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ISTIGAZIONE E CORRUZIONE TRA PRIVATI – DI SIMONE FAIELLA

ISTIGAZIONE E CORRUZIONE TRA PRIVATI – DI SIMONE FAIELLA

ISTIGAZIONE E CORRUZIONE TRA PRIVATI

Due esempi problematici di ‘norma penale eterointegrata’

di Simone Faiella


Le previsioni incriminatrici degli artt. 2635 e 2635 bis c.c. mostrano problemi di determinatezza. Il rinvio agli obblighi d’ufficio e di fedeltà appare impreciso e l’identificazione di questi obblighi troppo facilmente rischia di scivolare sul piano inclinato della ‘tipicità postuma’.
Il legislatore mostra ancora una volta una certa ‘disinvoltura’ nel superamento di quei confini che tradizionalmente, sia pure con estese zone di limbo, dividevano e distinguevano il pubblico dal privato.
La mancata percezione del valore e del significato dei reali e concreti interessi cui le indicate previsioni sono rivolte, restituisce l’immagine di un assetto normativo dalla struttura anodina. Tale assetto non offre uno strumento di tutela di valori quali l’iniziativa economica privata e la concorrenza nel mercato. Esso reca piuttosto il segno di un abbandono, almeno apparentemente definitivo, della previgente visione liberale, per prediligere un’agile e indistinta criminalizzazione dell’humana natura corrupta.
 
 
 
§ 1 – La ‘funzionalizzazione estrema’ degli interessi privati; § 2 – Dalla irrilevanza penale, alla “infedeltà” e, di poi, alla “corruzione” tra privati; § 3 – La trasfigurazione del principio di legalità nella atipica ‘negozialità’; § 4 – Travasi di deficit tra struttura e funzione; § 5 – La responsabilità amministrativa da reato degli “enti”; § 6 – Tirando le somme.
 
 
 
 
 
§ 1 – La ‘funzionalizzazione estrema’ degli interessi privati.
 
Se certamente la manichea distinzione tra pubblico e privato era cosa superata già dalla fine della prima metà del secolo scorso, con l’avvio del percorso di funzionalizzazione della proprietà e dell’impresa verso la tutela di interessi collettivi,[1] e se, del pari, è innegabile quanto tutto questo abbia prodotto, proprio in quegli ambiti, una presenza sempre maggiore e costante di norme e controlli in favore di tali superiori interessi[2], deve anche riconoscersi quanto la criminalizzazione di ciò che oggi viene identificato come “corruzione tra privati” o come istigazione alla corruzione tra di essi, si erga a testimonial di una vera e propria nuova Weltanschauung. Una ‘nuova visione del mondo’ verso una sempre maggiore giustapposizione pubblico/privato, in ragione di una ‘connessione globale’ degli interessi in campo[3].
Nel tema dell’anticorruzione costituisce una sorta di totem la ‘cultura della trasparenza’ quale presupposto per ogni possibilità di controllo. La trasparenza nell’ambito pubblico, quale valore normato soprattutto attraverso la l. 7 agosto 1990, n. 241[4], è stata recentemente oggetto di ulteriore consacrazione attraverso il cd. FOIA (Freedom of Information Act), introdotto con d.lgs, 25 maggio 2016, n. 97[5]. Esso, quale parte integrante del processo di riforma della Pubblica Amministrazione, garantisce un regime più ampio di accesso agli atti[6]. Il target, secondo una lettura politologica, sarebbe il “familismo amorale” italiano. Esso sarebbe causa principe della degenerazione della centralità dei legami familiari a danno dello sviluppo del Paese[7].
Nel settore privato, la circolazione delle informazioni nei processi decisionali, unitamente all’impianto di sistemi di controllo finalizzati a garantire un corretto e leale operare di ogni umano anello della ‘catena produttiva’, costituiscono oramai aspetti fondamentali dei comuni standard di corporate governance. Si invale, con i canoni della opinio iuris ac necessitatis, l’idea di una misurabilità dell’impresa e dell’ente no-profit, in ragione di una quantificazione e qualificazione del loro grado di performance ‘tecnico-morale’. Per questa misurazione si fa ricorso a ‘indicatori’ quali il rating di legalità e il rating delle imprese[8].
Tali valori vengono evocati per un radicale ‘riordino’ anche della disciplina penale, in ossequio a “un emergente modello di prevenzione della corruzione che (…) si propone agli ordinamenti interni sia a livello universale che a livello regionale e continentale come (…) ineludibile fonte di ispirazione delle politiche nazionali in materia”[9]. Lo stratificarsi di richieste di intervento, in modalità soft ohard law, promananti dalle fonti internazionali e sovranazionali, ha spinto efficacemente il legislatore nazionale a fare ricorso, anche indirettamente, alla sanzione penale. Da un lato, ha infatti imposto o favorito nuovi facere e, dall’altro, ha esteso le aree di responsabilità, originariamente appartenute alla solo comparto pubblico, in danno del privato.
In ossequio ad una asserita sintonizzazione con questa ‘nuova visione del mondo’, sono da ricondursi alla soft law gli obblighi di reporting anti-riciclaggio gravanti sugli ormai innumerevoli “operatori di prossimità”. Per effetto di detti obblighi, questi gate keepers non hanno più avanti a sé il must del segreto professionale e della ottimizzazione degli interessi del cliente. Essi sono sotto certi aspetti surclassati dalla “adeguata verifica” e dalla segnalazione di eventuali “operazioni sospette”. La violazione dei ‘canoni del sospetto’ oltre alla sanzione ad hoc, tende ad assumere un ruolo nella prova del dolo di reati anche di particolare allarme.
Nell’ottica del favorire il facere troviamo anche il whistelblowing. Strumento di delazione ‘a nobile fine’, esso punta su soggetti non istituzionalmente addetti ai fini della ricerca della notitia criminis.
Sul piano ermeneutico fa da cassa di risonanza a tale ‘nuova filosofia’ tutta quella giurisprudenza che, in applicazione sostanzialmente analogica degli anzidetti obblighi di adeguata verifica, richiede in capo all’accipiens il controllo della effettività e genuinità del fornitore ai fini della valutazione del ricorrere o meno di una responsabilità di carattere penal-tributario in caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti[10].
Appartengono invece alla modalità hard interventi quali la modifica dell’assetto inerente alla dicotomia corruzione/concussione, attraverso, tra l’altro, l’inserimento dell’art. 319 quater c.p. (Induzione indebita a dare o promettere utilità)[11]. La “lotta alla corruzione” ha legittimato il superamento di quella originaria impostazione del codice penale, secondo cui, come emergeva anche nella Relazione Ministeriale accompagnatoria, il privato “indotto” era sempre da considerare persona offesa, come tale degno, addirittura, della protezione del nostro ordinamento.
Anche la criminalizzazione della cd. “corruzione tra privati” si inserisce a pieno titolo in questa ‘seconda leva’ di innovazioni. Il grimaldello che ha legittimato questo ulteriore passaggio è costituito dalla identificazione della corruzione nel settore privato quale principale antagonista della trasparenza, del fair play e della libera concorrenza[12].
Si è così, anche a tale riguardo, oltrepassato quel confine che, tradizionalmente, aveva costituito un limite alla politica criminale del nostro Paese[13]. Riguardo anche alle più variegate e fluide attività di lobbing, l’opzione penale era sempre stata scartata, in ossequio a quella tradizione liberale, nonostante tutto riaffermata anche dal legislatore del ’30, per cui i comportamenti corrotti o corruttivi sarebbero dovuti comparire nell’ambito di esclusiva pertinenza dei reati contro la Pubblica Amministrazione[14].
L’assetto normativo oggi dettato dagli artt. 2635 e 2635 bis c.c. giunge a noi attraverso una sequela di interventi di modifica e implementazione. Questo percorso si è realizzato senza il concreto banco di prova delle aule giudiziarie. La inapplicazione, assieme alla eterodirezione sovranazionale, ha spinto il legislatore alle ultime innovazioni. Esse sono state concepite per consentire alle previsioni incriminatrici di operare ad amplissimo spettro e senza alcuna limitazione sul piano della procedibilità. Ad onta della minorata consapevolezza dettata dal silenzio delle aule di giustizia, l’assetto che ne è derivato è anch’esso segno evidente di quel mutamento di prospettiva. Esso non riguarda, infatti, una mera ‘nicchia dell’ordinamento’, ma costituisce uno dei tanti anelli della anzidetta cospicua catena di interventi che ha profondamente modificato il rapporto autorità/libertà per come eravamo abituati a conoscerlo.
La “lotta alla corruzione” ha finito finanche per surclassare, sul piano dell’attenzione mediatica e istituzionale, il ruolo storicamente detenuto dal fenomeno delle mafie. Essa ha calcato le scene e la ribalta condizionando non solo il legislatore, ma anche l’ermeneusi. Ad essa va infatti ascritto quell’emblematico ‘momento giudiziario’ idealmente identificabile nel processo “Mafia-Capitale”, nel cui contesto si è tentato di unire questi due lembi della immoralità e dell’antisocialità, affermandosi che la corruzione, ove “sistemica”, sarebbe addirittura in grado di costituire una possibile declinazione del metodo mafioso. L’‘esperimento giudiziale’, come noto, non è andato a buon fine. Il cd. “diritto vivente” con ogni probabilità continuerà a camminare su autonomi e distinti binari per ciascuna delle ‘due piaghe’.
Il ‘punto di equilibrio’ così complessivamente raggiunto non può più, in ogni caso, essere classificato in ragione del semplice ossequio a quei principi di pubblica e civica solidarietà che, storicamente, hanno costituito la ratio della funzionalizzazione della sfera privata nel suo essere e nel suo avere[15]. Lo stillicidio di simili modifiche ha toccato i cardini del sistema. Il quadro complessivo che se ne trae è ben lontano dal costituire un luminoso render della “Scheggia di Vetro” di Gregg Jones. Anche la criminalizzazione della ‘corruzione privata’, per come oggi concepita, è nel “lato oscuro del diritto penale”[16].
Compito del presente approfondimento è quello di segnalare perchè e dove le norme incriminatrici in esame siano andate oltre il segno, per poi sottolineare quanto, il mancato rispetto dei parametri fondamentali di legalità, manchi anche di offrire una ‘contropartita’ in termini di effettivo raggiungimento dei target di tutela perseguiti.
 
 
 
§ 2 – Dalla irrilevanza penale, alla “infedeltà” e, di poi, alla “corruzione” tra privati.
 
Nell’analizzare nell’ordine i vari step che hanno condotto all’attuale assetto normativo dettato dagli artt. 2635 e 2635 bis c.c., giova segnalare come il primo significativo passo compiuto dal legislatore nazionale verso il superamento degli indicati canoni di tradizione, intervenga a seguito della sottoscrizione di documenti quali la Convenzione sulla lotta alla corruzione (Bruxelles il 26 maggio 1997), la Convenzione OCSE (Parigi del 17 dicembre 1997) e l’Azione comune europea del dicembre 1998. Come avvertito in premessa, è infatti in adempimento degli impegni in quelle sedi assunti, che verrà varata la riforma del diritto societario di cui al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61[17]. Con essa saranno introdotti nel nostro ordinamento reati quali quello della “infedeltà patrimoniale” e della «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità» (artt. 2634 e 2635 c.c.)[18].
Il reato di “Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, di cui al riformulato art. 2635, disponeva che gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori e i responsabili della revisione, i quali, avessero, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiuto od omesso atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società, sarebbero dovuti essere puniti con la reclusione sino a tre anni. La stessa pena si sarebbe dovuta applicare a chi avesse dato o promesso l’utilità. La fattispecie, contrariamente a quella di cui all’art. 2634 c.c. che qualificava il proprio evento in termini di “danno parimoniale”, poneva riferimento al più generico concetto di “nocumento”.
Le fattispecie, entrambe procedibili a querela, erano chiaramente caratterizzate e qualificate in ragione del ruolo ‘funzionale’ dei possibili responsabili. Questi ultimi, infatti, essendo investititi della cura degli interessi della società, avrebbero potuto essere chiamati a rispondere, solo ove, mediante l’anzidetta condotta, avessero tradito gli obblighi di fedeltà dell’ente cui erano preposti.
Nonostante simile intervento, secondo il Corruption Perceptions Index 2015 stilato da Transparency International, l’Italia si sarebbe continuata a collocare al 51° posto tra le 168 nazioni del mondo censite e al 27° posto nella lista dei 28 Paesi dell’Unione Europea, con un danno economico stimato vicino ai 60 miliardi di euro l’anno[19].
Documenti quali la Convenzione ONU contro la corruzione del 31 ottobre 2003, c.d. “Convenzione di Merida” (Messico), ratificata con la L. 3 agosto 2009, n. 116 e, prima ancora, la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999, c.d. “Convenzione di Strasburgo”, ratificata dall’Italia con la L. 28 giugno 2012, n. 110, avrebbero richiesto il compimento di ulteriori passi, quali l’incriminazione di tutti i fatti di corruzione commessi da “chiunque” svolgesse funzioni direttive o lavorative per conto di una persona giuridica o fisica operante nel settore privato[20].
In esecuzione anche della decisione quadro 2003/568/GAI[21], venne pertanto varata la legge comunitaria 2007 (l. 25 febbraio 2008, n. 34) con cui si delegava il governo all’adozione, entro un anno, di decreti legislativi atti ad introdurre nel Libro II, Titolo VIII, Capo II, del nostro codice penale (Delitti contro l’industria e il commercio), fattispecie che punissero, con la reclusione da uno a cinque anni, condotte di corruzione privata attiva e passiva.
Tale delega rimase lungamente inattuata, tanto da attirare l’attenzione di osservatori internazionali quali il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO)[22]. Solo dopo un lungo iter parlamentare, fu promulgata la l. 6 novembre 2012, n. 190, c.d. “Legge Severino”[23], mediante la quale, appunto, si mise anche mano alla formulazione dell’art. 2635 c.c. Nell’occasione venne anche sostituita la rubrica della “Infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità” con quella della “Corruzione tra privati”[24].
Il riferimento alla “corruzione”, piuttosto che alla “infedeltà” di cui alla previgente rubrica, oltre a costituire un chiaro segno di massima stigmatizzazione del fatto, risultava funzionale ad una omogeneizzazione di tale settore di disciplina con quello afferente alla ‘corruzione pubblica’. Riprova di quanto pubblico e privato fossero sostanzialmente concepite quale unicum, è costituita anche dal titolo dell’intervento normativo anzidetto: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
Per effetto della nuova formulazione, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, avessero compiuto od omesso atti, “in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società”, sarebbero stati puniti con la reclusione da 1 a 3 anni. La nuova fattispecie dunque aggiungeva al richiamo agli obblighi d’ufficio quello agli “obblighi di fedeltà”.
Si sarebbe applicata la pena della reclusione fino a 1 anno e 6 mesi se il fatto fosse stato commesso da chi fosse stato sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
Simmetricamente, l’extraneus che avesse dato o promesso denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma sarebbe stato punito con le pene ivi previste[25].
La fattispecie nella sua riformulazione aveva mantenuto il riferimento al nocumento. Un riferimento che la giurisprudenza aveva sostanzialmente fiaccato nel suo valore selettivo, sin durante la vigenza della precedente formulazione, affermando che esso consistesse nella lesione di qualsiasi interesse societario suscettibile di valutazione economica, come tale non collegato necessariamente alla causazione di un immediato danno patrimoniale[26]. Tale ‘indirizzo sarà mantenuto anche con riferimento alla “Corruzione tra privati” per come introdotta nel 2012. A tale riguardo si affermerà infatti che il nocumento in quanto tale, privo di qualsivoglia specificazione, può essere di ogni ordine e grado (morale, di immagine, ecc.), in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2629-bis c.c. e dell’art. 2391, comma 1, c.c., il richiamo alla nozione di nocumento deve intendersi dimostrativo di una dimensione non strettamente patrimoniale del pregiudizio rilevante ai fini della configurabilità del reato[27].
Dopo soli cinque anni, il legislatore mette nuovamente mano alla disciplina della materia, mediante il d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38[28]. Con tale intervento (art. 3) realizza uno step di speciale rilievo nel percorso descritto in premessa, eliminando dalla previsione di cui all’art. 2635 c.c. proprio il riferimento al nocumento. Per tale fattispecie dispone altresì la procedibilità ex officio per i casi in cui dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi. Nella stessa occasione (art. 4) il legislatore vara la previsione incriminatrice di cui all’art. 2635 bis c.c. (Istigazione alla corruzione tra privati), disponendone l’integrale procedibilità a querela.
Della corruzione pubblicistica la figura criminosa di cui all’art. 2635 c.c. riproduce la struttura della corruzione propria antecedente. La promessa o dazione deve essere antecedente all’adozione dell’atto o al suo mancato compimento. Nella previsione incriminatrice ricorre – ancora in esatta coerenza con la ‘fattispecie pubblicistica’ – il riferimento al “denaro o altra utilità”.
Ad ulteriore riprova del fil rouge intercorrente tra i due diversi settori di disciplina vale il ruolo assegnato alla fattispecie di cui all’art. 2635 bis c.c. Essa, quale, appunto, “Istigazione della corruzione tra privati”, viene introdotta in ragione di una geometrica simmetria con la fattispecie della “Istigazione alla corruzione” di cui all’art. 322 c.p.
Mediante la L. 9 gennaio 2019, n. 3[29], c.d. “Legge spazzacorrotti”, viene di poi disposta la procedibilità d’ufficio per entrambe le fattispecie, in ogni forma e modalità consumate[30]. L’intervento libera l’istruttoria dibattimentale da un thema probandum concepito su di un ‘macro evento’ di dubbia definizione quale quello della distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
 
 
 
§ 3 – La trasfigurazione del principio di legalità nella atipica ‘negozialità’.
 
Le previsioni incriminatrici oggetto della presente analisi identificano, quale contropartita della prestazione illecita in favore dell’intraneo, res quali “il denaro o altra utilità”. L’esperienza anche su altre figure criminose ha ampiamente dimostrato le difficoltà di perimetrazione del riferimento all’“altra utilità”[31]. Qualsivoglia utilitas può invero rientrarvi, con l’effetto che le fattispecie risultano prive di una reale ed effettiva nitidezza già con riferimento al parametro di valutazione di uno dei terminali essenziali del sinallagma criminoso.
Non minori appaiono i profili di indeterminatezza con riferimento al “compiere o (…) omettere un atto”. Per i soggetti privati non esiste una “legge sul procedimento”. I privati nella loro azione sono retti al più da ‘statuti’, che sono comunque volta per volta diversi. Il legislatore interloquisce con una realtà che è, dunque, ben altra rispetto a quella della Pubblica Amministrazione. Un conto è infatti prendere ad esame una piccola s.r.l., altro discorso una grande s.p.a., altro ancora è un gruppo industriale, per non parlare poi del regime delle fondazioni e delle associazioni, che evidentemente varia anche in ragione del campo di loro concreta competenza.
Il caleidoscopio del diritto privato è quanto mai ricco di una gamma infinita di sfumature sia in ordine al procedimento di adozione di un atto sia in ordine alle formalità di suo confezionamento/esternazione. Se possibile, è ancor più difficile comprendere, ai fini della valutazione della condotta eventualmente omissiva, se fosse obbligatorio adottarlo.
Il punctum dolens riguarda la dicotomia tra “violazione” e “obblighi d’ufficio” o “di fedeltà”. I parametri a tal fine debbono essere necessariamente ricercati anche nel tessuto negoziale, in quanto è esso che, nel concreto, contribuisce in massima parte a strutturare l’apparato e l’operatività dell’ente medesimo. Secondo anche quanto rassegnato dalla dottrina giuridico-economica della contractual theory of the firm,le imprese sono costituite da un nexus of contracts. Quest’ultimo, unico per ciascuna di esse nel proprio genere, consiste in un tessuto irripetibilmente strutturato e, appunto, connesso, di regole negoziali e di accordi. La cd. agency theory[32] segnala come la fonte del potere di cui è dotato un soggetto incardinato in una realtà imprenditoriale o no-profit sia nel patto che regola il rapporto tra principal e agent. È in forza di esso che il primo incarica il secondo di realizzare i suoi obiettivi vincolandolo contrattualmente. Ai fini che in questa sede maggiormente interessano appare di tutta evidenza, dunque, come la fonte di produzione del parametro di valutazione della condotta sia affidato, fuori dei casi di espressa previsione ex lege, a obblighi comportamentali e principi aventi fonte negoziale.
Da qui l’evidenza per cui la definizione dei detti obblighi risulta soggetta ad una estrema variabilità in ragione non solo del ‘tipo di ente’, ma anche della sua storia, della sua collocazione sul territorio, del suo settore di appartenenza, delle sue dimensioni, dell’impronta stessa conferita dal management e, segnatamente, anche dai rapporti intrattenuti con soggetti terzi, in quanto forieri di obblighi e vincoli. È in ragione di tali innumerevoli fattori che si definiscono volta per volta gli impegni contrattuali, i doveri istituzionali sanciti in statuti, le delibere assembleari e, dunque, in sintesi, gli obblighi di fedeltà, di lealtà e correttezza[33]. Non siamo, in altri termini, in un terreno perequabile a quello che, nell’ambito dei reati contro la Pubblica Amministrazione, viene identificato come “specificazione amministrativa del precetto penale”[34].
Se dunque è evidente come ogni impresa o ente no-profit esista e operi in ragione del proprio specifico tessuto negoziale, costituito in grande misura anche dai rapporti con l’esterno, è innegabile quanto, per questa via, le norme incriminatrici in esame finiscano per dipendere, quanto alla loro determinatezza, da un ‘sistema di fonti’ che non solo non appartiene ad un numerus clausus, ma è anche fortemente destrutturato e profondamente disomogeneo.
Non può inoltre sfuggire come la gran parte degli enti privato viva, potremmo dire istituzionalmente, in ragione del do ut des. L’eliminazione dell’‘evento-nocumento’ rende, dunque ancor più vago il percorso di identificazione del ‘dovere d’ufficio o di fedeltà aziendale’[35]. Per effetto di tale elisione la disciplina in esame rivela una conformazione bifronte, in quanto capace di criminalizzare sia ciò che è a favore sia ciò che è contro gli interessi dell’ente. Per le ipotesi a favore, appare fin troppo palese come la definizione del parametro debba fare di volta in volta i conti con il dovere istituzionale di ogni soggetto strutturato in un ente. Egli è “in forze” affinchè la propria azione porti vantaggio non solo economico, ma anche di immagine, di relazione (etc. etc.) all’ente medesimo, magari a fronte anche di target da raggiungere.
Il riferimento al nocumento, seppur generico e certamente ‘leggero’ nella sua reale portata selettiva, costituiva indubbiamente un valore importante sul piano della complessiva idoneità selettività della previsione incriminatrice.
 
 
 
§ 4 – Travasi di deficit tra struttura e funzione
 
I punti d’ombra che incombono sotto il profilo strutturale, incidono evidentemente anche sul fronte della identificazione degli aspetti funzionali. Le figure di reato sono state concepite in modalità ‘progressiva’. Volendo infatti declinare in termini quantitativi la distanza di ciascuna di esse rispetto al bene tutelato, può dirsi che, mentre la “Istigazione alla corruzione tra privati” ricalchi i crismi della ‘tentata corruzione’, quella della “Corruzione tra privati” costituisca una chiara ipotesi di ‘corruzione consumata’. Nella prima infatti ricorre una promessa, un’offerta o una sollecitazione non accolta, nella seconda il pactum sceleris è invece stipulato. La fattispecie della “Istigazione alla corruzione tra privati”, non solo nella rubrica utilizzata, ma anche nella sostanza contenutistica, contribuisce dunque ad una simmetria con il regime dei ‘fatti corruttivi pubblici’, mostrandosi idealmente parallela all’“Istigazione alla corruzione” di cui all’art. 322 c.p.
Il riferimento al nocumento, fino a prima della novella del 2017, rendeva identificabile il reato di “Corruzione tra privati” come fattispecie di evento di danno. La eliminazione di esso ha trasformato la fattispecie di cui all’art. 2635 c.c. in reato di pura condotta e di pericolo.
Allo stesso tempo, la fattispecie della “Istigazione alla corruzione”, nasce già strutturata come reato di pura condotta e, anticipando alla ‘tentata corruzione’ il momento di penale rilevanza del fatto, ha assunto, sin dal suo varo, i connotati del reato di pericolo del pericolo, con ciò mostrandosi affetta, oltreché dal vizio di non sufficiente determinatezza, anche da quello di violazione del principio di offensività.
Tale ultima carenza affligge non solo la fattispecie di cui all’art. 2635 bis c.c., ma anche quella di cui all’art. 2635 c.c., se si cala l’indagine sul terreno della identificazione qualitativa di del bene tutelato. La giurisprudenza, già sotto il regime della “infedeltà patrimoniale”, aveva affermato che “la criminalizzazione delle condotte di infedeltà può essere intesa da un lato come manifestazione della tutela del patrimonio dell’ente nel cui ambito si colloca l’intraneus, in una chiave eminentemente privatistica, ovvero – dall’altro – ispirarsi ad un modello lealistico (come risulta con maggiore chiarezza nella legislazione di altri paesi, ad esempio nell’articolo Legge 152-6 del Code du travail francese), laddove si intenda soprattutto sanzionare la violazione del rapporto di fiducia che lega il “corrotto” all’ente: in questa seconda prospettiva, può assumere dunque rilievo l’abuso di un potere che l’intraneus sia chiamato ad esercitare in funzione di interessi altrui, non solo di natura strettamente patrimoniale, e che svolga invece alterando i processi decisionali che lo vedono coinvolto (…)”[36].
La fattispecie di cui all’art. 2635 c.c. ondeggiava, dunque, quanto alla messa a fuoco del proprio spettro di tutela, tra la protezione del patrimonio sociale e la protezione dei doveri di fedeltà. La collocazione, che di essa si sarebbe potuta tracciare, oscillava, pertanto, tra la collocazione in chiave strettamente privatistica e la dimensione lealistica del rapporto fiduciario tra soggetti apicali e società[37].
Gli interventi di modifica adottati nel 2017 hanno comportato un definitivo abbandono della possibilità di leggere le fattispecie in chiave strettamente patrimonialistico-privatistica. Anche la novella del 2019, ampliando erga omnes la platea dei legittimati alla comunicazione della notitia criminis e rendendo la procedibilità libera dal condizionamento di una cerchia chiusa di soggetti interessati, evoca la necessità di una nuova lettura.
Il mutamento di prospettiva non è stato, però, controbilanciato da una chiara indicazione in ordine alla nuova tensione teleologica. Le dette figure criminose sono state semplicemente disegnate in completa simmetria e omogeneità con la corruzione “pubblicistica” e il parallelo pubblico-privato, ha condotto così alla criminalizzazione dell’atto corruttivo in sé, anche ove posto in essere in favore della società o dell’ente.
Se però per i reati contro la Pubblica Amministrazione può concepirsi un danno all’immagine e al prestigio dell’ente, già, ad esempio, nella sollecitazione da parte del pubblico ufficiale non accolta, per converso, nel campo degli ‘enti privati’, una tale conclusione, così netta ed assolutizzante, non è concessa. Le società di capitali, ad esempio, puntano alla massimizzazione del profitto. Dunque l’atto ‘corruttivo’ realizzato in favore, non può essere, di per sé, ritenuto contrario al loro sistema di valori. Il profilo della lesività, se può essere legittimamente presunto con riferimento alla Pubblica Amministrazione, va invece provato nel concreto con riferimento ad una s.r.l. Ma l’identificazione del thema probandum rimane qui un procedimento arduo da condurre, proprio in quanto la elisione del nocumento rende inespressa anche la rilevanza di una lesione riferibile all’immagine e al prestigio dell’ente. Né, d’altro canto, il legislatore fornisce aliunde alcuna altra indicazione in tal senso.
Le previsioni incriminatrici in esame sono state infatti inserite nel codice civile. Esse compaiono all’interno del Libro V (Del lavoro), Titolo XI (Disposizioni penali in materia di società e di consorzi), Capo IV (Degli altri illeciti, delle circostanze attenuanti e delle misure di sicurezza patrimoniali). Contrariamente a quanto accade per le ‘figure pubblicistiche’, difetta dunque per quelle in esame, anche un’indicazione esterna alla previsione che possa indicare la qualità del bene tutelato. La scelta della collocazione “civilistica”, priva infatti l’interprete della ordinaria classificazione offerta dal codice penale per come suddiviso e organizzato.
La stessa nostra Carta fondamentale non consente perequazioni ai fini della presente analisi. Le fattispecie di ‘corruzione pubblica’ beneficiano dei valori espressi da riferimenti quali quelli dell’art. 97 Cost., nel cui contesto si pone riferimento, oltreché al “buon andamento” della Pubblica Amministrazione, anche alla sua “imparzialità”. Quelle di ‘corruzione privata’ si debbono, invece, confrontare con un quadro normativo che, anche sul fronte dei parametri costituzionali, è sensibilmente diverso. Il nostro costituente non descrive l’iniziativa privata come “imparziale”. Secondo l’art. 41 Cost. “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. 
Deve inoltre osservarsi che nel privato non vale il principio di trasparenza come lo conosciamo per la Pubblica Amministrazione. L’impresa in particolare non deve essere un ‘palazzo di vetro’. Mentre per la Pubblica Amministrazione il segreto, per tutto quanto osservato in premessa, è oramai l’eccezione, per l’impresa, quanto meno la riservatezza, ne costituisce la regola. Basti a tale riguardo porre riferimento, non solo ai segreti industriali, ma anche alla riservatezza che sottende alle relative strategie. Sensibilmente diverso è invece il discorso per gli enti no-profit, segnatamente ove affidatari della tutela di interessi diffusi, se non addirittura collettivi. Ma la norma, anche su tale fronte, non pone alcun distinguo e anche la tutela del più lato valore della libera concorrenza, mal vi si attaglierebbe. Per le imprese per le quali tale valore meglio si potrebbe identificare e configurare, la totale carenza di riferimenti normativi torna a segnalarci come, anche tale tipo di lesione, rimanga un dato totalmente inespresso nella formula delle due fattispecie in esame.
Tali ‘evanescenze’ unite all’impalpabilità del profilo della contropartita dell’“altra utilità”, non vengono controbilanciate da una solida identificazione della violazione del precetto. Esso, per quanto detto nel paragrafo che precede, è ben più vario, discontinuo, puntiforme e disomogeneo di quanto non sia nell’ambito della Pubblica Amministrazione.
Le due previsioni incriminatrici informate, ormai secondo un’ottica astrattamente e genericamente ‘lealista’, che rimangono ridotte alla ‘mera osservanza’ di precetti, la cui fonte di produzione e di cognizione è, ai fini penali, pregiudicata da un florilegio di criticità. La disciplina penale della ‘corruzione privata’ finisce, invero, per essere affidata al vago e generico abuso di potere compiuto in ragione dell’ottenimento di vantaggi ‘privati’.
Nella migliore delle ipotesi, il giudizio reso sul complesso e confuso sistema di norme e di valori, in essere presso ogni dato settore e ambiente, diventa giudizio sui mores. Essi dovranno essere decodificati dal giudice che, a sua volta, dovrebbe tener conto del loro significato alla luce anche di un contesto che è sempre più connotato da un’accentuata multiculturalità. Quest’ultima interviene infatti quale ulteriore snodo nella definizione di modelli di azione e di condotta.
Nell’ipotesi invece peggiore, la disciplina finisce per essere perimetrata in ragione di quell’approccio etico per cui, anche secondo l’etimologia, corruptio, dal latino corrumpere, corrisponde al “guastare”, “alterare” ciò che è integrum, dunque intatto e puro. In tal caso la corruzione tra privati e al suo ‘omologo istigatorio’ scivolano nel giudizio in un qualcosa che riguarda molto più da vicino l’ethos. La definizione dell’obbligo violato perdendosi nel giudizio puramente morale che potrà rendere ogni singolo giudice dal profondo della sua intima e, questa sì, privata (ed emozionale) prospettiva etica, non può conferire indicazioni solide anche sotto il profilo del bene tutelato.
Tutto questo implica il fallimento dell’obiettivo del rispetto dei principi di determinatezza e di offensività.
 
 
 
§ 5 – La responsabilità amministrativa da reato degli “enti”
 
Per quanto attiene alla responsabilità amministrativa ‘da corruzione tra privati’, il primo intervento in subiecta materia è costituito dalla citata L. 6.11.2012, n. 190, (art. 1, comma 77, lett. b). Con essa si ebbe infatti a modificare anche l’art. 25-ter, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, aggiungendo la lett. s-bis), prevedendo «per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote»[38].
La disposizione richiamava solo il fatto di corruzione “attiva” di cui al comma 3 dell’art. 2635 c.c., elevandolo a presupposto per la responsabilità amministrativa della società a cui apparteneva il corruttore.
A fronte della configurabilità del delitto de quo in capo a soggetti appartenenti a due distinte società (quella del corruttore e quella del corrotto), poteva dunque essere sanzionata solo la società del corruttore. Tale assetto era conforme e conseguente rispetto alla disciplina prevista per il reato presupposto. L’art. 2635 c.c. era infatti configurabile solo ove ricorresse un nocumento in capo alla società del corrotto. Tale requisito era evidentemente ostativo alla configurabilità di una responsabilità dell’ente del corrotto.
A fronte dei richiami nei confronti del nostro Paese operati dalla Commissione europea[39], il legislatore nazionale è intervenuto con il più volte citato D.Lgs. 15.3.2017, n. 38, introducendo un carico sanzionatorio per l’ente più gravoso del precedente.
L’ art. 25-ter, lett. s-bis) prevede infatti la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote in caso di corruzione attiva; la sanzione da duecento a quattrocento quote nei casi di istigazione alla corruzione di cui al nuovo art. 2635-bis c.c. Con l’art. 6 del D.Lgs. 15.3.2017, n. 38, la formula della lett. s-bis indicata è stata, infatti, sostituita con il seguente testo: “per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote e, nei casi di istigazione di cui  al primo comma dell’articolo 2635-bis del  codice  civile,  la  sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Si applicano altresì le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2.”.
La disciplina attuale della responsabilità amministrativa degli enti è, dunque, rimasta invariata quanto alla identificazione dell’ente che può essere chiamato a rispondere. Nonostante la cancellazione del riferimento al “nocumento” dalla descrizione del fatto dell’art. 2635 c.c., l’art. 25-ter, D.Lgs. n. 231/2001 annovera ancora quale reato presuppostoil delitto di corruzione tra privati nei soli «casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 del codice civile». La sanzione pecuniaria ivi prevista può, pertanto, ancora essere applicata esclusivamente all’ente al quale appartenga il soggetto corruttore, ossia all’ente presso cui opera colui che “anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma” (art. 2635, comma 3, c.c).
L’assetto attualmente vigente prevede, altresì, nei casi di cui all’art. 13, D.Lgs. 8.6.2001, n. 231, le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2 dello stesso decreto[40].
L’ art. 19, D.Lgs. 8.6.2001 n. 231, prevede inoltre la confisca anche per equivalente, del profitto o del prezzo della corruzione attiva o dell’istigazione alla stessa[41].
L’attuale assetto normativo, se sotto il profilo dell’identificazione dell’ente che può essere chiamato a rispondere presenta i punti di criticità menzionati, sotto quello complementare del carico sanzionatorio risulta non in linea con gli standard di pena del ‘sistema’ della responsabilità in esame. Tale circostanza è resa evidente da che la sanzione per l’ente risulta per la corruzione privata più grave rispetto a quella applicabile per la cd. corruzione impropria di cui all’art. 318 c.p.. La sanzione anzidetta è superiore nel minimo anche rispetto a quella prevista per la corruzione propria di cui all’art. 319 c.p.
Come indicato nel paragrafo che precede, la previsione dell’art. 2635 c.c., per come riformulata nel 2017, pone inoltre riferimento, oltreché alle società, agli enti privati, così rendendosi applicabile anche alle associazioni e fondazioni e, in genere, anche a tutti gli altri enti no-profit.
La scelta riveste una particolare importanza se si considera il ruolo che detti enti hanno assunto nell’economia odierna. La disciplina appare però distonica rispetto al regime attualmente vigente riguardo al reato presupposto.
La l. 12 novembre 2012, n. 190 (art. 1, 77° comma, lett. b) ebbe a modificare anche l’art. 25-ter, 1° comma, d.lgs. n. 231/2001, aggiungendo la lett. s-bis), includendo la corruzione tra privati nel novero dei reati presupposto della responsabilità della società, aveva colmato una lacuna di cui andava affetta la previgente fattispecie di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità. Tale deficit risultava in contrasto con l’art. 18 della Convenzione sulla Corruzione del Consiglio d’Europa e soprattutto all’art. 5 della Decisione Quadro 2003/568/GAI, che  impone a ciascuno Stato membro di adottare “le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili degli illeciti di corruzione privata commessi a loro beneficio da qualsiasi persona, che agisca individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, la quale occupi una posizione dirigente in seno alla persona giuridica”.
A seguito dei richiami provenienti dalla Commissione europea, che sul punto aveva addirittura avviato, nel dicembre 2015, una procedura d’infrazione (EU-Pilot n. 8175/15/HOME) nei confronti del nostro paese, il legislatore nazionale è intervenuto con il più volte citato d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38, introducendo un carico sanzionatorio per l’ente ancora più gravoso del precedente.
L’ art. 25-ter lett. s-bis) prevede infatti la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote in caso di corruzione attiva; la sanzione da duecento a quattrocento quote nei casi di istigazione alla corruzione attiva di cui al nuovo art. 2635-bis c.c. L’assetto attualmente vigente prevede, altresì, che, nei casi di cui all’art. 13 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, sanzioni interdittive di cui all’art. 9 c. 2 dello stesso decreto, eventualmente sostituibili dalla prosecuzione dell’attività da parte del commissario giudiziale, se sussistono le condizioni di cui all’art. 15.
L’ art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, prevede inoltre la confisca anche per equivalente, del profitto o del prezzo della corruzione attiva o dell’istigazione alla stessa.
La sanzione per l’ente risulta per la corruzione privata addirittura più grave nel minimo corruzione privata rispetto a quella prevista per la corruzione di cui all’art. 319 c.p.
 
 
 
§ 6 – Tirando le somme
 
L’analisi sin qui compiuta dà il segno di quanto la vigente ‘disciplina dei fatti corruttivi privati’, dettata dal combinato disposto degli artt. 2635 e 2635-bis c.c., sia priva di determinatezza e, sotto il profilo della offesa, profondamente carente di identità.
Non vale certo, ai fini del recupero di simili deficit, l’asserita nobiltà del fine. La mission di abbattere il clientelismo, se priva degli idonei strumenti, rimane una mera espressione di desiderata ascrivibili alla più generica speranza di un ‘mondo migliore’. 
Le due previsioni incriminatrici, oramai concepite in ottica ‘di pura osservanza’, hanno una portata e un ambito di applicazione tendenzialmente indeterminati. A fronte di una qualsivoglia vantaggio, ex post identificabile come “altra utilità”, ogni comportamento può essere letto in termini di violazione di un qualche dovere d’ufficio o di fedeltà. Nella definizione di detti doveri la struttura della fattispecie transita per la valvola di elementi normativi che, per la loro ardua identificabilità, traghettano pericolosamente la qualificazione giuridica del fatto nel mondo della tipicità postuma”[42].
Non è agevole prevedere quali effetti i recenti interventi di law enforcement potranno sortire. Quel che è certo, è che sfugge ai meccanismi punitivi dell’assetto normativo vigente quanto ‘il mondo dei privati’ sia una realtà in continuo fermento. In essa è la regola il ricorrere di rapporti che implicano favori e contro-favori, certamente inconcepibili in ambito pubblicistico. Introdurre norme penali che puniscano, tra l’altro, condotte afferenti anche all’attività d’impresa dovrebbe essere sempre considerata ratio, se non extrema, quantomeno sussidiaria e residuale, in ossequio ad una concezione del rapporto autorità-libertà concretamente ed efficacemente liberale.
Fuori dai reati fallimentari che, come tali, per definizione, intervengono su di un’azienda che ha cessato il suo corso, i reati quali quelli in esame colpiscono un’attività che, come molto spesso accade, è nel pieno della sua operatività. Le fattispecie criminose in analisi costituiscono uno strumento che interviene in corpore vivo e che, dunque, rischia di recare effetti peggiori della lesione che dovrebbero scongiurare.
Accade, invece, che in ossequio ad un’improvvida equiparazione pubblico-privato si sia cancellata dalla formulazione del delitto di cui all’art. 2635 c.c., il riferimento al nocumento. Esso dettava le coordinate di una fattispecie volta ad una, sia pure vaga, tutela degli interessi dell’“ente”. A seguito di tale novella, l’attuale risulta in grado di colpire anche gli atti posti in essere in favore di esso. Tale elisione, senza l’arricchimento del fatto reato mediante elementi dotati di effettiva capacità di perimetrazione, costituisce un segnale di verso esattamente opposto a quello della tutela della certezza dei traffici economici e commerciali. L’attuale disciplina, sul piano, dunque, della capacità di selezione dei fatti realmente dotati di disvalore nonché su quello dell’impatto che può svolgere sul piano concreto, si rivela incapace di cogliere la fisiologica complessità e fluidità della realtà cui è rivolta.
Il rinvio agli obblighi d’ufficio e di fedeltà è, in questo sterminato campo delle attività private, necessariamente impreciso e opinabile. L’handicap è dettato dal percorso di identificazione delle fonti ulteriori di produzione e cognizione che qualificano tali. Si tratta di un percorso randomico e lasciato nella sostanza all’arbitrio del giudicante. Il venir meno di una effettiva capacità di selezione dei fatti realmente dotati di disvalore rischia di far assomigliare le previsioni oggetto del presente esame, molto più che a un moderno bio-diserbante sinergico, a un incontrollato lanciafiamme.
Il difetto di attenzione e, possiamo anche dire, l’improvvido distacco del nostro legislatore verso i reali e concreti interessi in campo, è reso palese anche dagli sbilanciamenti in tema di responsabilità dell’ente sia sotto il profilo dell’an sia sotto il profilo del quantum. Al di là delle differenze in ordine al ‘titolo’ delle responsabilità tra fatti corruttivi pubblici e fatti corruttivi privati, il trattamento sanzionatorio dell’ente previsto per questi ultimi è perequabile a quello afferente ai primi, fino, in alcuni casi, addirittura a surclassarlo[43].
Quanto appena rassegnato rende il senso di quanto le fattispecie dimostrino un’idoneità a muoversi nella cristalleria degli interessi e dei rapporti privati con la stessa precisione del sempre vivido elefante.
La disciplina oggi offerta dagli artt. 2635 e 2635 bis c.c. segna un abbandono, almeno apparentemente definitivo, della previgente visione liberale. Essa reca il segno di un annullamento dei punti di riferimento cardine, in ragione di una asserita, sovraordinata esigenza di prevenzione e repressione della humana natura corrupta[44].
Il legislatore dà l’impressione di aver ritenuto di normare dei “mala in se” piuttosto che dei “mala quia prohibita”[45]. Come se la semplice evocazione del nomen “corruzione” risulti sufficiente, in quanto avente ad oggetto fatti capaci di ‘autodefinizione’.
Si tratta invece dell’esatto contrario.
 
 
 
 
 


[1] A tale riguardo appare significativa l’evoluzione della formulazione del diritto di proprietà privata siccome resa dall’art. 832 del Codice civile del 1942. In esso si definisce come “pieno”, e non più “assoluto”, il diritto di godere del bene espresso appunto dal diritto di proprietà. Parimenti significativa è l’affermazione dei limiti alla libera iniziativa economica privata riconosciuti dalla nostra Carta fondamentale (art. 41 Cost.).
[2] Vd, in argomento, G. ALPA, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Bari, 2009.
[3] T. DANT, Mannheim pensatore completamente moderno e la “Weltanschauung” post-moderna
[4] Recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” in G.U. 18 agosto 1990 n. 192.
[5] Recante “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione pubblicita’ e trasparenza correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” in G.U. 8 giugno 2016, n. 132.
[6] Si legge nel sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione che con la normativa FOIA, “l’ordinamento italiano riconosce la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni come diritto fondamentale. Il principio che guida l’intera normativa è la tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo di tutti i soggetti della società civile: in assenza di ostacoli riconducibili ai limiti previsti dalla legge, le amministrazioni devono dare prevalenza al diritto di chiunque di conoscere e di accedere alle informazioni possedute dalla Pubblica Amministrazione”. http://www.funzionepubblica.gov.it/foia-7
[7] E. BANFIELD, The Moral Basis of a Backward Society 1958, tradotto in Le Basi Morali di una Società Arretrata, Bologna, 2010.
[8] Essi sono oggi normati dall’art. 83, comma 1 e 10, e dall’art. 213, comma 7 del d.lgs. 50/2016. Con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 50/2016. Il principio di funzionamento del rating d’impresa prevedono che l’ANAC definisca i requisiti reputazionali e i criteri di valutazione degli stessi, nonché le modalità di rilascio della relativa certificazione, mediante linee guida adottate entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del Codice. Tale definizione di criteri è chiaramente propedeutica ai fini della selezione delle società offerenti. Inoltre, l’esigenza di contrastare la corruzione nel settore degli appalti pubblici ha contribuito ad introdurre l’obbligo per le stazioni appaltanti di adottare meccanismi preventivi e, allo stesso tempo, la necessità che i soggetti privati destinatari di risorse pubbliche sotto qualsiasi forma (sovvenzioni/contributi o corrispettivi di un appalto), forniscano maggiori garanzie di legalità. Su tale fronte interviene il “rating di legalità” dettati dalla l. 6 novembre 2012, n. 190.
[9] N. PARISI, La prevenzione della corruzione nel modello internazionale ed europeo, p. 2, in federalismi.it, n. 9/2019
[10] Vd. in argomento, Cass., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 36359, Forgetti, in C.E.D. Cass., n. 276905. In dottrina, sul punto, M. DI SIENA, Operazioni soggettivamente inesistenti e detraibilità IVA, in Rass. trib., 2007, p. 211; A. LOVISOLO, Operazioni soggettivamente inesistenti ed, “inerenza soggettiva”: la Cassazione ribadisce la propria “giurisprudenza del disvalore”, in Riv. giur. trib., n. 5, 2010, p. 419; M. LOGOZZO, IVA e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, p. 288; F. ARDITO, Emissione di fatture per operazioni inesistenti e Iva, in Rass. trib., 2006, p. 642.
[11] Sul punto, in particolare sulla “insufficienza” delle ragioni di politica criminale di una tale scelta normativa, A. MANNA, La scissione della concussione in due fattispecie distinte, nell’ambito di uno sguardo generale sulla recente riforma dei reati di concussione e corruzione, in Arch. pen., gennaio-aprile 2013, fasc. 1, anno LXV, 15-36; v. dello stesso Autore, La differenza tra concussione per costrizione ed induzione indebita: riflessioni a margine del dispositivo delle Sezioni Unite, in archiviopenale.it, 2013/10/8, commento alla sentenza delle SS.UU., 24.10.2013, Maldera ed altri. V. anche, più in generale, sui reati contro la P.A., AA.VV., I reati contro i beni pubblici – Stato, amministrazione pubblica e della giustizia, ordine pubblico, a cura di G. COCCO – E.M. AMBROSETTI – E. MEZZETTI, 2a ed., Padova, 2013, p. 231 ss.; S. SEMINARA, I delitti di concussione e induzione indebita, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO (a cura di), La legge anticorruzione, Torino, 2013, p. 398; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 2013, addenda, p. 16. Per la giurisprudenza v. ex multis, Cass., sez. VI, 12.3.2013, Castelluzzo, in Mass. Uff., n. 254440.
[12] Su tale argomento, diffusamente, E. DI CARLO, Interesse primario dell’azienda come principio-guida e bene comune, Torino, 2017.
[13] Vd. sull’evolversi dalla fine del secolo scorso del livello di attenzione sul tema della corruzione privata, SPENA A., Punire la corruzione privata? Un inventario di perplessità politico-criminali, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2007, p. 805; v. anche F. CINGARI, Repressione e prevenzione della corruzione pubblica verso un modello di contrasto “integrato”, Torino, 2012, p. 164 ss.; F. CONSULICH, La corruzione, il comparaggio e la conciliazione degli opposti: quando l’ipercriminalizzazione teorica diventa ipocriminalizzazione pratica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2012, 1623; FOFFANI L., Infedeltà patrimoniale e conflitto di interessi nella gestione d’impresa, Milano, 1997.
[14] La scelta non aveva incontrato il favore di una dottrina dell’epoca. Vd. in tal senso, P. NUVOLONE, L’infedeltà patrimoniale nel diritto penale, Milano, 1941.
[15] Vd. in argomento,R. ARTARIA, Statuti normativi del diritto di proprietà, pubblici poteri e disciplina dei beni, Milano, 2003; L. CASSETTI, La Corte e le scelte di politica economica: la discutibile dilatazione dell’intervento statale a tutela della concorrenza, in “Federalismi.it”, n. 5/2004 M. LOTTINI, La libertà d’impresa come diritto fondamentale, in “Il Foro amministrativo”, vol. III, n. 2, 2004, p. 541 e ss.; L. C. NATALI, Tutela della libertà d’impresa nell’ordinamento nazionale, comunitario e nella Carta di Nizza, in “I Contratti”, n. 7/2004, p. 729 e ss.; I. MUSU, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41? In “Note di lavoro” n. 3, Università Ca’ Foscari, Venezia 2008; A. BALDASSARRE, Non serve modificare l’articolo 41. A cancellarlo di fatto ci ha già pensato la UE, in “Corriere della Sera”, 10 giugno 2010
[16] A. MANNA, Il lato oscuro del diritto penale, Pisa, 2017.
[17] Recante la “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, in G.U. 15 aprile 2002, n. 88.
[18] Il testo dell’art. 2635 relativo al reato di «infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità» era del seguente tenore: «1. Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci, i liquidatori e i responsabili della revisione, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione sino a tre anni. 2. La stessa pena si applica a chi dà o promette utilità. 3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 4. Si procede a querela della persona offesa». La previsione incriminatrice di cui all’art. 2635 c.c. venne da subito giudicata un minus rispetto a quanto richiesto in ambito internazionale, in quanto descriveva una fattispecie di reato propria, come tale ristretta ad una “elitaria” cerchia di soggetti quali possibili responsabili. Inoltre, non anticipava, come invece da più parti si era richiesto, la soglia di punibilità alle condotte che fossero anche solo idonee a «comportare distorsioni di concorrenza come minimo nell’ambito del mercato comune» e a «produrre danni economici a terzi attraverso una non corretta aggiudicazione o una non corretta esecuzione del contratto» (art. 2, Azione comune europea). La fattispecie piuttosto che volta alla salvaguardia del dovere di fedeltà degli amministratori, risultava, infatti, orientata verso una proiezione di tutela di rango strettamente patrimonialistico. Ulteriore vulnus alla concreta operatività della previsione veniva ricondotto alla necessaria presenza del nocumento per la società inteso in termini di evento in senso strettoAnche per queste ragioni il testo originario dell’art. 2635 c.c., per come sostituito dall’art. 1, D.Lgs. 11.4.2002, n. 61, era stato dapprima modificato dall’art. 15, comma 1, dell’art. 39, comma 2, L. 28.12.2005, n. 262 e, successivamente, dall’art 37, D.Lgs. 27.1.2010, n. 39. Per la dottrina v. a tale riguardo CERQUA L., La corruzione tra privati, in PIERGALLINI (a cura di), La riforma dei reati societari, Milano, 2004, p. 134.
[19] Per dare il segno di quanto gli interventi di law enforcement abbiano mai potuto incidere sino ad oggi sulla detta ‘classifica’, giova segnalare che nel 2010 l’Italia era collocata al 67° posto. Ad oggi, nonostante i detti interventi, continua ad essere collocata al 51° posto come nel 2015.  Sulle esigenze di armonizzazione internazionale della normativa anticorruzione e sul trema dei rapporti tra il reato di corruzione tra privati e i reati di false comunicazioni sociali, vd. MILITELLO V., Fondi neri e corruzione tra privati in Italia, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2012, p. 907 ss. L’Autore pone anche riferimento all’interesse evidenziato da alcune ricerche comparate, citando, tra gli altri, AA.VV., La corruzione tra privati. Esperienze comparatistiche e prospettive di riforma, (a cura di) ACQUAROLI-FOFFANI, Milano, 2003. Per le iniziative sovranazionali orientate ad una strategia globale contro la corruzione, lo stesso Autore utilmente richiama Cingari F., Repressione e prevenzione della corruzione pubblica, Torino, 2012, p. 70 s. e MONGILLO V., La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, Napoli, 2012, pp. 28 s., 463 s., 513 s.
[20] Gli Stati membri e firmatari del documento si sono impegnati a criminalizzare le seguenti condotte intenzionali: «promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia o ometta un atto in violazione di un dovere; sollecitare o ricevere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accettare la promessa di tale vantaggio, per sé o per un terzo, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, per compiere o per omettere un atto, in violazione di un dovere».
[21] Secondo cui: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che le seguenti condotte intenzionali costituiscano un illecito penale allorché sono compiute nell’ambito di attività professionali:
a) promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia o ometta un atto in violazione di un dovere;
b) sollecitare o ricevere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accettare la promessa di tale vantaggio, per sé o per un terzo, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, per compiere o per omettere un atto, in violazione di un dovere.
2. Il paragrafo 1 si applica alle attività professionali svolte nell’ambito di entità a scopo di lucro e senza scopo di lucro.
3. Uno Stato membro può dichiarare di volere limitare l’ambito di applicazione del paragrafo 1 alle condotte che comportano, o potrebbero comportare, distorsioni di concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali.
4. Le dichiarazioni di cui al paragrafo 3 sono comunicate al Consiglio all’atto dell’adozione della presente decisione quadro e sono valide per cinque anni a decorrere dal 22 luglio 2005.
5. Il Consiglio riesamina questo articolo in tempo utile anteriormente al 22 luglio 2010 onde valutare se sia possibile prorogare le dichiarazioni di cui al paragrafo 3».
V. art. 29, comma 1, L. 25.2.2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007): «1. Il Governo adotta il decreto legislativo recante le norme occorrenti per dare attuazione alla decisione quadro 2003/568/ GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato, (…) sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi, realizzando il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti:
a) introdurre nel libro II, Titolo viii, capo II, del codice penale una fattispecie criminosa la quale punisca con la reclusione da uno a cinque anni la condotta di chi, nell’ambito di attività professionali, intenzionalmente sollecita o riceve, per sé o per un terzo, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accetta la promessa di tale vantaggio, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative non meramente esecutive per conto di una entità del settore privato, per compiere o omettere un atto, in violazione di un dovere, sempreché tale condotta comporti o possa comportare distorsioni di concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali;
b) prevedere la punibilità con la stessa pena anche di colui che, intenzionalmente, nell’ambito di attività professionali, direttamente o tramite intermediario, dà, offre o promette il vantaggio di cui alla lettera a);
c) introdurre fra i reati di cui alla sezione III del capo I del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, le fattispecie criminose di cui alle lettere a) e b), con la previsione di adeguate sanzioni pecuniarie e interdittive nei confronti delle entità nel cui interesse o vantaggio sia stato posto in essere il reato».
[22] Vd. a tale riguardo, tra  gli  altri,  M. MONTANARI, La  normativa italiana in materia  di  corruzione  al  vaglio  delle  istituzioni internazionali. I rapporti dell’Unione europea, del Working Group on Bribery dell’OCSE e del GRECO concernenti il nostro Paese, in Dir. pen. cont., luglio 2012.
[23] Recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione”, in G.U., 13 novembre 2012, n. 265-
[24] All’art. 76 veniva disposto: “L’articolo 2635 del codice civile è sostituito dal seguente: «Art. 2635. – (Corruzione tra privati). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per se’ o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. Chi da’ o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste. Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni. Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.
Cfr., in dottrina sull’argomento, G. ANDREAZZA – L. PISTORELLI, Una prima lettura della l. 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione). Relazione a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in Dir. pen. cont., 20.11.2012, p. 19; E. DOLCINI – F. VIGANÒ, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., 1/2012, 232 s.; A. MANNA, Reati contro la pubblica amministrazione, in Treccani.it-Diritto on line (2012), www.treccani.it/enciclopedia/reati-contro-la-pubblica-amministrazione, D. PULITANÒ – A. MELCHIONDA, Art. 2635 c.c. (“Corruzione fra privati”), in Giur. it., 2012, p. 2698 ss.; Seminara, I delitti di concussione e induzione indebita, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO (a cura di), La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013, p. 384 s.; P. SEVERINO, La nuova Legge anticorruzione, in Dir. pen. e processo, 2013, p. 7; A. SPENA, Per una critica dell’art. 319-quater c.p. Una via intermedia tra concussione e corruzione? in Dir. pen. cont., 28.3.2013.
[25] I commi successivi recitavano secondo quanto segue: “Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 58/1998, e successive modificazioni.
Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.
[26] In tal senso, Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 5848, in Giur. it., 2013, p. 1397.
[27] Sul punto vd., ex multis, Cass., sez. V, 17 ottobre 2005, n. 43388, in C.E.D. Cass., 2005, rv. 232456. Per la dottrina, R. BARTOLI, Corruzione tra privati, in B.G. MATTARELLA – M. PELISSERO (a cura di), La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013, p. 445.
[28] Recante “Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato”, in G.U. 30 marzo 2017, n. 75.
[29] Recante “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, in G.U. 16 gennaio 2019, n. 13
[30] L. 9 gennaio 2019, n. 3 (art. 1, comma 5, lett. b). In ragione anche di quest’ultimo intervento di modifica l’art. 2635 c.c., attualmente recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.
Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste.
Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte”.
L’art. 2635 bis  c.c. attualmente recita: “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi un’attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, che sollecitano per se’ o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia accettata”.
[31] Sui deficit di determinatezza del riferimento alla “altra utilità”, vale l’esperienza maturata in tema di ‘corruzione pubblica’, nel cui contesto con riferimento al delitto di cui all’art. 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), in essa si ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale e non, che abbia valore per il pubblico agente. In tal senso Cass. Sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 45847, Scognamiglio, in C.E.D. Cass. n. 260822. La S.C. ha affermato sul punto che “la linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 24656 del 18/06/2010, dep. 30/06/2010, Rv. 248001) è chiara nel ritenere che, in tema di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, ai fini dell’accertamento della controprestazione offerta dal corruttore, la nozione di ‘altra utilità’ quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico ufficiale non va circoscritta soltanto alle utilità di natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e in dirette. In tal senso si è precisato, inoltre, che la nozione di ‘altra utilità’, quale oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente (Sez. 6, n. 29789 del 27/06/2013, dep. 11/07/2013, Rv. 255617)”.
No di segno diverso sono gli esiti dell’esperienza ermeneutica sulle “altre utilità” cui norme quali quella di cui all’art. 648 bis e 648 ter1 c.p. pongono riferimento, vedasi la ben più ampia esperienza dogmatica ed ermeneutica maturatasi riguardo a dette fattispecie. Ex multis, Cass., sez II, 17 gennaio 2012, n. 6061, Gallo, in C.E.D. Cass., n. 252701; Cass., sez.II, 30 gennaio 2018, n. 11836, Malangone, in C.E.D. Cass., n. 648653; vd. anche, per la giurisprudenza più recente: Cass. sez. II, 3 ottobre 2012 n. 42120, Caravelli, in Dir. e giust., 2012, 31 ottobre, con nota di DI GIACOMO, E’ confiscabile qualunque illecito risparmio di imposta tra cui è ricompresa anche l’elusione del pagamento degli interessi e delle sanzioni amministrative sul debito tributario. In dottrina, su questo tema, B. ASSUMMA, Riciclaggio di capitali e reati tributari, in Rass. trib., n. 11/1995, p. 1795. Per la dottrina ‘post-riforma’, vd. G. FIANDACA– E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, II, IV ed., Bologna. 2013, p. 244; A. COSSEDDU, Relazione al Convegno Normativa antiriciclaggio- 2° Convegno sull’evoluzione del quadro regolamentare e i connessi aspetti procedurali operativi, Sassari 18 febbraio 2011, in   http://www.bancaditalia.it/UIF/pubblicazioni-uif/normativa-antiriciclaggio-2-convegno. Per la giurisprudenza, vd. Trib. Milano, Ufficio G.i.p., ord. 19 febbraio 1999, in Foro ambr., 1999, con nota di G. FLORA, Sulla configurabilità del riciclaggio di proventi da frode fiscale, 441 ss.; G.M. FLICK, Le risposte nazionali al riciclaggio di capitali. La situazione in Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1292; G.M. FLICK, La repressione del riciclaggio ed il controllo della intermediazione finanziaria. Problemi attuali e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1264; GROSSO, Frode fiscale e riciclaggio: nodi centrali di politica criminale nella prospettiva comunitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1279; F. HINNA DANESI, Proventi da frode fiscale e riciclaggio, in Il fisco, n. 40/1995, p. 9758; M. ZANCHETTI, voce Riciclaggio, in Dig. disc. pen., vol. XII, Torino, 1997, 211; ID., Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 408 ss.; ID, Il contributo delle organizzazioni internazionali nella definizione delle strategie di contrasto al riciclaggio, a cura di Manna, Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, p. 8.
[32] K. JONGWOOK – J.T. MAHONEY, Property rights theory, transaction costs theory, and agency theory: an organizational economics approach to strategic management, 2005. Secondo gli Autori, “Property rights theory has common antecedents with contractual theories of the firm such as transaction costs and agency theories, and is yet distinct from these theories. We illustrate fundamental theoretical principles derived from these three theories by analyzing the business case of oil field unitization. Theoretical principles and application of theory to oil field unitization are each summarized. From this, it is possible to see how property rights theory is well suited to explain business situations where inefficient economic outcomes persist. Additionally, property rights theory forges new theoretical connections with other branches of organizational economics, in particular, resource-based theory”. Vd. in argomento, anche D.J. DENIS – D.K. DENIS – A. SARIN,  Agency theory and the influence of equity ownership structure on corporate diversification strategies agency theory and the influence of equity ownership structure on corporate diversification strategies, in Strategic Management Journal, 1999, p. 1071 ss.
[33]  Sulla “teoria contrattuale dell’impresa”, vd., ex multis, R.H. COASE, Impresa, mercato, diritto, Bologna, Il Mulino, 1995 e F. H. EASTERBROOK, D. R. FISCHEL, L’economia delle società per azioni, Milano, Giuffrè, 1996. La teoria contrattuale indicata sorge sulla riconosciuta maggiore efficienza del contratto sulla legge. La fonte negoziale viene indicata come il migliore sistema di allocazione delle risorse anche sotto il profilo della definizione della struttura organizzativa della società. A tal fine si si segnala quanto il legislatore non possa perseguire l’interesse delle parti in modo più vantaggioso delle parti medesime, né essere meglio informato sulle circostanze dell’affare oggetto dell’accordo.
[34] Vd. in argomento, S. BONINI, L’ elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e costituzionali, Trento, 2016, p. 12. Per la dottrina più risalente l’Autore cita B. PETROCELLI, Norma penale e regolamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, p. 369 e 374, secondo cui già in quegli anni si avverte la “grave esigenza pratica” dettata dalla “necessità che l’obbedienza alle prescrizioni dei regolamenti, in particolare per il normale svolgimento della vita degli enti locali, sia assicurata con le più efficaci sanzioni”. Sui riflessi sotto il profilo del nesso soggettivo, vd. D. PULITANÓ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 319-327.
[35] Il riferimento al nocumento in quanto tale, privo di qualsivoglia specificazione, era stato giudicato in grado di comprendere lesioni di ogni ordine e grado (morale, di immagine, ecc.). Secondo la S.C. (Cass., sez. V,  11 febbraio 2014, n. 29605, in Giur. pen., 1 ottobre 2014), ai sensi del combinato disposto dell’art. 2629-bis c.c. e dell’art. 2391, 1° comma, c.c., il richiamo alla nozione di nocumento deve intendersi dimostrativo di una dimensione non strettamente patrimoniale del pregiudizio rilevante ai fini della configurabilità del reato. Tale decisum si colloca sul solco segnato dalla S.C. in altre precedenti occasioni, durante la vigenza della fattispecie della «Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità». Secondo la S.C. il nocumento per la società da cui dipendeva la sussistenza del reato poteva consistere nella lesione di qualsiasi interesse suscettibile di valutazione economica, come tale non collegato necessariamente alla causazione di un immediato danno patrimoniale. Vd. sul punto, Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 5848, Corallo, in C.E.D. Cass., n. 254832. Per la giurisprudenza più risalente vd. Cass., sez. V,  17 ottobre 2005, n. 43388, Carboni, in C.E.D. Cass., 2005, n. 232456.
 
[36] In questi termini, ancora Cass., sez. V,  11 febbraio 2014, n. 29605, in Giur. pen., 1 ottobre 2014.
[37] Vd. sul punto, passim, G. CANZIO – L.D. CERQUA – L. LUPARIA (a cura di), Diritto penale delle società, Padova, 2014.
[38] V. in argomento PULITANÒ D., La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., 2012, (suppl. al n. 11), p. 15 s.
[39] La Commissione europea sul punto aveva avviato, nel dicembre 2015, una procedura d’infrazione (EU-Pilot n. 8175/15/HOME).
[40] Esse sono eventualmente sostituibili con la prosecuzione dell’attività da parte del commissario giudiziale, se sussistono le condizioni di cui all’art. 15.
[41] Sulla responsabilità dell’ente, vd. ex multis M. LAVACCHINI,Capitolo IV – La responsabilità dell’ente per i delitti di Concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione (art. 25, decreto n. 231/2001), in Trattato di diritto penale dell’economia, II, 2019, p. 3248-3281.
 
[42] L’espressione è di SGUBBI, Il diritto penale totale, Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019. Vd. anche su questo argomento, MANNA, Il “lavoro sporco” del diritto penale, Atti del convegno di Treviso 24 marzo 2017, Milano, 2018.
[43] Sui rapporti tra etica pubblica e diritto penale, Vd. M. DONINI, Il diritto penale come etica pubblica, in Dir. pen. cont., 2015.
[44] Per gli opportuni raffronti e analogie, vd. L. COVA, La corruzione della natura umana nel pensiero medievale: Bonaventura interprete di Agostino, fasc.1, 2015,http://cyonline.unife.it/article/view/1097
[45] R. PIZZORNI, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Acquino, Bologna, 2000, p. 599.