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L’idea di promuovere il concepimento e la scrittura di un “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto Processo” nasce certo in una peculiare contingenza politica -l’avvento dei populisti al governo del Paese- ma affonda le sue radici nella assai più risalente crisi del garantismo penale. La crisi dei principi fondamentali del diritto penale, espressa dal profondo divario tra il sistema normativo delle garanzie e l’effettivo funzionamento del sistema punitivo, costituisce infatti, come è noto, oggetto di riflessione e di analisi filosofica e giuridica da molti lustri. Già Norberto Bobbio ci rendeva avvertiti, agli albori di questo nuovo secolo, del «divario tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere all’interno di un medesimo ordinamento giuridico». E su questa progressiva divaricazione tra “effettività” e “normatività” delle norme penali e l’ingravescente discostarsi dal loro modello costituzionale si sviluppava la riflessione dottrinale sulla crisi del garantismo penale. Una crisi che registrava «uno svuotamento progressivo di quasi tutte le garanzie sostanziali e processuali ed una crescente amministrativizzazione del diritto penale» (Ferrajoli), mediante l’introduzione di pene atipiche, oltre che di sanzioni applicabili alla fase precedente all’instaurazione del giudizio o, addirittura, al di fuori di esso. Il sistema punitivo -si osservava- è sempre di più incentrato su reati di pericolo, nonché su misure di sicurezza e di prevenzione. Il processo non è più luogo di accertamento del fatto e delle responsabilità, ma strumento di lotta e repressione, mentre la esecuzione della pena tende a smarrire ogni collegamento con la gravità della violazione e con la sua finalità rieducativa. Quella degenerazione del sistema delle garanzie, così lucidamente analizzata e denunziata dalla dottrina penalistica più attenta già da molti lustri, si è sempre più accentuata nel corso degli anni, mano a mano che il diritto penale -nella sua accezione comprensiva del diritto processuale, ovviamente- ha visto consolidarsi la propria centralità quale terreno elettivo dello scontro politico e del conflitto tra i poteri dello Stato. Se a nessuno è consentito dubitare della irrinunciabile necessità che lo Stato difenda se stesso ed i propri cittadini dalla aggressione terroristica, dalla soffocante pervasività mafiosa in intere aree geografiche del Paese, e dalla diffusa propensione corruttiva nella politica e nella pubblica amministrazione, è altrettanto certo che tali primari scopi di politica criminale debbano essere perseguiti, in uno Stato di diritto, senza alterare né gli equilibri costituzionali che regolano il cruciale rapporto tra potere coercitivo e diritti fondamentali della persona, né la separazione dei poteri. La storia di questi ultimi trent’anni ha dovuto invece registrare una profonda, costante erosione dei principi cardinali dello Stato di diritto, rinvenibile in quattro direttrici fondamentali:

1) la trasformazione iperbolica di una serie di inchieste giudiziarie su fatti pur gravi di corruzione politica e di degenerazione nella amministrazione della cosa pubblica in una sorta di “soluzione finale” del sistema politico e della democrazia dei partiti, con conseguente, gravissimo squilibrio tra potere giudiziario e potere politico;
2) la crescente legittimazione della normazione penale mediante atti equiparati alla legge (decreto-legge e decreto legislativo), attraverso un ricorso pressoché ordinario a ragioni di necessità ed urgenza solo apparenti, o a deleghe legislative costituenti autentiche cambiali in bianco in favore del Governo, con conseguente svuotamento della funzione sovrana del Parlamento e di ogni effettiva potestà di controllo della minoranza parlamentare sulla maggioranza di governo;
3) un crescente, drastico affievolimento del principio di legalità ad opera di una inarrestabile ipertrofia del potere giudiziario di interpretazione (“estensiva”, “teleologica”, “adeguatrice”) della norma penale, peraltro favorita da un progressivo abbandono del principio di determinatezza del precetto da parte di un legislatore che sempre più frequentemente affida al giudice la “delega” della scelta ermeneutica finale;
4) la trasformazione del processo penale da luogo della cognizione del fatto di reato e della responsabilità individuale a strumento mediante il quale lo Stato regola i suoi conflitti sociali in difesa dei cittadini (contro il terrorismo, contro la mafia, contro la corruzione, contro i disastri ambientali, contro i crimini finanziari, contro la violenza di genere).

Così, l’avvento al potere, sulle ali di un consenso popolare formidabile, di formazioni politiche dichiaratamente “populiste” non è altro che il naturale approdo finale di questa lunga, incessante semina.

Certo è necessario non trascurare la natura transnazionale dell’affermarsi del fenomeno populista -Europa, Stati Uniti, Sud America- che offre spunti di riflessione ed analisi di enorme interesse e rilevanza. Si tratta, a voler enucleare la più forte connotazione comune tra fenomeni comunque figli di storie peculiari e tra loro

diverse, di un poderoso sentimento popolare di rigetto della rappresentanza politica, al quale non è certo estranea la esplosione della comunicazione social e la suggestione che essa offre di un protagonismo diretto e non mediato di ciascun individuo. In Italia la connotazione più accentuata del populismo fattosi governo è, non a caso, quella del giustizialismo, del populismo penale come criterio ispiratore della normazione.

Quelle direttrici sopra riassunte, attraverso le quali si è incanalata negli ultimi trent’anni la costante erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del garantismo penale, vengono ora null’altro che portate a conseguenze iperboliche e -diversamente che nel passato- esplicitamente rivendicate come obiettivi di governo costitutivi del patto elettorale. Quanto avvenuto con la presa del potere da parte di movimenti populisti si colloca in quella parabola e ne esaspera le caratteristiche illiberali. Il dato più evidente che tocca l’insieme della costellazione penalistica è la fine della presunzione di innocenza, ovvero del principio-base di un sistema penale ispirato a una democrazia liberale, nato in Italia con l’illuminismo dei Beccaria e dei Pagano. Nel merito di ciò che sta accadendo: ecco la parossistica dilatazione della difesa legittima armata domiciliare; l’abolizione di fatto della prescrizione; una indefettibilità della pena che travolge tutti gli istituti deflattivi e alternativi al carcere; generalizzati aumenti delle sanzioni carcerarie, sino alla segregazione custodiale come “passaggio obbligato” anche per chi avrebbe ragionevolmente accesso alle misure alternative. Per il processo: revisioni del rito abbreviato e quindi degli sconti di pena, escludendolo per i reati più gravi; aumento dell’uso delle intercettazioni più invasive. Ovviamente lotta alla corruzione, assegnando al concetto di corruzione una valenza etica, tale cioè da dover essere combattuta con ogni mezzo, anche il più riprovevole; uso di agenti provocatori; maggiore tutela dei whistleblower. Né può mancare il parossistico potenziamento di strumenti sanzionatori extra-processuali e para-amministrativi, quali in particolare le misure di prevenzione patrimoniale, sul presupposto di una inammissibile equiparazione tra soggetti sospettati di reati e soggetti ritenuti proclivi a commetterli. Infine, l’idea di riforme costituzionali che aprono al referendum propositivo anche in materia penale, con un effetto catastrofico sull’assetto generale della democrazia liberale che ha il suo perno irrinunciabile nella rappresentanza politica; tutto ciò in un contesto dove prevale il richiamo diretto al “popolo” senza nessuna mediazione.

Il lungo processo degenerativo dei fondamentali principi dello Stato di diritto e la conseguente crisi del garantismo penale che ha attraversato la storia del nostro Paese in particolare negli ultimi tre decenni ha oggi raggiunto il punto più alto della sua parabola, il più allarmante e -per chi ha a cuore quei principi- il più drammatico. Il populismo penale è oggi al governo del Paese e raccoglie intorno a sé un facile quanto incontestabile consenso popolare. È ormai esplicita e politicamente rivendicata l’aggressione ai principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza, della eccezionalità della privazione della libertà personale che non segua alla esecuzione della pena, della tipicità, determinatezza ed irretroattività del precetto penale, della finalità rieducativa della pena, oltre che della sua proporzionalità ed adeguatezza alla gravità della violazione commessa. I penalisti italiani intendono lanciare con forza questo grido di allarme, nella convinzione che quei principi costitutivi del nostro patto sociale siano più ignorati che reietti, più fraintesi che consapevolmente avversati, come puntualmente la nostra quotidiana esperienza professionale ci dà conferma ogni qual volta il cittadino vive sulla propria pelle la indispensabile e salvifica forza di quelli.

Occorre dunque -con il fondamentale ed insostituibile contributo dell’Università- raccogliere e definire nel loro preciso contenuto quei principi fondamentali ed i corollari che ne derivano e che definiscono nei suoi tratti fondamentali ed irrinunciabili l’idea stessa del diritto penale liberale e del giusto processo, per diffonderne la conoscenza e con essa il necessario confronto e dibattito pubblico. Il “Manifesto” ci è parso lo strumento più idoneo per dare forma a questo progetto ambizioso, che intende innanzitutto fare chiarezza

su quelle idee e sulla loro corretta declinazione all’interno della stessa comunità dei giuristi italiani, per poi farne lievito, alimento della ragione, linfa vitale per la crescita civile e democratica del nostro Paese. D’altronde, la storia ci insegna che quello del Manifesto è sempre stato lo strumento privilegiato da chiunque

-sia esso un filosofo, un movimento politico, un gruppo di persone abbia inteso promuovere, diffondere, creare consenso intorno alle idee -politiche, artistiche, scientifiche- professate.

Ci sia consentito infine di sottolineare come sia del tutto ovvio che l’idea di promuovere la scrittura di questo Manifesto sia nata dal dibattito e dalla riflessione politica dei penalisti italiani. Le Camere Penali Italiane associano un novero di operatori del diritto particolarmente sensibili ai limiti del potere punitivo ed alla tutela dei diritti di libertà. Pur non vantando alcun monopolio su temi e principi che sono, o dovrebbero essere, patrimonio comune e condiviso, in particolare di chi è attento alle sorti dello Stato di diritto, è fuor di dubbio che gli avvocati penalisti, per la loro stessa natura e per il carattere della loro identità, sono, e non possono non essere, intransigenti difensori della legalità, dei diritti di libertà e dei diritti umani.

Per loro sono sempre attuali le parole di Giuseppe Zanardelli pronunciate il 15 febbraio 1875: «L’avvocatura può dirsi essere non una professione soltanto ma una istituzione, che si lega con vincoli invisibili a tutto l’organamento politico e sociale. L’avvocato senza avere pubblica veste, senza essere magistrato, è strettamente interessato all’osservanza delle leggi, veglia alla sicurezza dei cittadini, alla conservazione delle libertà civiche, porta la sua attenzione su tutti gli interessi, ha gli occhi aperti su tutti gli abusi, ed è chiamato a segnalarli senza usurpare i diritti delle autorità […] l’avvocato, involto in tutte le agitazioni, in tutte le tempeste, in tutte le lotte della società, deve continuamente difendere i diritti che voglionsi conculcare, le persone di coloro su cui grava l’odiosa mano dell’arbitrio, deve affrontare con serena costanza ogni amarezza ed ogni pericolo per combattere impavidamente, pensoso più d’altrui che di sé stesso, qualsiasi ingiustizia o pressione ed abuso».

La materia che etichettiamo come diritto penale –sostanziale e processuale- ci porta a un nucleo comune ed essenziale: esso è specifico ed appartiene alla filosofia pratica del penalista, potremmo dire alla sua deontologia. Liberale, liberalismo, sono lemmi policromi, che si riempiono di significati diversi a contatto con le esperienze storiche degli ultimi due secoli. Il liberalismo si connota come pensiero politico riconducibile alla filosofia pratica, alla tradizione di un sapere critico capace di individuare i valori che orientano l’azione umana. Il diritto si misura con le azioni umane e il diritto penale, sostanziale e processuale, interroga da vicino, in maniera necessaria, il rapporto tra agire umano, libertà e ragioni che ne giustificano la restrizione. Ma torniamo all’affermazione iniziale: perché chi esercita, a vario titolo, il mestiere delle leggi penali non può non dirsi liberale. Una delle ragioni che attribuiscono alla “libertà liberale” la forza di un fermento che attraversa la storia superandone i momenti più oscuri sta nel distinguersi dalle teologie secolarizzate. Il nucleo del pensiero liberale è costituito, da un lato, dalla protezione dei diritti individuali, civili e politici; dall’altro, dal delineare una organizzazione del potere capace di tutelarli e garantirli.

A questo contribuiscono alcuni fattori essenziali, che fanno marciare nella medesima direzione liberalismo e democrazia:

a) l’idea di istituzioni rappresentative, che sostituisce all’utopia della democrazia diretta la competizione davanti all’opinione pubblica;
b) lo Stato costituzionale, cioè un governo e un legislatore limitati da una Costituzione scritta e rigida, con leggi frutto di procedure predeterminate;
c) la tutela e la garanzia dei diritti civili dell’individuo contro gli abusi dello Stato, delle maggioranze e dei gruppi, come elemento capace di confermare -rendendola giustiziabile- l’essenza del liberalismo.

Vi è un’attribuzione di significato non rinunciabile al sintagma “diritto penale”: quella che pone l’accento sul primo termine –diritto a scapito di una prevalenza della funzione del punire. Il diritto penale “liberale” fornisce, nel nostro campo, gli argini da opporre al facile asservimento dell’afflizione punitiva al perseguimento di ideologie o di scorciatoie demagogiche. Si tratta di avere la precisa cognizione dei rapporti di potere che si esprimono nella più grave ed invasiva forma di coercizione della libertà individuale; di maturare la consapevolezza che questo strumento terribile si può legittimare solo nel contesto di una rappresentanza democratica, di istituzioni non onnipotenti che agiscono nel solco della separazione dei poteri.