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TENERE SEMPRE ALTO IL VOLUME  DELL’ALLARME SULL’EMERGENZA CARCERI – DI CARMELO MINNELLA

TENERE SEMPRE ALTO IL VOLUME DELL’ALLARME SULL’EMERGENZA CARCERI – DI CARMELO MINNELLA


di Carmelo Minnella[1]


Come scriveva qualche giorno fa tra le pagine di questa Rivista la brillante penna di Glauco Giostra, «l’emergenza carceraria non è un incendio al di là del fiume» (in Diritto di Difesa 28 marzo 2020), soffermandosi sull’urgenza di chi abbia poteri decisori di «disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri» (sempre Giostra, in Sistema penale, 22 marzo 2020).
 
Ad oggi assistiamo invece ad un silenzio assordante del governo che si è limitato ad adottare misure insufficienti nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, Cura Italia che stanno costringendo la magistratura di sorveglianza ad un delicato ruolo di “supplenza”. Quest’ultima sta adottando delle decisioni coraggiose per “svuotare” le stracolme carceri italiane. Si cerca così di ridurre il carico della densità penitenziaria per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Fin troppo ovvio rimarcare che la situazione di sovraffollamento delle carceri rappresenta un fattore di ampliamento del rischio di diffusione del contagio.
 
Le Camere Penali continuano a svolgere un ruolo di “cane da guardia” che ringhia quotidianamente all’esecutivo e, in generale, agli operatori del settore (Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Capo del D.A.P.), per superare un pericoloso immobilismo, che potrebbe risultare fatale. Soprattutto dopo aver registrato il primo caso di detenuto morto per il contagio di COVID-19 all’interno di un istituto penitenziario, considerato che secondo gli ultimi dati si registrano positivi 58 detenuti e 178 agenti di custodia penitenziaria (Corriere della Sera, 8 aprile 2020). Come ripetuto nel documento del 2 aprile («Emergenza carcere: basta con i silenzi e le reticenze indegne di un Paese democratico. Le 10 domande dei penalisti italiani») «il rischio di epidemia nelle carceri riguarda i detenuti, la polizia penitenziaria ed il personale amministrativo e civile che in esse opera, ma riguarda ovviamente anche la intera comunità sociale, per la ovvia, catastrofica ricaduta sulle strutture sanitarie pubbliche di un eventuale contagio di massa».
 
Occorre intervenire con «urgenza» e con il «coraggio di osare». Per fare ciò occorre abbandonare, anche per poco tempo, il panpenalismo e l’ossessione carcerocentrica che la anima politicamente (secondo la logica del “buttiamo le chiavi delle prigioni e facciamoli marcire in carcere”). Niente di tutto questo è avvenuto fino ad ora. Ma vediamo da dove siamo partiti per comprendere la (poca e poco chiara) strada che abbiamo percorso fin qui.
 
L’inizio dell’ingresso del Coronavirus nel carcere, dove sono stati riscontrati i primi casi di positività in quattro penitenziari lombardi, ha indotto il Governo a cambiare la strada normativa intrapresa in una prima fase della gestione dell’emergenza: quella cioè di chiudere le porte delle carceri. Infatti, con un primo intervento l’esecutivo ha previsto che i colloqui con i detenuti avvengano ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020 (d.l. 8 marzo 2020, n. 11, art. 2 commi 8 e 9). Ciò per evitare che il virus entrasse dentro le strutture penitenziarie.
 
La chiusura delle porte del carcere è stato uno dei motivi che ha provocato le note rivolte dei detenuti in molte carceri italiane, rischiando di fare saltare i già delicati equilibri della tranquillità penitenziaria; e facendo riemergere l’emergenza delle carceri (legata in particolare al sempre cronico problema del sovraffollamento e alle condizioni igieniche spesso precarie) che l’emergenza Coronavirus rischia di fare esplodere. Come affermato, infatti, da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il 67% dei reclusi ha almeno una patologia pregressa, con la conseguenza che «le carceri rischiano di diventare una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta del sistema sanitario nazionale» (sito Associazione Antigone il 18 marzo 2020). Gli fanno eco i Dirigenti e i Funzionari della Polizia Penitenziaria che in una lettera inviata il 7 aprile 2020 al premier Conte hanno chiesto misure immediate perché «l’emergenza sanitaria ha trasformato gli istituti penitenziari in una bomba ad orologeria» (sito adnkronos, 7 aprile 2020).
 
Ben presto, peraltro, ci si è resi conto che, quanto al sistema penitenziario, la lotta all’epidemia da Coronavirus non poteva essere condotta semplicemente chiudendo le porte dei penitenziari e adottando qualche precauzione al suo interno.Anche perché è accaduto quel che si temeva, in ragione delle condizioni di vita all’interno del carcere: un luogo caratterizzato da una forzata convivenza a stretto contatto gli uni con gli altri, in spazi estremamente ridotti e in condizioni igieniche spesso precarie. Non a caso, il virus ha iniziato ad espandersi anche all’interno delle mura degli istituti di pena.
 
Sono arrivate allora le richieste di provvedimenti normativi in cui fossero previste, ed analiticamente suggerite, misure urgenti e di immediata applicazione (segnalazione congiunta, inviata al Ministero della giustizia il 15 marzo, dai presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia) perché in assenza di automatismi «non è possibile fronteggiare l’emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni, è certo perverrebbe fuori tempo massimo» (in Giurisprudenza penale, 22 marzo 2020).
 
Sono arrivate pure le raccomandazioni del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle punizioni e dei trattamenti inumani e degradanti, stilate il 20 marzo 2020, indirizzate alle autorità degli stati membri e volte a ricordare, in questo particolarissimo momento emergenziale, il divieto della tortura e di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). In particolare, nella raccomandazione n. 5, vi è l’invito del CPT agli stati membri di ricorrere il più possibile a misure alternative alla detenzione: una strada che diventa «un imperativo, in particolare, in situazioni di sovraffollamento» (Gatta, Coronavirus e persone private della libertà: l’Europa ci guarda. Le raccomandazioni del CPT del Consiglio d’Europa, in Sistema penale, 21 marzo 2020), quali notoriamente sono quelle italiane. Non solo, secondo il CPT gli stati membri dovrebbero fare un uso maggiore di alternative alla carcerazione preventiva (ad es. agli arresti domiciliari) e valutare ulteriori misure, come il rilascio anticipato.
 
Il punto 5 degli Statement of principles viene richiamato anche da Magistratura democratica, nel cui relativo documento si sottolinea l’esigenza di «ridurre subito le presenze all’interno del carcere, anche alleggerendone la pressione dall’esterno: soltanto in questo modo il rischio di contagio potrà essere seriamente fronteggiato. Per tutelare, oggi, la salute dei detenuti e garantire così, un domani, la sicurezza dei cittadini» (Carcere e coronavirus, non aspettare, in Magistratura democratica, 23 marzo 2020).
 
Sempre in seno al Consiglio d’Europa, il 6 aprile 2020, si aggiunge l’appello della Commissaria per i diritti umani, Dunja Mijatović agli Stati membri con cui chiede di adottare misure che non comprimano i diritti fondamentali dei detenuti in questo momento di contrasto alla diffusione del Coronavirus che, oramai, è entrato in molti Istituti di pena dei Paesi europei. Inoltre, la Commissaria esorta gli Stati membri a «utilizzare ogni possibile alternativa alla detenzione senza discriminazione alcuna» poiché tale strategia è «necessaria e tassativa in situazioni di sovraffollamento e ancor più nel contesto di un’emergenza» per assicurare che le misure preventive alla diffusione del contagio siano efficaci (in Ristretti, 7 aprile 2020).
 
Il vaso di pandora che abbiamo aperto in questa fase delicata di lotta al COVID-19 è infatti che all’emergenza Coronavirus si affianca quella relativa alla “emergenza carceri”. Lo stesso CTPha pubblicato il 21 gennaio 2020 un corposo report  dove si continua a segnalare la cronica patologia del sovraffollamento carcerario, per alleggerire il quale suggerisce l’applicazione di misure non custodiali in fase cautelare, e di misure alternative alla detenzione, che siano disegnate sulla personalità dell’imputato e la natura della pena inflittagli (C. Pagella, Le carceri italiane sotto la lente del Consiglio d’Europa: il report del CPT sulle visite, in Sistema penale, 11 febbraio 2020).
 
Le Sezioni Unite a breve saranno chiamate a decidere su questioni che potrebbero aggravare ulteriormente la patologia cronica del sovraffollamento. Infatti, all’esito della camera di consiglio del 21 febbraio 2020 la I Sezione penale ha deciso di rimettere il ricorso alle Sezioni unite affinché chiariscano la seguente questione, in materia di rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della CEDU e di criteri di computo dello spazio minimo disponibile per ciascun detenuto, fissato in tre metri quadrati dalla Corte EDU: «se esso debba essere calcolato al netto della superficie occupata da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; se assuma rilievo, in particolare, nella determinazione dello spazio minimo disponibile, quello occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura del letto “a castello” o “singola”, ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello; se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo disponibile (3 mq), secondo il corretto criterio di calcolo, da determinarsi al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i 3 e i 4 mq» (in Sistema penale, 28 febbraio 2020).
 
La strada era stata tracciata insomma, vi era (e vi è) l’imbarazzo della scelta tra le opzioni per aprire l’ombrello delle misure (e degli accorgimenti da apportare alle stesse) da applicare per la fuoriuscita di una fetta della popolazione carceraria. Tuttavia, il legislatore d’urgenza nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 ha partorito un topolino.
 
Lo strumento principale per fronteggiare la doppia emergenza (Coronavirus e sovraffollamento) è stato individuato nell’esecuzione della pena nell’abitazione (o in altri luoghi di cura e assistenza) secondo il modello già avviato nella l. 199 del 2010, per le pene detentive, anche residue, fino a diciotto mesi. All’uopo, si sono apportate alcune deroghe che, sulla carta, avrebbero dovuto accelerare l’applicazione dell’istituto (di carattere temporaneo perché applicabile alle esecuzioni domiciliari concesse – rectius, richieste – entro il 30 giugno 2020). In primis, quella della scomparsa della valutazione del requisito della pericolosità del condannato, il cui accertamento rallenta i tempi delle decisioni.
 
Invece sono rimasti inascoltati gli unanimi suggerimenti di ampliare il perimetro dell’esecuzione domiciliare allargando anzitutto il range temporale (invece rimasto a diciotto mesi), elevandolo verso l’alto, per aumentare il ventaglio dei detenuti potenzialmente destinatari.
 
In secondo luogo, anziché velocizzare l’applicazione della misura, il decreto Cura Italia ha posto in essere tanti nodi e laccetti al suo accesso, primo fra tutti quello di incatenarla nel braccialetto elettronico (per i residui di pena superiori a sei mesi). Come si legge nella relazione illustrativa al decreto legge 18 del 2020, il braccialetto ha come finalità quella di «elidere il rischio concreto di fughe, ma anche di reiterazione di condotte delittuose», mostrandosi ancora una volta il governo resistente a ridimensionare, sia pure per poco, le esigenze di sicurezza pubblica e a non volergli far cedere il passo a quelle di sanità pubblica che, in un ottica di bilanciamento “momentaneo” di contrapposti valori costituzionali, vanno primariamente salvaguardati.
 
Sul punto occorre sgombrare il campo da un equivoco cristallizzato anche in seno agli operatori pratici.  Neanche l’esecuzione domiciliare si sottrae al principio costituzionale per cui “tutte” le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e tutelare la collettività. Per dirla con le parole della Suprema Corte, «la l. 199 del 2010 ha introdotto una speciale modalità di esecuzione della pena, volta ad attuare il principio del finalismo rieducativo, sancito dall’art. 27 Cost., e per rendere nel contempo possibile l’esecuzione delle pene detentive brevi in luoghi esterni al carcere, attesa la situazione di emergenza nella quale si trovano le strutture penitenziarie italiane» (Sez. I, n. 6138 del 2014). Appare evidente che il legislatore, laddove ha previsto l’applicazione pressoché automatica dell’esecuzione domiciliare, ha deciso che, per le pene detentive brevi, la modalità “ordinaria” di esecuzione della pena – almeno fino a quando perdura il sovraffollamento carcerario, ancora in atto, a prescindere dall’emergenza COVID-19 – è quella presso il domicilio.
 
Tuttavia, ciò non significa rinunciare né al percorso rieducativo che proseguirà (non all’interno del carcere ma) nel domicilio e sotto il controllo e l’aiuto dell’UEPE; né arretrando sull’esigenza di garantire la sicurezza della collettività legate al pericolo di fuga e di recidiva (che viene valutata nel modello originario della legge 199 del 2010, mentre risulta “apparentemente” sottratta nella versione derogatoria del decreto Cura Italia).
 
Occorre però uscire dall’idea la quale il carcere sia l’unico luogo deputato a fronteggiarle, potendo bastare il contenimento “domiciliare”, soprattutto per le condanne a pene detentive brevi e soprattutto laddove, in armonia al finalismo rieducativo della pena, anche per pene originariamente non brevi, il condannato abbia avviato un percorso che “gradualmente” lo porti al suo reinserimento e nel vivere nei binari della legalità penale. Ancora una volta, il legislatore odierno sembra restare ingabbiato nella sua visione carcerocentrica dalla quale non riesce a liberarsi, neanche per poco, neanche in questa fase emergenziale.
 
Come auspicava nei giorni scorsi Giovanni Maria Flick, occorre superare il carcere: «Solidarietà. È il nostro scudo. Il nostro bene più prezioso. Solidarietà vuol dire anche guardare alla condizione del detenuto senza ridurlo a diverso. Comprendere che gli “spazi residui” di libertà personale non possono essere garantiti da una pena in carcere. È un’occasione per rifletterci. E per riuscire forse a superare il carcere, a farvi ricorso solo per le persone di cui sia accertata la violenza, l’aggressività, il “codice rosso”. Forse l’emergenza coronavirus può sollecitare un passo così grande» (Il Dubbio, 8 aprile 2020).
 
Tornando all’esecuzione domiciliare prevista dall’art. 123 del decreto cura Italia, è prevedibile in i braccialetti elettronici non saranno sufficienti perché – come rilevato subito dal Presidente dell’Unione camere penali italiane – «non bastano neanche per la custodia cautelare. Il Governo deve chiarire quanti sono i braccialetti disponibili ora, altrimenti la misura è ineseguibile. Oltre il fatto che per gestire una eventuale diffusione del virus devono uscire almeno 10.000 persone» (secondo le linee per documento delle Camere penali 20 marzo 2020, «Emergenza carceri: basta mistificazioni!»).
 
A complicare definitivamente le cose ci ha pensato, nel partorire l’art. 123, un altro sussulto «mascherato» di riemersione della visione carcerocentrica del governo. Da un canto, infatti, per accelerare i tempi decisori, si è sbandierata la scomparsa della valutazione del pericolo di fuga e di recidiva da parte del magistrato di sorveglianza; dall’altro quest’ultima si è fatta rientrare dalla finestra attraverso l’oscura formulazione dell’unico momento discrezionale lasciato al giudice dei «gravi motivi ostativi».
 
Tra le varie ipotesi ostative all’esecuzione domiciliare, vi è quella delle condanne per delitti 4-bis ord. penit., ossia quelle che fotografano un detenuto presuntivamente socialmente pericoloso e per il quale la tutela della collettività andrebbe assicurata con la reclusione carceraria. Qui però le criticità e tensioni costituzionali riguardano il recente ampliamento dei delitti ostativi alla figura del “corrotto”, accanto a quella del “mafioso” e del “terrorista”.
 
L’ampliamento dell’ombrello del 4-bis sarà nuovamente portato all’attenzione della Consulta dopo che, per il momento, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’applicazione retroattiva della legge n. 3 del 2019 c.d. spazzacorrotti, operata nella storica sentenza n. 32 del 2020, ha portato alla rimessione degli atti al giudice a quo per valutare nuovamente la rilevanza della quaestio. Bisognerà attendere insomma la condanna per un reato del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione commesso dopo il 30 gennaio 2019.
 
Senza dimenticare le recenti picconate date alla diga del 4-bis dapprima, indirettamente, dalla Corte Edu,  che ha dichiarato l’ergastolo ostativo contrario al divieto di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 Cedu (sentenza sul caso Viola n. 2 del 13 giugno 2019, definitiva l’8 ottobre 2019, quando la Corte di Strasburgo ha rigettato la richiesta del Governo italiano di rinvio alla Grande Chambre) scardinando il meccanismo della necessaria collaborazione quale condicio sine qua non per l’accesso alle misure penitenziarie extramurarie (meccanismo che riguarda anche, e soprattutto, l’ostatività dei delitti di prima fascia, prevista proprio dall’art. 4-bis ord. penit.). Successivamente, anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019 (tanto discussa, da parte di alcune forze politiche e non solo, ma che rappresenta invece un altissimo momento di civiltà giuridica) ha trasformato da assoluta a relativa la presunzione di pericolosità per tutti i delitti ostativi, in quanto è inammissibile punire ulteriormente il condannato se non collabora (sia pure al momento solo per i permessi premio). Affermando a chiare lettere che una pena «senza speranza» è in contrasto con il faro della Costituzione e, in particolare, col volto rieducativo della pena.
 
Neanche una parola nel decreto Cura Italia poi per i detenuti non definitivi! Lacuna gravissima sol se si constati che i detenuti in attesa di giudizio rappresentano una grossa fetta della popolazione carceraria.
Sul punto è intervenuta la magistratura requirente che in un documento dell’1 aprile 2020, a firma del Procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi, all’esito di una riunione web del 23 marzo (assieme ai procuratori generali presso le corti d’appello e tiene altresì conto di interlocuzioni svolte in seno alla Procura Generale della Cassazione e agli uffici di primo grado) ha indicato le opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione dei P.M. Il titolo del documento indica gli obiettivi da esso perseguito: ridurre la presenza in carcere a causa della sottoposizione a misure cautelari o pene detentive, allo scopo di contribuire alla miglior prevenzione del rischio contagio da Covid-19 durante la fase emergenziale (in Diritto e Giustizia, 6 aprile 2020).
 
Nel documento si rafforza l’idea che «mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema il carcere costituisce l’extrema ratio. Occorre dunque incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione dalle presenze non necessarie in carcere: ciò limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro predittivo di pericolosità e con l’ulteriore eccezione legata ai reati di ‘codice rosso’» (in Diritto e Giustizia, 6 aprile 2020). Il rischio epidemico del contagio da coronavirus nelle carceri è concreto e attuale e «non lascia tempo per sviluppare accertamenti personalizzati, e può in molti casi rappresentare l’oggettivazione della situazione di inapplicabilità della custodia cautelare in carcere a tutela della salute pubblica, in base ai medesimi criteri dettati per la popolazione al fine di contrastare la diffusione del virus».
 
Con particolare riferimento al flusso in entrata nel carcere si sottolinea la necessità di privilegiare gli arresti domiciliari, eventualmente con braccialetto elettronico. La Procura generale della Suprema Corte chiede di interpretare le norme processuali sulla necessità di disporre la custodia in carcere quando le altre misure risultano inadeguate, e non possono essere fronteggiate neanche con gli arresti domiciliari col braccialetto (art. 275, comma 3, c.p.p.) alla luce dell’emergenza coronavirus e della situazione giuridica fattuale che ne è derivata per tutti i cittadini (con i divieti di allontanarsi dalle abitazioni, ai divieti di aggregazione) e che ha portato ad un abbattimento del 75% dei reati. Occorre pertanto che i pubblici ministeri privilegino la richiesta di arresti domiciliari, ove necessario anche con il braccialetto elettronico (ad eccezione dei casi di rilevante gravità e di assoluta incompatibilità).
 
Con riguardo invece al flusso in uscita dal carcere nel documento si incentiva il P.M. a chiedere la revoca o attenuazione delle misure cautelari già disposte. Nella costante verifica dei presupposti in ordine all’eventuale attenuazione o venir meno della proporzionalità della custodia in carcere (in relazione alla entità del fatto o alla sanzione irroganda) il P.M. dovrà valutare se l’affievolimento delle esigenze cautelari e/o lo stato di salute dei detenuti (laddove le patologie già acclarate, sia pure ritenute compatibili con la detenzione intramuraria, potrebbero portare a conseguenze letali o grandemente pregiudizievoli per la salute) possano consigliare la sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, in tutti i casi in cui la disponibilità di un alloggio lo consenta, con l’applicazione del braccialetto elettronico, laddove disponibile.
 
Tali passaggi del documento della Procura generale di cassazione sono di grande pregio, anche alla luce della inspiegabile assenza di misure svuota-carceri nel decreto cura Italia (avendo il d.l. 18/2020 previsto l’istituto della detenzione domiciliare in deroga all’art. 1 l. 199/2010 che si applica solo ai condannati). Ed è noto che da più parti in dottrina si è autorevolmente suggerito al legislatore, in vista della conversione del decreto-legge, l’introduzione di una disciplina temporanea che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’odierna emergenza sanitaria, così da favorire una più diffusa applicazione degli arresti domiciliari, eventualmente con l’uso del braccialetto elettronico.
 
Cercando di trarre le fila dell’intervento normativo, preziose sono le parole del Garante nazionale: «C’è molto cammino da fare, andando a passo svelto perché così richiesto dall’impellenza del presente, ma anche con passo ben direzionato perché deve essere chiara la necessità di ridare sensatezza al cammino, di ricomprendere l’orientamento dei passi. In questa ipotesi il decreto (n. 18 del 2020) è soltanto un primo piccolo passo in avanti che sarà ben direzionato se in sede applicativa saprà cogliere il senso del suo andare e non si restringerà nella timidezza» (in Diritto penale e uomo, 25 marzo 2020).
 
Evidente però che l’arsenale deflattivo offerto dal legislatore ai magistrati di sorveglianza è veramente povero. E manca chiarezza della direzione da seguire.
 
Invece, occorre agire subito. Gli ostacoli che sbarrano o comunque appesantiscono il percorso per arrivare alla concessione dell’esecuzione presso il domicilio, così come «ingabbiata» nel decreto Cura Italia, spingeranno la magistratura di sorveglianza a svolgere – per dirla con le parole del Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere del 26 marzo – «un difficile ruolo di supplenza con l’assunzione di gravi responsabilità: i giudici di sorveglianza, infatti, dovranno ricercare soluzioni adeguate a contemperare la sicurezza collettiva con l’esigenza di garantire la massima tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, muovendosi in un quadro normativo che non offre strumenti per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento che, in considerazione dei gravi rischi che determina per la salute collettiva, richiede precise e urgenti scelte da parte del legislatore» (in Giurisprudenza penale, 27 marzo 2020).
 
Abbiamo già avuto i primi casi di applicazioni «coraggiose», ad iniziare proprio da parte dell’Ufficio di sorveglianza di Milano, quello colpito al cuore dall’emergenza sanitaria (dove il COVID-19 è arrivato anche ai polmoni economici di una città che avrà la forza di rialzarsi e tornare velocemente a correre) in cui sono state percorse strade diverse da quelle insufficienti finora adottate dal legislatore per arrivare alla fuoriuscita del detenuto dal carcere. Si tratta della concessione di misure alternative (affidamento provvisorio in via d’urgenza e differimento della pena nelle forme detenzione domiciliare umanitaria sempre in presenza di un grave pregiudizio derivante dalla protrazione della detenzione), a costo di forzare (ma non travalicare) il perimetro dei presupposti applicativi.
 
Di estremo interesse è la valutazione compiuta dal giudice meneghino sull’esistenza del «grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione” ove entra proprio «l’attuale emergenza sanitaria da COVID-19, al fine di limitare il rischio di contagio all’interno delle carceri» (Uff. Sorv. Milano 20 marzo 2020, in Diritto e Giustizia, 1 aprile 2020).
 
È importante pertanto che i difensori dei detenuti spingano in questa direzione, avanzando istanza agli uffici di sorveglianza per la concessione provvisoria dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare, ritenendo come «grave pregiudizio» la prosecuzione della detenzione nella situazione emergenziale da Coronavirus, sia alla luce delle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità che richiede di ridurre le presenze nei luoghi di aggregazione per le possibili conseguenze in termini di contagio, sia per l’assenza di qualsiasi valenza trattamentale all’interno degli istituti di pena nel periodo attuale. Misure che appaiono, ancora più ragionevoli, laddove le persone sono già state ritenute meritevoli di benefici penitenziari immediatamente antecedenti alla misura alternativa alla detenzione più ampia, come il permesso premio e il lavoro all’esterno; benefici bloccati per ragioni sanitarie con conseguenze in termini di regressione trattamentale e perdita di effettive opportunità lavorative.
 
Altra strada già seguita per la rapida fuoriuscita del detenuto in tale fase emergenziale è quella del differimento della pena, nelle forme della detenzione domiciliare, anche in presenza di un quadro clinico grave ma ritenuto dai sanitari non incompatibile con il regime detentivo. Si è ritenuto, in particolare, che «non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete, tenuto conto che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; tali patologie possono considerarsi gravi con specifico riguardo all’elevato rischio di contagio attualmente in corso per COVID-19 che, contrariamente a quanto ritenuto dal Magistrato di sorveglianza, appare più elevato in ambiente carcerario ove non è possibile l’isolamento preventivo» (Tribunale di sorveglianza di Milano, 31 marzo 2020, in Diritto e Giustizia, 7 aprile 2020, con nota, se vis, di C. Minnella, Continuano le “coraggiose” decisioni svuota carceri della magistratura di sorveglianza milanese).
 
Tali arresti, peraltro, lungi dal rappresentare una forzatura dei presupposti per disporre il rinvio della pena (ossia del concetto di grave infermità fisica previsto dall’art. 147, comma 1, n. 2, c.p.), sono una corretta applicazione del quadro normativo perché superano l’equazione, ormai aprioristicamente cristallizzata nelle aule della magistratura di sorveglianza, grave infermità fisica=incompatibilità, ossia che si è in presenza della prima solo quando le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario.
 
La Suprema Corte ci dice invece chiaramente che anche in situazioni di ritenuta compatibilità il giudice di sorveglianza non deve fermarsi, respingendo il differimento della pena e/o l’applicazione della detenzione domiciliare c.d. umanitaria o in deroga. Deve invece verificare se le condizioni di salute di cui è affetto il detenuto, anche se compatibili con il regime detentivo, siano da considerarsi gravi facendo uscire la pena dai binari della sua umanità, alla luce principi di cui all’art. 3 Cedu e art. 27 Cost., comma 3, Cost. Pertanto, in presenza di uno stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria – dovendo contemplarsi l’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (Sez. I, n. 39797/2019) – si ha lo sconfinamento verso una pena disumana e degradante. In questi casi va disposto il differimento dell’esecuzione della pena, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare, laddove residuino margini di pericolosità per la collettività da fronteggiare.
 
Sulla stessa lunghezza d’onda, la Corte Edu, nell’individuare i parametri dai quali evincere quel livello minimo di gravità per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3 Cedu ha individuato anche “l’età e lo stato di salute del recluso” (Sez. IV, n. 20034/2015). Sempre la Corte di Strasburgo ha affermato che la circostanza che un detenuto soffra di gravi e molteplici patologie, attestate da un’adeguata documentazione medica sottoposta alle autorità competenti, comporta che la detenzione in carcere è incompatibile con il suo stato di salute. Il mantenimento dello stato detentivo comporta, in presenza di uno stato di salute precario, un trattamento disumano e degradante (Sez. II, n.7509/2014).
 
Ci si augura che tale esegesi, che corre lungo i corretti binari della lettera dell’art. 147, comma 1, n. 2, c.p., se mossa di tutelare la salute pubblica legata al rischio di contagio da COVID-19 (che il cronico sovraffollamento delle carceri non può che ulteriormente aggravare), si cristallizzi nel tempo e costituisca la norma (e non l’eccezione) anche dopo che la fase emergenziale sia cessata.
 
Pure in questo versante è centrale il ruolo del difensore, che deve avanzare istanze per ottenere il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in via d’urgenza, da eseguirsi nelle forme della detenzione domiciliare (comma 1-quater dell’art. 47-ter ord. penit)., laddove vi siano patologie a rischio come quelle indicate dall’OMS (over 65, pazienti oncologici, pazienti immunosoppressi; pazienti con malattie cardiovascolari pazienti con ipertensione arteriosa, pazienti reumatici o diabetici; pazienti come asma e patologie polmonari croniche) che appaiono suscettibili di esito infausto immediato in caso di contagio virale. Stesso discorso quando vi siano condizioni di grave infermità fisica, contemperate oggi alla luce sia delle condizioni cliniche e personali del soggetto sia dell’emergenza sanitaria in atto, tenuto conto della loro maggiore vulnerabilità a contrarre infezioni e/o della loro più alta probabilità di incorrere, per comorbilità, in gravi complicanze.
 
L’emergenza legata al COVID-19 avrebbe dovuto portare nell’agenda politica del Paese le difficoltà del nostro sistema penitenziario, ove il detonatore coronavirus impone interventi drastici e immediati. Ma così, almeno per il momento, non è stato.
 
Parafrasando ancora le parole di Giostra, non bisogna mai rassegnarsi all’idea che “il cimitero dei vivi” (all’interno delle mura carcerarie) da icastica metafora turatiana possa divenire un’inconfessabile soluzione. Il faro che ci deve guidare, anche e soprattutto nell’emergenza, è la Costituzione e i valori facenti parte del nucleo dei principi supremi inderogabili. Tra questi, il “fondamentale” diritto alla salute (l’unica volta che la Carta costituzionale utilizza tale aggettivo per qualificare un diritto), il rispetto della dignità umana e di tutte le libertà che devono essere riconosciute e garantite a fortiori a chi si trova privato della libertà personale, quando, come in questi casi, possano essere messe a repentaglio dalla situazione emergenziale in atto.
 
Primo fra tutti va salvaguardato il diritto alla vita che la Costituzione nemmeno consacra e ingabbia in una norma in quanto la vita è qualcosa che sgorga naturalmente e non può essere sottratta all’individuo (come conferma il divieto della pena di morte) avendo invece lo Stato l’obbligo di tutelarla dalla culla alla tomba. Quella vita oggi messa seriamente a rischio dall’emergenza sanitaria mondiale in atto proprio nei confronti di quei soggetti che, per lo stato detentivo in carcere, sono quelli più vulnerabili e a rischio contagio.
 
Non può certo essere il primo detenuto morto a causa del contagio COVID-19 (recluso nell’istituto bolognese della Dozza, che era stato trasferito in terapia intensiva dopo il peggioramento delle sue condizioni e poi ammesso agli arresti domiciliari in ospedale) a riaccendere il dibattito sul pessimo stato di salute delle nostre carceri e sulle misure da adottare immediatamente per aumentare il flusso in uscita dalle carceri e ridurre quello in entrata.
 
Non si può più aspettare!


[1] Avvocato penalista del foro di Catania e Cultore di diritto penitenziario dell’Università di Catania, Facoltà di Giurisprudenza