“SEPARARE E RIFORMARE LA FORZA DELLE NOSTRE IDEE PER UNA GIUSTIZIA NUOVA” – LA RELAZIONE DEL VICE PRESIDENTE DEL CSM AVV. FABIO PINELLI
PINELLI – SEPARARE E RIFORMARE – RELAZIONE.PDF
“SEPARARE E RIFORMARE – LA FORZA DELLE NOSTRE IDEE PER UNA GIUSTIZIA NUOVA”
La relazione del Vice Presidente del CSM Avv. Fabio Pinelli
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione tenuta dal Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Avv. Fabio Pinelli, nel corso del Congresso straordinario dell’Unione Camere Penali Italiane, svoltosi a Reggio Calabria dal 4 al 6 ottobre 2024.
Il 24 ottobre 1989 entrava in vigore il “nuovo” codice di procedura penale, salutato come una vera e propria “rivoluzione culturale”.
Circa dieci anni dopo, nel 1999, questi principi venivano costituzionalizzati con l’introduzione dei primi cinque commi dell’attuale art. 111 della Costituzione.
Oggi, a circa 35 anni di distanza dall’entrata in vigore del cd. “nuovo” codice, si registra l’intensificarsi del dibattito e delle iniziative per una riforma organica del pubblico ministero. Ben cinque disegni di legge costituzionale di iniziativa parlamentare pendono davanti alla Camera e al Senato in questa 19ª Legislatura (C.824, C.806, C.434, C.23 in esame in Commissione e S.504 per il quale non è ancora iniziato l’esame) cui si aggiunge il disegno di legge governativo.
Eppure, il mutamento di ruolo che la pubblica accusa aveva assunto nel nuovo modello processuale non poteva che portare a un profondo ripensamento della figura del pubblico ministero.
Pochi ricordano che lo stesso Giovanni Falcone nel 1991 – in un libro intitolato “Cose di cosa nostra” scritto in collaborazione con Marcelle Padovani – scriveva: “Con il nuovo Codice di procedura penale il pubblico ministero può essere soltanto ‘parte’ ed è quindi connaturale al suo ruolo il coordinamento delle indagini e la raccolta degli elementi a sostegno dell’accusa con la collaborazione della polizia giudiziaria. Egli deve quindi adattarsi al suo ruolo di ‘non giudice’ e trasformarsi in una sorta di avvocato della polizia. Sarà difficile, ma bisogna arrivarci”.
Parole forti sulla cui fondatezza non è opportuno oggi indugiare, ma comunque significative – anzi di più – decisive per un aspetto, meritevole di attenzione: parlare di riforma del “pubblico ministero” e di “separazione delle carriere” non è possibile se non a partire da un’idea chiara, meditata e profonda del ruolo che si intende attribuire al pubblico ministero nel processo.
Eppure, il clamore pubblico e forse lo stesso dibattito sul tema sembra concentrato sulla “coda” del problema, anziché sulla sua “testa”.
In effetti, come notano acutamente alcuni costituzionalisti (Zanon e Biondi) la figura del pubblico ministero può essere vista dal punto di vista ordinamentale – e allora l’attenzione si concentra sullo status burocratico e la sua collocazione rispetto agli altri magistrati – oppure dal punto di vista processuale – e allora l’attenzione si accentra sul ruolo e sulle funzioni che esso deve svolgere nel processo.
È vero che i due punti di vista presentano correlazioni: il riconoscimento di un certo ruolo e di una certa funzione processuale può avere ricadute sul piano ordinamentale e, in qualche modo, l’inquadramento ordinamentale può incidere sulle funzioni esercitate nel processo.
Tuttavia, il pubblico ministero è e resterà una figura processuale: l’impatto che la sua opera ha e può avere sulla vita dei cittadini – e sul “servizio giustizia” a questi reso – è quello che deriva dal modo in cui egli intende o deve essere inteso il suo ruolo nel processo.
Sugli aspetti burocratico-ordinamentali, fortemente innovati dai vari disegni di legge costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura esprimerà il suo parere secondo le competenze attribuitegli dalla legge.
Ma, più in generale, ciò che dovrebbe essere sempre posto a tema, ogni volta che si intervenga con un progetto riformatore, è il “funzionamento del sistema giustizia”, nel senso che la prospettiva e la ragione giustificativa di ogni innovazione non può che essere il miglioramento del “servizio” offerto ai cittadini nel costante suo adeguamento al mutare del contesto.
La stessa prospettiva – quella, cioè, delle persone a cui si rivolge il servizio-giustizia – dovrebbe essere adottata nel dibattito pubblico che precede o segue tali innovazioni.
È una responsabilità di ciascuno di noi, degli attori istituzionali coinvolti, del Governo, della magistratura e certamente anche dell’avvocatura. È una responsabilità di ciascuno di noi quella di portare il dialogo anche nella traiettoria del servizio giustizia ai cittadini.
Occorre dunque un cambio di paradigma, con una migliore visione di fondo: la valutazione degli interventi riformatori e la loro conformazione in sede di normazione secondaria, nell’ottica di una efficiente e adeguata tutela dei diritti fondamentali nell’esercizio della giurisdizione.
È, dunque, una “questione di metodo”, che necessita sia una postura di ascolto verso le ragioni di tutti gli attori coinvolti, sia una visione complessiva di quale debba essere il ruolo del pubblico ministero in un processo che è stato fortemente innovato, rispetto a quello vigente ai tempi dell’approvazione della Carta costituzionale.
Se non si vuole dunque che il dibattito sull’ordinamento e sulla cd. “separazione delle carriere” si riduca ad uno sterile antagonismo, quasi di bandiera, e se davvero si vuole mettere al centro la questione del “servizio” reso ai cittadini da un lato e la tutela dei diritti individuali dall’altro, occorre allora una riflessione più a monte su cosa debba essere il pubblico ministero nel processo moderno e su cosa sia lecito attendersi da lui nell’attuale contesto.
Perché a ben vedere ci sono alcune questioni sullo sfondo, irrisolte, che incidono fortemente su aspetti della riforma e che, in qualche modo, appaiono pregiudiziali ad essa: il ruolo del diritto penale nella società moderna; come vincere l’utopia repressiva ed evitare che il carcere sia una avanzata scuola del crimine; una teoria su cosa debba essere la pena del XXI secolo; la riflessione sul fatto che i Tribunali non sono un pozzo senza fondo ed occorre un rapporto equilibrato tra quantità di norme incriminatrici e possibilità di risposta; le questioni che incidono sul problema di una “obbligatorietà dell’azione penale” che appare sempre più formale e meno effettiva, una vera e propria ipocrisia costituzionale, di fronte ai numeri che la giustizia deve affrontare e che, anche per ragioni organizzative, impone inevitabili scelte.
Bisognerebbe ancora dare risposta, dopo anni di discussioni dottrinali sul cd. “diritto penale minimo”, quali siano gli spazi che devono essere riconosciuti al diritto penale nelle società moderne; quali siano i nuovi beni giuridici da tutelare; quale modello di colpa penale debba affermarsi in una “società del rischio” dove sembra volersi punire non il reato ma il rischio del reato; quali semplificazioni si impongano sui cd. “doppi binari sanzionatori” dopo gli interventi delle Corti sovranazionali e della Corte costituzionale. Prima ancora bisognerebbe ridefinire e avere chiari quali siano, nella contemporaneità, gli spazi e le modalità di intervento del diritto nella vita sociale, perché solo una volta chiariti questi allora si potranno valutare e calibrare gli interventi ordinamentali a ciò funzionali e coerenti, nel rispetto delle garanzie costituzionali esistenti.
E così via, perché molte altre pregiudiziali di sistema andrebbero affrontate e risolte.
Ma, forse ancor prima di tutto, comprendere se la giurisdizione possa sopportare e risolvere qualunque conflitto sociale.
Alla giustizia attribuiamo, credo, un potere più grande di quello che in effetti può avere. La giustizia non fa miracoli; non cancella il torto, può riequilibrare ma non risanare. Il risanamento è oltre e altro rispetto all’ordine della giustizia: il risanamento sta nella capacità di una comunità di ricostruire i legami sociali, poggiandoli su un complesso di valori umani – verrebbe da dire etici – condivisi. Tutto ciò è estraneo alla giustizia, perché la giustizia semmai ripara da un torto, non risana.
Ebbene, se si continua sulla strada di un diritto penale pervasivo, nell’affermazione sostanziale di uno Stato etico, in cui il diritto penale sembra doversi occupare di tutti gli aspetti della vita sociale e rappresentare l’unico strumento di sanzione, non tanto giuridica, quanto morale e politica delle condotte altrui, ogni riforma credo rischi di naufragare negli obiettivi che persegue.
Poi vi sono questioni, meno di sistema, più tecniche, ma egualmente importanti come quella posta dal ruolo preponderante che la fase delle indagini preliminari ha mantenuto nonostante la riforma del 1989 in senso accusatorio, che avrebbe voluto concentrare, nella prova assunta in dibattimento nel pari contraddittorio delle parti, la base conoscitiva delle decisioni giudiziali.
Bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni del sostanziale fallimento delle disposizioni del codice di rito che impongono al pubblico ministero di raccogliere anche le prove a favore della persona sottoposta alle indagini, un obbligo che nell’esperienza professionale di ciascun avvocato ha spesso scarso o nullo riscontro nei singoli processi. Bisognerebbe interrogarsi sui motivi dell’ulteriore fallimento delle previsioni processuali sulle indagini difensive, individuare responsabilità ed errori e immaginare aggiustamenti che consentano di superarli.
Bisognerebbe capire perché nonostante tutti gli interventi modificativi sull’udienza preliminare – che avrebbe dovuto costituire un filtro tempestivo ed efficace per consentire il fisiologico concentrarsi del processo accusatorio dibattimentale sulle situazioni che davvero meritano il processo – continui a fallire nella sua essenziale funzione.
La fase delle indagini preliminari sembra continuare ad affermarsi come fase centrale e sostanzialmente monologante, in cui la reputazione e la sanzione sociale del cittadino si consuma e rispetto alla quale gli esiti processuali sopravvenuti spesso costituiscono una tardiva quanto inefficace riparazione.
Le istanze per una separazione tra magistratura giudicante e requirente affondano anche in questa impressione di mancanza di un adeguato e autonomo filtro dei giudici sulle valutazioni dell’accusa in sede di rinvio a giudizio.
A questo si collega l’esigenza di una seria riflessione sul ruolo e lo statuto costituzionale del pubblico ministero, parte imparziale ovvero parte pubblica tesa all’accertamento della responsabilità e non alla ricerca della verità.
Insomma, proprio per potenziare e rendere effettivo il perseguimento degli obiettivi che le riforme si propongono, occorrerebbe collegare il punto di vista ordinamentale (sullo status e sulla collocazione del pubblico ministero rispetto al giudice), con il punto di vista processuale, sul ruolo e le funzioni che il pubblico ministero deve svolgere all’interno dei diversi tipi di processo. E con una visione ampia del sistema giustizia del nostro Paese.
In questa prospettiva, quella cioè del servizio al cittadino, diventa poi assai rilevante analizzare in quale modo le riforme ordinamentali incidano effettivamente sui tempi della giustizia, sia in termini di pronta risposta alla domanda di giustizia (intesa come ottimo paretiano tra rapidità e qualità della risposta), sia in termini di conseguimento degli obiettivi del PNRR e delle risorse a questi collegati, risorse tanto più necessarie per il miglioramento del servizio.
Sempre nella medesima prospettiva potrebbero e dovrebbero essere valorizzati i necessari interventi sulla geografia giudiziaria – che deve essere attenta più ai bisogni dei cittadini, che agli interessi degli attori istituzionali coinvolti – e sul reclutamento dei magistrati, che deve essere condotto in modo da garantire a tutti quella “autorevolezza” derivante dalla competenza giuridica, che è il primo requisito della “fiducia” fondante quella “responsabilità sociale” dei magistratura che – come ci ha insegnato Ferrajoli – non deve essere confusa con il consenso popolare di natura politica. La competenza come prerequisito dell’autonomia e indipendenza di giudizio del giudice. La competenza come fondamento dell’autorevolezza del giudice.
Un serio dibattito nella prospettiva e sui temi che ho sopra evidenziati, mi pare sia ancora in larga parte mancato e questo risulta invece essenziale.
Su questo occorre che politica e magistratura dialoghino, offrendo ciascuna il contributo che è loro proprio: un contributo di “rappresentanza” per la politica, un contributo di “competenza” per la magistratura, un contributo di “esperienza” da parte dell’avvocatura, che deve restituire la realtà di ciò che in concreto avviene nei processi e della necessità di una più adeguata tutela dei diritti fondamentali.
Un contributo al quale anche il Consiglio Superiore della Magistratura non può e non deve sottrarsi grazie al ruolo che, pur nell’ampio dibattito dogmatico sulla sua posizione nell’architettura costituzionale, in questi anni si è guadagnato, quale depositario istituzionale delle prerogative costituzionali di tutela dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura, funzionali al perseguimento dello stato di diritto.
L’avvocatura continui a combattere: c’è sempre un diritto di un cittadino da tutelare, una vita da salvaguardare, per cui vale la pena di spendersi.
Ricordando sempre che non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso.
Combatta l’avvocatura per ricordare sempre ad ogni giudice che dietro ogni storia giudiziaria c’è una donna o un uomo da ascoltare, una donna o un uomo da rispettare. Una storia degna di essere compresa, qualcosa da spiegare e per un giudice qualcosa da capire.
Reggio Calabria, 4.10.2024