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UN ANNO DI COVID-19 NEL MONDO PENITENZIARIO. IL TORTUOSO PERCORSO DELLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI  AL TEMPO DEL GIUSTIZIALISMO – DI ORLANDO SAPIA

UN ANNO DI COVID-19 NEL MONDO PENITENZIARIO. IL TORTUOSO PERCORSO DELLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI AL TEMPO DEL GIUSTIZIALISMO – DI ORLANDO SAPIA

SAPIA – UN ANNO DI COVID-19 NEL MONDO PENITENZIARIO.PDF

UN ANNO DI COVID-19 NEL MONDO PENITENZIARIO. IL TORTUOSO PERCORSO DELLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI AL TEMPO DEL GIUSTIZIALISMO

di Orlando Sapia* 

Si opera una ricostruzione della vicenda delle rivolte carcerarie avvenute in Italia a seguito dei provvedimenti tesi a contrastare l’emergenza pandemica nel mondo penitenziario. Partendo da questo dato storico, si realizza una riflessione relativa all’origine del sovraffollamento carcerario, connesso ad un uso eccessivo del diritto penale. Si passano in rassegna le misure contenute nei decreti legge n. 18/20 e 137/20. Si conclude sostenendo la necessità di un sistema penale extrema ratio nella gestione sociale e di una prospettiva non carcero-centrica nel sistema delle pene.

Sommario: 1. Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza. – 2. Populismo penale e sovraffollamento penitenziario – 3. Il contenimento del virus nel mondo penitenziario tra misure deflattive e sirene del giustizialismo. – 4. Le carceri un anno dopo: i dati. – 5. Una buona occasione per ripensare il sistema penale.

  1. Le rivolte carcerarie ad un anno di distanza.

Nelle giornate del 6, 7 e 8 marzo dell’anno passato, all’inizio dell’emergenza sanitaria nazionale ed appena prima del lockdown di giorno 9, le rivolte dei detenuti infiammarono buona parte degli istituti penitenziari italiani, riportandoci indietro di mezzo secolo. Era dagli anni settanta, infatti, che non si assisteva ad una rivolta così generalizzata delle carceri. Erano gli anni in cui la vita penitenziaria era regolata dal vetusto regolamento Rocco e tra i mezzi di disciplina vi erano anche i letti di contenzione.

Gli effetti più drammatici delle recenti rivolte si ebbero nell’istituto penitenziario di Modena nel quale, al termine dei disordini, si contarono tredici detenuti morti. Secondo la ricostruzione dei principali media nazionali, i detenuti persero la vita perché, entrati nell’infermeria della casa circondariale modenese, assunsero grossi quantitativi di metadone, trovando così la morte.

Alcuni di essi morirono nell’istituto penitenziario S. Anna di Modena, altri nel corso del trasferimento presso altri istituti penitenziari, dal momento che, a seguito della rivolta, fu ordinata la traduzione della maggior parte dei reclusi presso altri siti, visto la parziale inagibilità dell’istituto modenese.

Gli eventi descritti hanno comportato l’apertura di procedimenti di indagine al fine di accertare il reale svolgimento dei fatti e la causa dei decessi. Recentemente, la Procura della Repubblica di Modena ha avanzato richiesta di archiviazione rispetto al decesso di otto detenuti della locale casa circondariale perché la morte sarebbe stata causata dall’overdose di metadone avvenuta nel corso della rivolta.

Restano aperti altri tronconi dell’inchiesta riguardanti i reati commessi dai detenuti durante le rivolte, le morti degli altri cinque reclusi che persero la vita in occasione dei fatti del S. Anna ed i maltrattamenti e pestaggi, denunciati da alcuni detenuti, e di cui si sarebbero resi protagonisti appartenenti al corpo della polizia penitenziaria. Tra questi vi è la vicenda di Salvatore Piscitelli che, trasferito da Modena, trovò la morte nella Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Rispetto a quest’ultimo caso non è stata avanzata richiesta di archiviazione probabilmente in virtù del fatto che nel corso delle indagini si sono aggiunte le dichiarazioni di alcuni compagni di reclusione del Piscitelli che, oltre a raccontare di pestaggi e maltrattamenti successivamente alla rivolta e durante i trasferimenti, hanno altresì sostenuto che il Piscitelli fu lasciato agonizzante nella cella dell’istituto di Ascoli e, così, il giorno dopo il proprio arrivo morì[1].

Pur restando in attesa delle decisioni della magistratura su questa drammatica vicenda, è possibile comunque operare una riflessione che abbia una portata generale e, soprattutto, sia capace di offrire un punto di vista differente rispetto alla narrazione mainstream.

Difatti, anche nell’ipotesi che tutto si concluda con l’archiviazione dei procedimenti riguardanti la morte dei tredici reclusi di Modena, perché ragionevole e fondata la ricostruzione dell’auto avvelenamento, la vicenda resta comunque fonte di interrogativi, oltre che una evidente sconfitta per lo Stato.

Nessuno dei detenuti morti pare fosse soggetto di elevata pericolosità sociale, dal momento che non rientravano né nel circuito ostativo né tanto meno in quello del 41 bis. La più parte era di origine magrebina ed alcuni erano vicini al fine pena. Altro dato importante nella vicenda è che nella casa circondariale S. Anna erano stipati 548 detenuti, a fronte di una capienza di 369 [2].

Vi era, quindi, un tasso di sovraffollamento molto alto e ben maggiore della media italiana del tempo in cui il sovraffollamento si attestava ben oltre il 120%. Insomma, la vita nell’istituto modenese doveva essere difficile e drammatico deve essere stato per i detenuti del S. Anna essere informati, in modo tanto repentino quanto freddamente burocratico, dell’interruzione dei colloqui e di tutte quelle attività collegate al mondo esterno che rendono l’esperienza della detenzione meno afflittiva e con qualche prospettiva vagamente rieducativa. Dinanzi a questa doppia chiusura, l’atto penale, nella sua declinazione ultima di pena, appare realmente avere avuto «il colore dell’inferno»[3].

  1. Populismo penale e sovraffollamento penitanziario.

Purtroppo, pur nella sua specificità, la storia dei tredici di Modena è capace di rappresentare le contraddizioni, le storture ed i drammi che si consumano all’interno del sistema penale tout court.

Nel corso dell’ultimo trentennio si è avuta una generale implementazione del diritto penale quale strumento per il governo della società. Anche solo limitando l’analisi agli ultimi anni, si è assistito all’aumento degli edittali delle pene in relazione ai reati predatori, già puniti in modo piuttosto severo dal legislatore degli anni 30,  alla reintroduzione di reati quali il blocco stradale ed il divieto di accattonaggio, all’aumento spropositato delle pene per le occupazioni di terreni ed edifici, ad incomprensibili paletti tesi a limitare l’uso del giudizio abbreviato e ad una riforma dell’istituto della prescrizione, tanto inutile quanto dannosa per il sistema penale tutto. Quanto sopra esposto è solo una incompleta panoramica delle novità varate dalle ultime maggioranze governative che hanno fatto del populismo penale il proprio cavallo di battaglia.

Al costante sovraffollamento, che è valso allo Stato italiano varie condanne internazionali per violazione dei diritti umani da parte della C.E.D.U., si deve aggiungere lo stato della maggioranza degli istituti penitenziari, in cui le condizioni sono precarie, l’assistenza medica è ridotta all’osso, la popolazione detenuta è in molti casi affetta da una serie di patologie fisiche e psichiatriche, tipiche di chi è costretto ai margini sociali. Una bomba pronta a scoppiare alla prima scintilla.

Le rivolte avvenute un anno fa, benché non possano essere in alcun modo giustificate, sono da comprendere nella pluralità di cause che ne stanno alla base: l’improvvisa interruzione dei colloqui con i familiari, dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle ridotte attività quali scuola e lavoro a causa del pericolo contagio; la successiva legittima paura di un contagio di massa; il timore, per non dire certezza, di essere abbandonati tra le mura del carcere al proprio destino. Tuttavia, questi fattori sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso ormai colmo del dramma del sovraffollamento degli istituti di pena, in cui la vita scorre lenta e senza alcuna reale prospettiva di recupero sociale del reo.

  1. Il contenimento del virus nel mondo penitenziario tra misure deflattive e sirene del giustizialismo.

Per contrastare i rischi pandemici e far fronte alle esigenze di distanziamento sociale anche nel mondo penitenziario, il legislatore, nel marzo dell’anno passato, varò nel decreto legge n. 18/20, ribattezzato “Cura Italia”, agli artt. 123 e 124 alcune misure finalizzate a ridurre la popolazione carceraria. Fu disposto che nei casi di soggetti con pena o residuo di pena non superiore ai diciotto mesi fosse possibile godere della misura della detenzione domiciliare attraverso un iter semplificato, specificando, tuttavia, che laddove la pena fosse stata superiore a sei mesi la detenzione domiciliare avesse luogo solo con le modalità del c.d. braccialetto elettronico. La logica fu chiaramente quella di favorire la fuoriuscita rapida dagli istituti di coloro i quali, comunque, avrebbero potuto godere di detto beneficio ma in tempi più rapidi, in modo da poter così fronteggiare un’eventuale emergenza sanitaria negli istituti di pena. Altra misura, avente medesima finalità, fu la previsione di un’estensione, anche in deroga ai limiti massimi, delle licenze premio ai semiliberi sino al 30 giugno 2020. Queste prescrizioni furono poi replicate dal decreto legge “Ristori” n. 137/20 (articoli 28, 29 e 30).

A dimostrare che tali misure, pur necessarie, non siano state concepite nella forma più funzionale per ridurre il sovraffollamento e, così, fronteggiare il virus, sta la circostanza che la magistratura di sorveglianza, al fine di favorire il deflusso dal carcere, ha impiegato tutta la strumentazione a propria disposizione in termini di misure alternative ed alla fine quelle contenute nel “Cura Italia” non hanno avuto quel ruolo predominante che ci si aspettava. Ciò probabilmente è stata la naturale conseguenza della cronica scarsità di braccialetti elettronici che ha sempre caratterizzato il sistema penale, tanto in fase cautelare che di vera e propria esecuzione di pene.

Tuttavia, nonostante la pochezza delle misure deflattive, peraltro precluse ai c.d. ostativi, agli autori di maltrattamenti in famiglia e di stalking ed ai detenuti coinvolti nelle rivolte, qualcuno ebbe l’ardire di sostenere che fosse un caso di indulto mascherato o, addirittura, un regalo ai rivoltosi[4].

Altre accese polemiche sorsero in seguito allo scandalo, puramente mediatico, della concessione a circa trecentosettantasei presunti boss mafiosi della misura della detenzione domiciliare[5]. In realtà, si trattava di detenuti in alta sicurezza, di cui solo quattro al 41 bis[6]. In tutto ciò è passato assolutamente in sordina il dato che nei casi più eclatanti, Zagaria e Bonura, la detenzione domiciliare non è stata concessa ai sensi dell’art. 123 del D.L. “Cura Italia”, ma ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale, promulgato nel 1930 sotto il fascismo, che riguardano il differimento pena per condizioni di salute incompatibili con lo stato detentivo o, comunque, gravi. Insomma, molto rumore per nulla.

 

  1. Le carceri un anno dopo: i dati.

Che non si sia fatto poi molto, ma appena ciò che era necessario per evitare che le carceri si trasformassero in focolai pericolosi tanto per chi vi fosse ristretto quanto per il mondo al di fuori delle mura, lo provano i dati relativi al mondo penitenziario riportati nel XVII Rapporto sulle condizioni di detenzione curato dall’associazione Antigone

A fine gennaio 2020 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 61.230, con un tasso di sovraffollamento superiore al 120 %. Ad un anno di distanza, al 31 gennaio 2021, i detenuti presenti in carcere sono 53.329.

Tale calo è conseguenza di un insieme di fattori: da un lato le misure tese a favorire il deflusso della popolazione carceraria, attraverso l’uso di misure alternative alla detenzione, dall’altro una diminuzione di ingressi dalla libertà, attraverso un rallentamento dell’esecuzione penale, laddove riferibile a quella congerie di reati di scarso allarme sociale.

Ciononostante tali misure, sebbene necessarie, non sono state sufficienti a portare i numeri della popolazione carceraria nei limiti della capienza regolamentare, né ad evitare il rischio del contagio e l’insorgere di focali all’interno delle carceri. Vari sono stati i casi nel corso dell’anno, ai quali si va ad aggiungere il recentissimo caso della Casa Circondariale “U. Caridi” di Catanzaro che, secondo notizie diffuse dalla stampa locale, conterebbe ad oggi un centinaio di contagiati, tra reclusi ed appartenenti al corpo della polizia penitenziaria, e tre detenuti deceduti[7].

Sebbene vi sia stato chi, anche all’interno della magistratura[8], sia arrivato a sostenere che il mondo penitenziario fosse una realtà più protetta dal virus rispetto al mondo libero, il divenire delle cose ha raccontato una storia differente, in cui il carcere, persino quello duro, non è assolutamente immune. E’ questo il caso di alcune sezioni dedicate al 41 bis in cui vi è stato il dilagare del virus: a Tolmezzo si è avuto il contagio dell’intera sezione[9] e recentemente si è registrato l’arrivo del virus anche nella sezione 41 bis dell’istituto penitenziario di Parma[10].

Ed i dati, in modo inesorabile, marciano in senso opposto alla teoria della sicurezza sanitaria dei luoghi di detenzione. Infatti, sempre nel rapporto di Antigone emerge, che il tasso di trasmissione del virus è ben maggiore all’interno degli istituti di pena che non nel mondo libero. Ad esempio, il tasso medio di positivi su 10.000 persone nel mese di aprile 2020 nelle carceri italiane è stato del 18,7, mentre in Italia del 16,8; nel dicembre 2020 nelle carceri italiane è stato del 179,3, mentre in Italia del 110,5; nel febbraio 2021 nelle carceri italiane è stato del 91,1, mentre in Italia del 68,3[11].

I recenti casi di Catanzaro e della sezione 41bis dell’istituto di Parma testimoniano come il carcere non sia affatto immune, anzi tutt’altro! La naturale ristrettezza degli ambienti di detenzione facilita assai più che nella vita libera la trasmissione del virus.

La diminuzione dei detenuti avutasi nel corso dell’anno non ha risolto in alcun modo la problematica del sovraffollamento, che continua ad essere presente e, in alcuni istituti, dimostra di non essere stata intaccata minimamente dagli effetti dei vari decreti “Cura Italia” – “Ristori”. In tal senso milita la circostanza che, attualmente, vi siano ancora oltre venti carceri con un tasso di sovraffollamento superiore al 130 % e che tocca il suo apice nell’istituto di Taranto in cui si registra un tasso del 196,4% (603 detenuti per 307 posti)[12].

  1. Una buona occasione per ripensare il sistema penale.

L’esperienza della pandemia da Covid-19 potrebbe essere una buona occasione per mettere da parte, perlomeno in questa fase,  l’ossessione securitaria e le sirene del giustizialismo, e riflettere seriamente su quale strada scegliere in campo penale e penitenziario: costruire nuove carceri e continuare nell’implementazione del sistema penale, arricchendolo di sempre nuove fattispecie, continuando ad aumentare gli edittali di pena, oppure ripensare il sistema penale nel suo complesso, attraverso una seria depenalizzazione, una ridefinizione delle pene sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, l’introduzione concreta di percorsi di giustizia riparativa, un piano nazionale di edilizia penitenziaria finalizzato a rendere luoghi dignitosi gli attuali istituti, piuttosto che la costruzione di super carceri stile americano.

In vero, si potrebbe ripartire riscoprendo una serie di riforme, proposte nel corso degli ultimi anni, e non realizzate per evidente assenza di volontà politica.

Ad esempio, nel 2014 con la legge n. 67 il Parlamento aveva delegato il Governo affinché innovasse il catalogo delle pene di cui all’art. 17 del c.p. ed introducesse la reclusione domiciliare e l’arresto domiciliare tra le pene principali, ma il timore di perdere consenso elettorale ha fatto sì che tale delega decadesse a causa dell’inerzia dell’esecutivo in carica. Similmente è accaduto per la riforma dell’ordinamento penitenziario, anche in questo caso il parlamento aveva delegato (L. n 103 del 2017) il governo ma la delega è stata realizzata solo in minima parte, così vanificando il grande lavoro fatto nell’ambito dell’innovativa esperienza degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.

È oggi più che mai necessario, anche in virtù dell’emergenza sanitaria in corso, superare la logica panpenalistica e carcero-centrica che regna incontrastata nel dibattito politico. È necessario ripensare le parole, guardando alla Costituzione in quanto fondamento della nostra società.

L’art. 27 Cost. dispone che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. Il legislatore costituente richiama le pene in generale, non una pena in particolare e non opera alcun riferimento al carcere.

In tale prospettiva, sarebbe necessario prevedere, con maggiore ampiezza di quanto oggi avviene, che la pena possa consistere in privazioni della libertà differenti da quella carceraria, come ad esempio era il caso della reclusione/arresto domiciliare di cui alla Legge delega n. 67 del 2014, di modo da non eradicare completamente ed in modo irreversibile il condannato dal tessuto sociale di riferimento. Sarebbe opportuno consentire un uso più ampio delle già esistenti misure alternative alla detenzione ed, in particolare, prevedere la possibilità di accedere alla misura dell’affidamento in prova anche in presenza della sola possibilità di svolgere un’attività di volontariato. Ad oggi, sebbene la condizione lavorativa non sia espressamente prevista dalla legge, tendenzialmente le istanze di affidamento ex art 47 O.P. è assai difficile che trovino accoglimento laddove l’istante sia disoccupato.

È necessario, altresì, riscoprire le parole amnistia e indulto. Si tratta di istituti giuridici di rango costituzionale, il cui utilizzo è stato costante durante tutta la vita dello Stato Italiano sino alla riforma costituzionale dell’art. 79 Cost. fatta nel 1992, durante l’ultima legislatura della c.d. prima repubblica. In particolare, a seguito di detta riforma l’approvazione di una legge di concessione di detti provvedimenti clemenziali richiede una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per ogni singolo articolo, oltre che per la votazione finale. È probabilmente l’unico caso in cui è più semplice modificare la fonte normativa, cioè l’art. 79 Cost., che emanare una legge di amnistia o indulto.

Oggi riscoprirli non avrebbe il significato di perdonare il reo e, così, violare i diritti della eventuale vittima, ma rappresenterebbe l’utilizzo di strumenti eccezionali in una situazione oggettivamente eccezionale. L’idea che esista un’incompatibilità tra istituti di clemenza e la certezza della pena è concezione superata, che non tiene conto dell’ipotesi, chiaramente di natura eccezionale, che possa essere necessario interrompere, commutare o estinguere la pena affinché la stessa sia conforme al finalismo costituzionale, ad esempio, nel caso in cui le condizioni degli istituti di pena non siano tali, come in effetti non lo sono, per garantire quella offerta trattamentale attraverso la quale dovrebbe passare la risocializzazione del reo[13].

Si tratterebbe di una clemenza per ragioni di giustizia, da un lato tesa ad evitare gli effetti di una desocializzazione conseguente alla drammatica realtà del sovraffollamento carcerario[14] e dall’altro ad intervenire in un contesto di emergenza sanitaria che potrebbe travolgere prima il carcere e poi il resto della società.

* Avvocato del Foro di Catanzaro, Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale di Catanzaro

[1]https://www.repubblica.it/cronaca/2021/03/02/news/morti_in_carcere_nelle_rivolte_di_marzo_la_procura_di_modena_indagini_da_archiviare_-289932704/.

[2] https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/bonafede-deve-rispondere-sui-13-morti-misteriosi-nel-carcere-di-modena-p7n90e1i.

[3] V. U. Curi, Il colore dell’inferno, 2019, Bollati Boringhieri.

[4]  https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/04/04/queste-scarcerazioni-peggio-di-un-indulto-e-la-resa-dello-stato/5759720/.

[5]          https://www.adnkronos.com/di-matteo-csm-scarcerazione-boss-ulteriore-grave-offesa-a-memoria-vittime-mafia_7bulOh40CmSxxMc8zbyCWM.

[6]          https://www.ildubbio.news/2020/05/13/carcere-lemergenza-covid-non-e-finita/.

[7] https://www.corrieredellacalabria.it/2021/04/11/catanzaro-i-familiari-di-uno-dei-detenuti-morti-presenteremo-una-denuncia/.

[8] https://www.lacnews24.it/cronaca/gratteri-contro-svuotamento-carceri_115227/.

[9] https://www.ildubbio.news/2020/11/16/carcere-tolmezzo-il-covid-41-bis/.

[10] https://www.ansa.it/emiliaromagna/notizie/2021/03/26/covid-focolaio-nel-reparto-41-bis-del-carcere-di-parma_1708fa32-5ba2-4f36-a4f2-f4857d4b2d43.html.

[11] V. XVII rapporto sulle condizioni di detenzione, covid e pandemia, a cura di Antigone.

[12] Ibidem.

[13] V. Per un rinnovato statuto costituzionale della clemenza collettiva, di A. Pugiotto, in Costituzione e Clemenza, (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Ediesse, 2018, p. 42.

[14] V. V. Maiello, Clemenza e sistema penale, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, p. 429.