COMPRENDERE IL FUTURO – DI FRANCESCO PETRELLI
di Francesco Petrelli
Il futuro che sta arrivando non promette nulla di buono. Per le norme all’esame del parlamento ci sono soggetti processuali da tutelare e soggetti da sacrificare e si intravedono linee di una stabilizzazione della legislazione dell’emergenza. L’introduzione di un processo de-localizzato non solo sconvolge i “valori” del processo accusatorio, ma finisce con il polverizzare la “natura” stessa del processo in quanto tale. Occorre levare una voce preoccupata, al tempo stessa dura e responsabile, per le sorti del processo penale.
Il problema non è quello di prevedere il futuro ma di comprenderlo quando arriva. E il futuro che sta arrivando non promette nulla di buono. Non si tratta di attivare qualche algoritmo predittivo ma di decifrare alcuni segni che già il presente ci mostra a piene mani. Proviamo a leggerli tutti insieme. Gli emendamenti approvati hanno ulteriormente chiarito, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quali siano nell’emergenza-virus i soggetti processuali da tutelare e quali quelli da sacrificare, quali gli interessi da salvaguardare e quali i diritti e le garanzie del giusto processo di cui fare tranquillamente a meno. Quali indagini svolgere al sicuro e quali persone esporre invece al contagio. Con delle linee guida di tutela che valgono per il pubblico ministero, ma non per il detenuto in attesa di giudizio, con un’idea della sicurezza e delle garanzie anch’essa a intermittenza, che non valgono per chi sconta la pena in carcere, ma solo per chi la somministra. Un apparato emergenziale che ha fatto giustamente denunciare i rischi di un pericoloso e non reversibile smantellamento dei valori del processo penale.
Occorre rilevare in proposito come l’uso in chiave recessiva ed autoritaria dello stato di emergenza sia un fenomeno tanto noto e tanto ovvio nei suoi sviluppi, nelle sue dinamiche e nelle sue giustificazioni politiche, culturali e psicologiche che non vale neppure la pena di soffermarcisi troppo. Quel che vale invece la pena di chiarire è che la storia delle riforme del processo penale in questi anni e la stessa propulsione antigarantista, autoritaria e carcero-centrica impressa alle riforme dal fenomeno del populismo penale nel nostro Paese, hanno prodotto nel tempo un assetto politico-giudiziario (e direi anche culturale) che lascia intravedere con assoluta nettezza le linee di una stabilizzazione della legislazione dell’emergenza. E la non rassicurante prospettiva di chi immagina, con l’applicazione di queste norme emergenziali, di “sperimentare il futuro”. Valga per tutte la orgogliosa rivendicazione del dottor Gratteri della primogenitura del progetto applicativo del processo a distanza. Ben venga, infatti, per i seguaci del mancato Ministro e per questa linea di pensiero maggioritaria l’introduzione di un processo de-localizzato, sbrigativo, snello ed economico in linea con la fase recessiva attraversata dall’intero Paese, nel quale i giudici stanno nei loro uffici o quelli popolari nelle loro case, gli imputati nei loro domicili (o nelle carceri che li ospitano), e gli avvocati dove meglio credano, ma non a coltivare il processo con gli obsoleti strumenti del contraddittorio e dell’immediatezza o a rivendicare il valore democratico della “pubblicità delle udienze”, principio che esce evidentemente disintegrato da questa modalità di fare (una volta si diceva “celebrare”) i processi.
Quanto all’utilizzo delle tecnologie all’interno del processo penale, implementato in maniera indiscriminata ed apparentemente salvifica, dalla decretazione emergenziale, occorre guardare al problema tenendo necessariamente conto delle reali linee di tensione che attraversano la storia della politica giudiziaria del nostro Paese. Se non vi è dubbio, infatti, che la tecnologia applicata al processo (e da tempo da noi auspicata) possa avere effetti benefici, c’è tuttavia da chiedersi come mai nessuna delle virtù informatiche e telematiche offerte dal progresso sia mai stata applicata sino ad ora al processo penale a beneficio delle garanzie processuali. E c’è da domandarsi come mai ora quella tecnologia si ritorca invece – come lo scorpione della favola antica – interamente contro i presupposti stessi del processo penale inteso come dispositivo democratico, liberale e garantista.
E ciò che ancor più preoccupa è che l’emergenza, come spesso accade, finisce con il trasformare la logica delle cose in un asfissiante “prendere o lasciare”, il cui risultato è proprio quello di chiudere ogni spazio di riflessione sulle possibili dinamiche che in profondità governano i fenomeni delle legislazioni d’emergenza ed i possibili danni strutturali che esse inevitabilmente determinano. Ed è proprio questo un punto fondamentale della questione. In una democrazia lo stato di necessità è infatti una ipotesi che certamente vale alla adozione di misure eccezionali, ma che deve anche essere l’occasione di un necessario patto fatto di chiarezza e di lealtà fra lo Stato e il cittadino, un patto che ha ad oggetto la dichiarata ma straordinaria sospensione di alcuni diritti e di alcune garanzie e l’assunzione dell’impegno ad una immediata chiusura di tale fase di deroga in coincidenza con la fine dell’emergenza. Ma questa rassicurazione formale, questa dichiarazione d’impegno di natura pattizia, dovrebbe venire coralmente dal Parlamento e dal Governo, mentre un preoccupante silenzio ha accompagnato l’introduzione di quelle norme processuali e neppure una parola è stata detta in proposito dal Ministro della Giustizia, come se Costituzione e Convenzioni non esistessero.
Occorre ricordare in proposito come anche l’art. 146-bis delle norme d’attuazione introdusse negli anni novanta, in via eccezionale, emergenziale e temporanea si disse, il processo a distanza, mentre poi questa modalità si è stabilizzata nei processi di criminalità organizzata al di fuori di quei contesti e la riforma Orlando, con la sola voce contraria dell’avvocatura, e non certo dell’ANM, ha pochi anni fa ulteriormente esteso l’utilizzo del dispositivo telematico al di fuori di ogni giudizio di pericolosità e di ogni istanza securitaria. E ricordiamo di aver visto una lunga parabola di controriforme che dagli anni novanta in poi hanno segnato il processo penale, piegando il modello accusatorio ed il giusto processo di volta in volta alle esigenze del fenomeno mafioso, poi di quello corruttivo e poi ancora a quelle dell’efficientismo, demolendo un pezzo per volta la strutture portanti della legalità sostanziale e processuale. Distorcendo il processo penale in virtù di ipotetiche esigenze di sicurezza “percepite”, e piegando a tali presunte esigenze tutti i valori costituzionali del contraddittorio, del diritto di difesa, della presunzione di innocenza, della riservatezza delle comunicazioni, della ragionevole durata.
Sappiamo bene che vi è una parte della magistratura italiana che ha fatto delle garanzie processuali una “componente imprescindibile della propria cultura”, e che pure si sono levate al suo interno voci autorevoli a denunciare accanto all’avvocatura i rischi di una smaterializzazione del processo e delle udienze affermando che “la presenza fisica non è solo garanzia del diritto di difesa” ma anche del “risultato epistemologico dell’acquisizione probatoria”. Ma quel che preoccupa è che si tratta di una parte minoritaria, considerata dai più quasi eretica nell’attuale scenario, in un momento nel quale la realtà della cultura giudiziaria maturata in questi anni nel nostro Paese si mostra per quel che è, una voragine nella quale sono precipitati tutti i valori del processo che ruotano intorno a quel superprincipio rappresentato dalla inviolabilità della dignità della persona. Una cultura cinica di cui il populismo penale è stato solo lo strumento e l’occasione, ma le cui radici sono da cercare nella nostra storia nazionale ed all’interno di una magistratura che coltiva ancora l’idea di una giustizia paternalistica, illiberale ed autoritaria che non ha mai certo “interiorizzato” le garanzie del giusto processo e tanto meno la qualità epistemologica del contraddittorio.
E vi è da fare infatti in proposito – approfittando di questa sonda cognitiva più sensibile che la crisi ci consegna – una ulteriore considerazione relativa alle sorti stesse della giurisdizione, sulle quali l’intera magistratura dovrebbe forse più attentamente riflettere. Ricordare cioè che un giudice che fa i processi a distanza e delibera in camere di consiglio con giudici popolari collocati ciascuno dove vuole, sulla base di testimonianze assunte da remoto, non solo sconvolge i “valori” del processo accusatorio, ma finisce con il polverizzare la “natura” stessa del processo in quanto tale. E quel giudice che non ha più interesse a coltivare la formazione della prova nel contraddittorio delle parti a contatto fisico con il testimone, così come quel giudice che pensa egli stesso di poter essere sostituito una due, tre, cento volte durante il processo, è un giudice che si delegittima da solo, che mortifica la giurisdizione ed il suo stesso ruolo sociale.
C’è dunque da non stare affatto tranquilli nel vedere questo futuro che arriva perché, per quel che c’è da comprendere, non sarà un futuro che ci piace e che possa giovare alla nostra fragile e opportunista democrazia. È sulla base di queste non lontanissime esperienze che riteniamo che si debba levare una voce preoccupata, al tempo stessa dura e responsabile, per le sorti del processo penale. Ricordando che quel che accade alle garanzie del processo poi si riflette sull’assetto democratico dell’intero Paese. Ed è per tali ragioni che le valutazioni del dottor Albamonte ci paiono troppo generose ed è in base a questi elementi che riteniamo che le sue ottimistiche rassicurazioni non possano sostituirsi a quelle del Ministro e che non siano sufficienti a contraddire quel main-stream che attraversa Governo e Parlamento e che in ossequio all’emergenza sta costruendo con il fango della propria incoerenza e della propria incultura un mostruoso e pericolosissimo Golem che una volta che avrà preso vita non sarà poi facile riaddomesticare.