioni poste a giustificazione delle paventante condizioni di necessità ed urgenza che hanno legittimato il ricorso allo strumento del Decreto Legge. Si possono invero individuare circostanze che sono ben lontane da questa situazione fattuale, e che consentono di ritenere come gli argomenti utilizzati per evitare un serio ed approfondito dibattito parlamentare ricadono, per la maggior parte, in una logica schiettamente propagandistica.
Anzitutto, uno sguardo ai nostri “vicini”.
- Uno sguardo al resto d’Europa.
Una delle narrazioni che ha accompagnato questa innovazione legislativa è la presenza in altri ordinamenti europei di norme specifiche per la prevenzione e punizione di condotte riconducibili alla organizzazione e partecipazione ai c.d. “rave party”, e dunque alla necessità che il nostro Paese non divenga una sorta di porto franco in cui si possa impunemente fare ciò che è vietato in altri stati europei.
È una narrazione che deve essere decisamente smentita.
Gli unici Stati europei che si sono dati delle norme penali specifiche per contrastare il fenomeno dei “rave selvaggi” sono la Francia e l’Inghilterra, che tuttavia presentano caratteristiche descrittive e sanzionatorie profondamente diverse rispetto al reato che si intende introdurre con l’art. 434 bis c.p.
In Francia, il fenomeno dei “rave” è regolato da una legge del 2001, la c.d. “Legge Mariani”, che non vieta queste forme di raduno, ma al contrario le ammette a determinate e precise condizioni, prevedendo in particolare una disciplina articolata per la loro organizzazione.
Più precisamente, si prevede che essi debbano essere dichiarati alle autorità locali almeno un mese prima del loro svolgimento. Il procedimento per la loro autorizzazione varia poi a seconda del numero dei partecipanti: se superiori a 250 occorre l’autorizzazione del Prefetto, che può anche vietare o sciogliere i raduni in corso che non presentino garanzie di sicurezza. Le forze dell’ordine possono sequestrare il materiale di amplificazione o i mezzi che lo trasportano e successivamente confiscarlo su decisione del Giudice. L’uso della forza pubblica è possibile se il raduno non è stato autorizzato o è stato espressamente vietato. Tale soluzione estrema viene però applicata soltanto se il “rave” presenta rischi eccezionali.
Per quanto concerne le sanzioni, gli organizzatori di raduni illegali possono incorrere in pene fino a 6 mesi di arresto e 4.500 euro di ammenda, mentre i partecipanti non sono penalmente perseguibili.
Per comprende appieno la reale portata di questa disciplina sotto il profilo sanzionatorio, si può citare il caso di un famoso “rave party” svolto nel 2018 nella ex base Nato di Marigny, per il quale non era stata rispettata la disciplina normativa poc’anzi ricordata. In quel caso sono stati incriminate e processate quattro persone ritenute responsabili di “organizzazione senza preventiva dichiarazione di un raduno festivo di natura musicale con diffusione di musica amplificata in uno spazio non sviluppato”, ed è stata loro inflitta una sanzione pecuniaria di 200,00 euro ciascuno, oltre alla confisca dei veicoli e delle loro attrezzature.[2]
Anche il Regno Unito si è dotato di una specifica disciplina normativa volta a contrastare il fenomeno dei “rave party”, che nasce, storicamente, proprio in quello Stato.
Ed infatti già con il Criminal Justice Act del 1994 è stato trasformato in reato quello che prima era un illecito civile.
La legge – al contrario di quella proposta oggi dal nostro esecutivo – è molto dettagliata sia per quanto riguarda la esatta definizione di “raduno illegale” sia per quanto concerne i poteri concessi alle forze dell’ordine. Il “rave party” è definito “un raduno di 20 o più persone dove viene suonata musica amplificata di notte”, che “per il rumore e la durata e il momento del giorno in cui viene suonata, potrebbe creare fastidio ai residenti”.
La legge si spinge anche oltre nello sforzo di dare maggiore tassatività alla disciplina, chiarendo cosa si intenda per musica: “anche ciò che include suoni del tutto o in modo predominante caratterizzati dall’emissione di beat ripetitivi”.
Accanto a questa peculiare tassatività della disciplina normativa (tanto più importante quando sono in gioco diritti fondamentali), la differenza più significativa rispetto al nuovo reato di cui all’art. 434 bis c.p. è l’entità della pena, posto che la Legge inglese prevede che “Se la persona non lascia il terreno appena è ragionevolmente fattibile (dopo l’intervento delle forze dell’ordine) commette un reato e è punibile con la detenzione per una durata non superiore ai 3 mesi o con una multa”.
Gli altri paesi europei non prevedono specifiche normative penali per il fenomeno dei rave party.
Da questa brevissima esposizione – che non ha alcuna pretesa di esaustività – si può concludere per una sostanziale e profonda divergenza tra le normative degli altri paesi europei e quella che si vorrebbe introdurre in Italia, che diverrebbe così la più severa nel panorama europeo per quanto concerne il contrasto al fenomeno dei “rave party”.
Ma, paradossalmente, questo potrebbe addirittura diventare il problema meno serio e meno grave.
- I beni in gioco: il principio di legalità, ed il suo corollario principio di tassatività.
Infatti, il punto di profonda frattura con le altre normative europee di settore non riguarderebbe solo l’entità delle sanzioni penali – qui obiettivamente sproporzionate ed irrazionali rispetto alla concreta offesa al bene giuridico tutelato – ma ancor di più la combinazione tra questa severità sanzionatoria con la grave indeterminatezza che caratterizza la formulazione descrittiva del nuovo reato nella delimitazione della condotta punibile, che ha consentito di parlare di una “pericolosa truffa delle etichette”[3].
Il principio di necessaria tassatività della normazione penale è corollario imprescindibile del principio di legalità sostanziale previsto dall’art. 25 della Costituzione, che impone espressamente al Legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati.
Si tratta di principio che trova un riconoscimento esplicito anche nell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo quale presidio imprescindibile per garantire i cittadini dagli abusi del potere inquisitorio e giudiziario.
La necessità di creare un argine contro questi abusi è chiaramente il frutto di una scelta storicamente collocabile all’indomani della caduta dei regimi autoritari della prima metà del novecento, in cui le condizioni sociali, economiche, politiche e religiose di determinate categorie di soggetti (oziosi, vagabondi, soggetti politicamente esposti, sino ad arrivare all’infamia dei reati razziali) diveniva la pietra angolare di un sistema penale fondato sulla pericolosità sociale, e di un sistema di polizia, basato prettamente sul sospetto, che lo alimentava .
Ed è proprio per la dovuta osservanza al principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU che la disciplina normativa prevista in Francia ed Inghilterra si caratterizza per un particolare sforzo descritto nel perimetrare nel dettaglio – con puntualizzazioni che possono sembrare anche ridondanti – specifiche condotte penalmente rilevanti all’interno di un fenomeno, quello dei raduni musicali, che ontologicamente sfugge ad agevoli catalogazioni, e che soprattutto va ad innestarsi inevitabilmente su libertà previste come fondamentali in tutti quegli ordinamenti che si vorrebbero non solo definire, ma anche legittimare, come liberali e democratici.
Questo sforzo – come da molti autorevoli giuristi già evidenziato in questi giorni [4]– è del tutto assente nella norma che si intende introdurre con l’art. 434 bis c.p.
Al contrario, essa sembra rispondere a quelle pulsioni inquisitorie che avevano caratterizzato i periodi oscuri del nostro passato, in cui l’obiettivo da perseguire era una generalizzata limitazione delle libertà fondamentali sacrificabili sull’altare del supremo bene della tutela dell’“ordine sociale costituito”, quale che ne sia il costo. Ciò ovviamente ha storicamente consentito di perseguire altri e più prosaici obiettivi, ovvero la repressione delle minoranze dissenzienti, degli oppositori politici, dei liberi intellettuali non allineati al pensiero unico, dei “libertini” rei di immoralità nei costumi o nelle scelte sessuali. In una parola, dei “nemici dello Stato”.
Dunque, delle due l’una: o l’assoluta e grave approssimazione con cui è stata scritta questa norma – in totale spregio a quel principio di tassatività necessario per dare corpo e forma al principio di legalità – è il frutto di quello che il Prof. Tullio Padovani ha efficacemente bollato come un caso di “analfabetismo legislativo”[5]; oppure si tratta di un altro frutto, forse più velenoso, che fa intravedere una sottesa volontà di perseguire fenomeni sociali che si pongo al di fuori di quella che sovente viene definita “moralità pubblica”. Si punisce, cioè, non un fatto, ma determinate categorie di individui che sarebbero portatori di una pericolosità sociale derivante da loro scelte di vita, in questo caso potremmo dire da “scelte di costume”, da reprimere con la sanzione penale in quanto offensive di un bene che – sempre nei ricordati tempi oscuri – veniva spesso consacrato con la definizione di “comune senso del pudore”.
Ma si potrebbe addirittura arrivare al punto di sostenere – come qualche commentatore ha fatto – che si sia voluto surrettiziamente introdurre una norma che consentisse di incidere su un terreno ben più ampio del “rave party”, ben potendosi estendere – per i denunciati difetti di tassatività – a qualsiasi forma di manifestazione pubblica di protesta e di dissenso.
Non saprei francamente dire quale di queste possibili opzioni sia più rassicurante.
Sta di fatto che le denunciate criticità concernenti sia la smaccata irragionevolezza della entità della pena prevista dal reato, sia il pericolo che ad essere perseguite siano forme di associazione e manifestazione del pensiero che nulla hanno a che vedere con i tanto pericolosi raduni musicali, hanno provocato forti reazioni di sincera preoccupazione da parte di quella parte di giuristi, avvocati, magistrati, accademici, intellettuali, liberi pensatori e, più timidamente, esponenti politici, che ancora credono che si siano argini insuperabili in questa affannosa, e quasi irresistibile, pretesa di punire per educare.
- Le aperture a possibili modifiche alla norma e la loro sostanziale inutilità: uno sguardo all’interno dell’attuale sistema penale.
Così, pare, che qualche crepa si sia aperta in quella che fino a poche ore fa sembrava una monolitica condivisione del testo normativo da parte di tutti i soggetti politici che lo avevano proposto nel decreto Legge 162/22. Infatti, sembrano emergere, in queste ore, interventi da parte di alcuni importanti esponenti del Governo tesi a rassicurare sul fatto che nelle more della conversione la norma potrà essere modificata, introducendo possibili correttivi sul piano di una maggiore determinatezza delle condotte punibili e su quello della diminuzione della entità delle pene comminabili.
Occorre sul punto essere chiari: il problema non è superabile con un mero maquillage normativo che porti a soluzioni più “buoniste”, ma sta piuttosto nel contrastare la stessa opportunità di politica criminale di introdurre una nuova fattispecie delittuosa da aggiungere ad un sistema penale già asfittico, ormai diventato il contenitore ultimo di qualsiasi pulsione populistica, peraltro già dotato di tutti gli strumenti necessari per perseguire condotte del tutto sovrapponibili a quelle che si intendono prevenire con questo ennesimo reato.
Si pensi, ad esempio, al reato di invasione di terreni o edifici pubblici o privati di cui all’art. 633 c.p., peraltro modificato sotto il profilo sanzionatorio da uno dei tanti “decreti sicurezza” a cui ci siamo assuefatti negli ultimi anni (nella fattispecie il n. 113/18, c.d. “Decreto Salvini”), con un pesante irrigidimento delle pene detentive, passate da un minimo di giorni 15 ed un massimo di anni 2 di reclusione delle precedente previsione ad un minimo di anni 1 ed un massimo di anni 3 anni di reclusione dell’attuale, che peraltro prevede un aggravante per l’ipotesi in cui il fatto sia commesso da più di cinque persone o se commesso da persona palesemente armata per cui la pena aumenta da un minimo di anni 2 ad un massimo di anni 4 di reclusione
E forse ancor più significative, anche per la loro natura di reati più schiettamente “politici”, le fattispecie di radunata sediziosa ex art. 655 c.p. e quelle concernenti la violazione della disciplina delle riunioni o manifestazioni in luogo pubblico ex art. 18 T.U.L.P.S.
La prima punisce chiunque faccia parte di una radunata sediziosa di dieci o più persone con la pena dell’arresto fino ad un anno. Con l’aggravante prevista per chi sia in possesso di armi, per cui la pena non potrà essere inferiore a mesi sei di arresto.
Si tratta di una contravvenzione che tradisce chiaramente il contesto storico-politico da cui ha tratto origine, ovvero quello della legislazione fascista, e che nonostante ciò prevede pene assai modeste anche quando si è in presenza di soggetti armati.
Il reato di cui all’art. 18 T.U.P.S., anch’esso figlio del medesimo legislatore fascista (è inserito nel Regio Decreto n. 773/1931), punisce con la pena dell’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da 103 a 413 euro, i promotori di una riunione in luogo pubblico che non abbiamo dato avviso al Questore della stessa.
Di significativa rilevanza notare che i successivi artt. 20, 22, 23 e 24 disciplinano compiutamente le modalità con le quali l’autorità di pubblica sicurezza può intervenire per sciogliere queste manifestazioni, a svelare dunque la pretestuosità della narrazione circa la necessità ed urgenza di approvare il nuovo reato ex art. 434 bis c.p. per l’assenza di strumenti con i quali intervenire per far cessare i “rave party” e ripristinare l’ordine pubblico leso.
Ma potremmo andare oltre, citando ad esempio l’art. 654 c.p. (grida e manifestazioni sediziose), che punisce con la sola sanzione amministrativa pecuniaria chiunque, in luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico, compie manifestazioni o emette grida sedizione.
Oppure gli artt. 659 e 666 c.p., che presentano ancor più forti analogie con la tipologia di condotte a cui parrebbe voler guardare il Legislatore con l’introduzione del nuovo reato di cui ci occupiamo.
L’art. 659 punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro, chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici.
L’art. 666 c.p. punisce con sola sanzione amministrativa pecuniaria chiunque, senza licenza dell’autorità, in luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico, dà spettacoli o trattenimenti di qualsiasi natura.
La lista potrebbe non finir qui, se solo ci si volesse cimentare nella quasi impossibile opera di ricerca di reati similari nella magmatica moltitudine di norme disseminate tra codice penale, testi unici, leggi speciali, che negli anni hanno portato a creare una tanto imponente quanto confusa stratificazione di fattispecie criminose, che peraltro oggi costituisce una delle principali cause del malfunzionamento della italica “macchina giudiziaria”.
E qui l’ulteriore paradosso, che aggiunge il danno alla beffa: alla scadenza di un decisivo appuntamento per accedere al più importante progetto di finanziamenti per l’Italia dai tempi del piano Marshall (il famigerato PNRR), ci si presenta con una riforma strutturale del sistema penale e processuale (la c.d. “Riforma Cartabia”) bloccata a poche ore dalla sua entrata in vigore, e con l’introduzione di un reato che potrebbe avere conseguenze aberranti non solo sul piano delle libertà democratiche, ma anche su quello delle risorse processuali da sacrificare per accertare le responsabilità penali dei pericolosi “rei di rave”.
La lista dei reati che sopra passati in rassegna non vuole solo svelare la falsità di una rappresentazione secondo la quale oggi l’autorità di pubblica sicurezza e la magistratura avrebbero “le mani legate” per intervenire su fenomeni sociali di cui tutti noi avvertiamo quotidianamente la estrema pericolosità (chi di noi, almeno una volta, non si è trovato in pericolo di vita per essere finito accidentalmente dentro un “rave party”?).
Si intende anche rendere evidente un altro paradosso di questa storia: tutti quei reati a matrice inquisitoria o “di polizia”, introdotti nei tempi bui della dittatura, che, come visto, per natura, bene giuridico, condotta ed evento appaiono del tutto sovrapponibili a quelli presi a riferimento del nuovo “reato di rave” ex art. 434 bis c.p., al cospetto di questo ultimo prodotto della modernità legislativa sembrano brillare non solo per qualità di tecnica descrittiva, ma per illuminata ragionevolezza quanto a proporzione ed equilibrio della risposta sanzionatoria.
Si traduca pure che neanche il Guardasigilli Rocco, e l’intero suo ufficio legislativo, avrebbero potuto partorire una simile nefandezza giuridica.
- Le ulteriori criticità della norma e gli auspici per il futuro.
Le migliori e più autorevoli voci del panorama giuridico italiano – per una volta tutte d’accordo – con inusuale veemenza hanno “bocciato” una norma che definire solo inutile potrebbe rischiare di offuscare le più importanti ragioni che devono muoverci per contrastarne la sua entrata in vigore, e ciò anche qualora la si agghindi con abbellimenti od orpelli che la rendano più “presentabile”.
Non si possono infatti sottacere, oltre a quanto sin qui osservato, altre e parimenti importanti ragioni che ci fanno ritenere che la norma, quale che sia l’eventuale intervento di restyling a cui verrà sottoposta, presenterà sempre e comunque una intrinseca pericolosità per la tenuta costituzionale del nostro sistema democratico, di cui non possiamo e non dobbiamo accettarne il rischio.
Questo, anzitutto, per la scelta di inserirla nel titolo IV del Codice penale (Delitti contro l’incolumità), ed in particolare nel capo I, che come noto disciplina i “delitti di comune pericolo mediante violenza”, tra cui si possono ricordare, solo a titolo esemplificativo, i delitti di strage (art. 422 c.p.) di attentati alla sicurezza dei trasporti e degli impianti energetici (artt. 432 e 434 c.p.), di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi (art. 434 c.p.).
E’ sufficiente questa breve elencazione per far comprendere la palese irragionevolezza di tale scelta, trattandosi di una serie di fattispecie delittuose che hanno caratteristiche strutturali del tutto disomogenee e distoniche rispetto al nuovo reato di cui all’art. 434 bis c.p., peraltro molte delle quali paradossalmente punite con pene inferiori pur essendo dotate di una evidente maggiore offensività (si pensi, ad esempio, al reato di “pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento” ex art. 431 c.p., punito con la pena da due a sei anni di reclusione, e con la medesima pena minima di tre anni di reclusione prevista per il reato di cui al reato di cui all’434 bis c.p. qualora dal fatto sia derivato il disastro).
Desta dunque particolare preoccupazione il fatto che la norma penale in commento sia espressamente costruita come fattispecie di pericolo, la cui collocazione in contesto normativo che contiene anche i delitti di attentato rende evidente il rischio di una forte anticipazione della sua punibilità, senza però che esso presenti caratteristiche tali da giustificarla.
Come insegna la Corte costituzionale, è certamente riservata al Legislatore l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale fare riferimento, ma con la precisazione che “l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit”[6].
E sempre la Corte costituzionale, in diversi interventi, ha precisato che l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa[7].
E sembra proprio questo il caso, in cui la arbitrarietà e la irrazionalità risiedono nella mancanza di qualsiasi reale base empirica su cui poter costruire un giudizio presuntivo di pericolosità del “rave party” in quanto tale.
Ed in questo senso non può seriamente riconoscersi alcun valore a quella ulteriore narrazione secondo la quale i “rave” sarebbero luoghi in cui la salute pubblica è messa in pericolo per l’uso diffuso di sostanze stupefacenti o perché spesso svolti all’interno di edifici pericolanti.
Non vi sono dati statistici dotati di dignità scientifica che possano attestare e comprovare questa narrazione, che appare più che altro il frutto di prospettive soggettive fortemente condizionate da impostazioni culturali, se non ideologiche, che implicano giudizi di valore circa cosa sia il “divertimento lecito” e cosa non possa esserlo.
Ed il rischio di un tale modo di ragionare, e di legiferare, è evidente: un pericoloso scivolamento verso inammissibili forme di diritto penale da “Stato etico”.
Lo scenario così concepito, già poco rassicurante per le garanzie costituzionali, si tinge di tinte ancora più fosche se si guarda all’ulteriore modifica introdotta con il Decreto Legge in commento relativamente alla possibilità di applicare ai “soggetti indiziati” del delitto di cui all’art. 434 bis c.p. le misure di prevenzione di cui al D.lgs. n. 159/2011.
Tale ulteriore modifica rende ancor più evidente la logica prettamente securitaria ed inquisitoria che ispira l’intervento legislativo. Ad essere perseguito, infatti, non sarà solo un fatto la cui esatta dimensione appare già di per sé del tutto evanescente, ma anche la tipologia del suo autore, sulla base di una presunzione di pericolosità sociale che finisce per equiparare l’organizzatore o il partecipe di un raduno musicale ad un organizzatore o partecipe di un’associazione a delinquere di stampo mafioso.
La irragionevolezza complessiva di tale disciplina pare assumere portata tale da non consentire spazi di intervento per migliorie o correzioni, soprattutto nell’ambito di un vaglio parlamentare compromesso dai ristretti tempi imposti dal ricorso alla decretazione d’urgenza.
C’è da auspicare che ad accompagnare costantemente il dibattito parlamentare continuino ad esserci le molteplici ed autorevoli voci che oggi giustamente denunciano i rischi per le libertà fondamentali di questa norma, per sostenerne congiuntamente un quanto più rapido tramonto.
Ma anche, più in generale, perché si continui a costituire e rafforzare un argine costituzionale di contenimento contro qualsiasi pulsione restauratrice o reazionaria, in cui si possa insinuare la tentazione di sostituire un sistema fondato sul diritto penale del fatto con un altro fondato sul diritto penale dell’autore, storicamente anticamera del “diritto penale del nemico”[8].
*Avvocato del Foro di Bologna, componente dell’Osservatorio “Corte Costituzionale” dell’Unione Camere Penali Italiane
[1] Così Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, in https://www.fanpage.it/politica/le-reazioni-al-nuovo-decreto-sui-rave-party-norma-liberticida-a-rischio-diritto-di-protestare/
[2] Cfr. Giulia Merlo “In nessun paese d’Europa di rischiano 6 anni di carcere per una festa”; inhttps://www.editorialedomani.it/giustizia/decreto-anti-rave-paesi-europa-mhqcr9i2
[3] Così il titolo del comunicato della Giunta di Magistratura Democratica del 1.11.2022.
[4] Vittorio Manes, in una recente intervista al Quotidiano Nazionale, così si esprime: “Lo strumento penale è notoriamente il più grezzo per affrontare determinati fenomeni, e la scrittura del provvedimento, nella sua genericità, può prestarsi a discrezionalità pericolose”. https://www.quotidiano.net/cronaca/il-giurista-e-i-vincoli-sui-raduni-pene-alte-e-riferimenti-generici-provvedimento-scritto-male-1.8240722.
[5] “La norma anti rave: un caso di analfabetismo legislativo”, in https://www.ilfoglio.it/giustizia/2022/11/01/news/-la-norma-anti-rave-un-caso-di-analfabetismo-legislativo-parla-tullio-padovani-4615018/
[6] Cfr. Corte Costituzionale sent. n. 333 del 1991.
[7] Così, relativamente all’affermata irragionevolezza della presunzione “assoluta” di adeguatezza della sola misura della custodia
cautelare per taluni reati, le sentenze n. 265 del 2010, in materia di reati sessuali; n. 164 del 2011, in tema di omicidio volontario; n. 231 del 2011, concernente l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; n. 331 del 2011, relativa alle figure di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.
[8] Cfr. G. JAKOBS, Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutverletzung (Referat auf der Strafrechtslehrertagung in Frankfurt a.M. im Mai 1985), in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtwissenschaft, 97, 1985, p. 753 ss.