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PENA E CARCERE ALLA PROVA DELL’EMERGENZA – DI DOMENICO PULITANÒ

PENA E CARCERE ALLA PROVA DELL’EMERGENZA – DI DOMENICO PULITANÒ

PULITANÒ – PENA E CARCERE ALLA PROVA DELL’EMERGENZA CARCERE.PDF

di Domenico Pulitanò

 È davvero fra le priorità di oggi, riportare in carcere alcuni picciotti e alcuni anziani e malati boss? O è stata più importante, anche per la ripresa morale del paese, l’attenzione mostrata dalla magistratura di sorveglianza verso i diritti e la salute di chiunque? Nel pieno di una crisi devastante della socialità e dell’economia, perseverare nella linea carcerocentrica è una fuga dalle responsabilità, una mancanza di intelligenza degli avvenimenti e dei problemi reali di sicurezza e di giustizia.

1.

Prendendo spunto dalle discussioni di questi giorni sulle scarcerazioni per ragioni di salute, propongo alcune riflessioni sulle ‘culture’ o ideologie riguardanti il diritto e la giustizia penale.

Le discussioni sono state innescate da due provvedimenti[1] della magistratura di sorveglianza che hanno disposto il differimento di pena, in regime di detenzione domiciliare, di due condannati per delitti di mafia in regime di art. 41-bis[2]. Le critiche non hanno messo in discussione le questioni di salute; si sono appuntate sulla caratura criminale di condannati per mafia, e hanno riguardato innanzi tutto la gestione del DAP, per non avere trovato all’interno del mondo del carcere una sistemazione adeguata alle esigenze sanitarie, per centinaia di imputati o condannati per delitti di mafia e traffico di droga[3] che nell’emergenza sanitaria sono passati dal carcere agli arresti domiciliari o alla detenzione domiciliare.

Nel d.l. 30 aprile 2020, n. 28, è stata introdotta una modifica processuale che recepisce le preoccupazioni suscitate dall’uscita dal carcere di condannati per delitti gravi[4]. Sul piano degli equilibri formali, una riforma difendibile[5]. Di fatto introduce nel procedimento una voce pensata come autorevole veicolo di ragioni securitarie, in grado di esercitare un forte condizionamento sul magistrato di sorveglianza chiamato a decidere[6].

La discussione sul DAP è divenuta occasione di contrasto fra il Ministro della giustizia e un noto magistrato antimafia che non era stato nominato Direttore del DAP due anni fa. Senza entrare nel merito delle diatribe politiche, è d’interesse per il giurista lo sfondo ‘culturale’ della questione, l’idea che la direzione del DAP debba essere scelta (preferibilmente) in ottica antimafia. l magistrato e il ministro si sono confrontati su questo tacito presupposto. Di fatto, le recenti nomine dei nuovi vertici del DAP (a seguito delle dimissioni del dott. Basentini) sono cadute su magistrati del PM impegnati sul fronte del contrasto alla mafia.

Nella trasmissione TV in cui è nata la diatriba, l’ex Ministro in carica nei primi anni ’90, che aveva portato agli Affari penali Giovanni Falcone, ha saggiamente osservato che la funzione del DAP è la gestione del sistema carcere; non è l’antimafia. Il problema mafia è uno, non l’unico, fra i tanti problemi che interessano il diritto e la giustizia penale e anche la gestione del carcere[7].

2.

I due provvedimenti giudiziari sui quali si è avviata la discussione riguardano mafiosi di spicco, in carcere da moltissimi anni: uno dal 20.6.2006 (fine pena 12.3.2021), l’altro dal 28.6.2007 (fine pena 16.7.2025, ma da rideterminare a seguito di provvedimento di unificazione di pene concorrenti)[8].

Ha un significato apprezzabile, sul piano della giustizia e/o della sicurezza, il passaggio (in via transitoria o definitiva) dal carcere alla detenzione domiciliare – per stringenti esigenze di tutela della salute – di condannati per delitti di mafia in regime 41-bis, che hanno finora espiato la maggior parte della pena, con un lunghissimo periodo di detenzione? I due sui quali si è centrata la discussione sarebbero tornati in libertà per fine pena, in un caso (un anziano di 78 anni) fra meno di un anno, nell’altro caso fra qualche anno[9]. Che cosa c’è di così grave, pericoloso, scandaloso, nei provvedimenti adottati?

La dimensione temporale degli effetti delle decisioni non è stata considerata nelle riflessioni critiche a mia conoscenza. Non la considerazione del tempo trascorso dai commessi delitti ad oggi; non la considerazione dei molti anni di carcere e della distanza temporale del fine pena.

Il lungo tempo di carcerazione già sofferta significa anche distanza temporale dai delitti per cui v’è stata condanna. L’uscita dal carcere per fine pena è nella logica di un sistema di giustizia legale, anche per i condannati per mafia (anche per i boss) che debbano scontare una pena detentiva non a vita. Ha senso esprimere preoccupazione e gridare allo scandalo per l’anticipazione dell’uscita dal carcere, in detenzione domiciliare, per stringenti ragioni di salute?

Anche per i condannati in regime di 41-bis si può porre il problema di provvedimenti a tutela della salute. Alla base, un bilanciamento d’interessi; la prevalenza dell’uno o dell’altro è questione di merito. I provvedimenti in esame non hanno sottovalutato la caratura personale dei personaggi. Ritroviamo tale espressione nell’esemplare ordinanza sassarese, che ha motivato il differimento della pena per tre mesi in detenzione domiciliare, in esito a un accurato esame di tutti gli aspetti rilevanti per il bilanciamento d’interessi, fra i quali la mancata risposta del DAP circa la possibilità di una soluzione interna al carcere[10].

La mancata considerazione della rilevanza del tempo per la giustizia penale, rilevabile nelle critiche o preoccupazioni securitarie sui provvedimenti della magistratura di sorveglianza, è in linea con tante altre manifestazioni dell’attuale momento punitivo[11]. Si pensi al ripescaggio del passato, come questione d’interesse per la giustizia penale oggi, da parte di ben intenzionati movimenti tipo me-too, che danno importanza alla denuncia di responsabilità risalenti anche a un passato molto lontano, e arrivano a pretendere la messa al bando di opere del denunciato[12]. Si pensi al rilievo attribuito a responsabilità per fatti di decenni fa, per i quali è stata da tempo espiata la pena, come stigma discriminatorio ancora oggi, ben al di là dell’orizzonte della giustizia penale[13]. Si pensi alla proiezione verso un futuro indefinito, espressa dal blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado¸ la questione che aveva tenuto la scena nell’ultimo periodo ante emergenza.

L’ottica giustizialista, o pregiudizialmente securitaria, non vede il problema se e quali rilevanza sia da riconoscere allo scorrere del tempo per le valutazioni di giustizia penale. Quanto minore la rilevanza attribuita al tempo, tanto più forte l’importanza attribuita al punire, sulla base di valutazioni (di per sé ragionevoli) relative al passato, proiettate sull’oggi e trasformate in preoccupazioni (più o meno opinabili) relative al futuro.

3.

L’uscita dal carcere di personaggi di spicco della mafia è stata additata come un’offesa dei diritti delle vittime della mafia. Della mafia in genere? Così inteso, l’argomento sarebbe non in linea con il principio costituzionale (e di civiltà giuridica) di personalità della responsabilità penale.

Certo, è comprensibile il dolore espresso dai genitori di un bambino sequestrato e sciolto nell’acido, per il passaggio del carceriere dal 41-bis alla detenzione domiciliare[14]. Un uomo di 84 anni, malato di cancro. Il dolore delle vittime non è – e non può essere – un criterio di commisurazione della pena, né di valutazioni e decisioni che debbono bilanciare interessi confliggenti, comprese le esigenze di cura di un ottuagenario gravemente ammalato.

Dalle reazioni mediatiche emerge un concorrente rilievo di emozioni o valutazioni di giustizia retributiva. “Si mette in discussione la certezza della pena”, è il titolo di un articolo de la Repubblica, 6 maggio 2020[15].

I provvedimenti di cui si discute non sono di riduzione della pena. Caso mai ne è stata modificata la modalità d’esecuzione. In molti casi si tratta di custodia cautelare (cioè di responsabilità non ancora accertate in via definitiva).

Certezza della pena è una formula che piace, suona rassicurante, è politicamente spendibile. Spesso parliamo di certezza come sinonimo di legalità. Certezza della pena come canone costituzionale, dice il linguaggio usato dall’attuale Ministro della giustizia[16].

Il lessico della certezza si presta a un uso retorico: presuppone come ovvio (senza dirlo espressamente) che la pena prevista dalla legge sia effettivamente irrogata agli autori di reato, e che la pena irrogata sia effettivamente espiata. La metamorfosi linguistica del principio penalistico di legalità in canone costituzionale di certezza della pena rende bene quest’insieme di significati. È un messaggio politicamente efficace, ma fuorviante.

Legalità della pena significa predeterminazione legale dei modelli di risposta al reato. Nulla di meno, e nulla di più: la predeterminazione legale è aperta alla possibilità di modelli diversi di articolazione legale delle risposte al reato, e a modifiche del percorso dell’esecuzione in ragione di elementi sopravvenuti. In questa prospettiva viene in rilievo l’idea della rieducazione (cioè di una pena che possa avere un significato anche per il condannato); e possono venire in rilievo anche altre ragioni, fra le quali la considerazione di problemi di salute. Nella relazione sulla giustizia costituzionale del 2019, la Presidente Marta Cartabia ha parlato di proporzionalità e flessibilità della pena. Sono caratteri che la pena legale dovrebbe avere, non sono alternative alla legalità.

4.

Il trattarsi di condannati per mafia in regime 41-bis ha portato in primo piano preoccupazioni securitarie. Davvero la sicurezza è stata messa in pericolo? La condanna a pena detentiva non presuppone un giudizio di attuale pericolosità del condannato, ma solo l’accertamento di responsabilità e una commisurazione secondo criteri legalmente predefiniti. Se un singolo condannato a pena detentiva sia o non sia persona pericolosa, quando entra in carcere o dopo anni di carcere, è questione di fatto. La neutralizzazione di una persona pericolosa non è la ragione che fonda la pena detentiva come risposta di giustizia a un commesso reato[17]. L’idea che la pena detentiva risponda ad esigenze di sicurezza, forse iscritta in un diffuso senso comune, non rispecchia il senso della condanna.

Certo, di fronte al problema mafia la pena detentiva ha che fare con problemi sia di deterrenza (pena minacciata) sia di giustizia e di sicurezza (l’esecuzione in carcere). La valutazione di pericolosità personale viene in rilievo ai fini dell’applicazione del 41-bis, sull’ovvia premessa che non è un presupposto necessario dell’esecuzione della pena. Con riguardo a un insieme di condannati (o, a maggior ragione, il cui prodotto di imputati) la questione dell’eventuale pericolosità può essere ragionevolmente proposta caso per caso.

Di fronte ai passaggi alla detenzione domiciliare o agli arresti domiciliari per motivi legati alle condizioni sanitarie, la risposta enfaticamente preannunciata dal Ministro è arrivata col decreto legge 10 maggio n. 29, che dispone – con riguardo agli associati di mafia, terrorismo, droga – la rivisitazione delle decisioni adottate, a scadenza periodica (per i condannati) o (nel caso di imputati) su richiesta del PM.

Dietro il messaggio propagandistico, il decreto legge produrrà un carico aggiuntivo di lavoro e una voluta, fortissima pressione psicologia sui giudici. Su questi graverà anche il problema di riportare la procedura a un minimo di decenza, assicurando le condizioni del contraddittorio con la difesa: un aspetto che il decreto legge ha ignorato.

Resta l’interrogativo di fondo: è davvero fra le priorità di oggi, riportare in carcere alcuni picciotti e alcuni anziani e malati boss? O è stata più importante, anche per la ripresa morale del paese, l’attenzione mostrata dalla magistratura di sorveglianza verso i diritti e la salute di chiunque?

5.

La critica pregiudiziale verso un certo tipo di provvedimenti della magistratura di sorveglianza, scollegata dalla considerazione dei casi concreti, rispecchia le culture e le politiche penali che hanno segnato l’inizio di questa XVIII legislatura. Politiche del più penale, securitarie, rispondenti a emozioni forti e diffuse, ma non rispondenti ai problemi che la rottura della normalità (l’emergenza della pandemia e il conseguente lock down) hanno portato in primo piano: problemi di vita e di morte, rispetto ai quali i problemi dell’ordinaria sicurezza – quelli del penale normale – appaiono comparativamente più piccoli. Il penale è stato per così dire spiazzato dalla posizione centrale che gli è attribuita dalle politiche del recente passato.

I tanto discussi provvedimenti della magistratura di sorveglianza sono motivati su ragioni ben riconosciute in dottrina e in giurisprudenza. Le critiche sembrano essersi indirizzate innanzi tutto verso la gestione del carcere; le decisioni giudiziarie sono criticate non con argomenti tecnico-giuridici, ma per gli effetti di scarcerazione di condannati per mafia. Effetti sopravvalutati, come già si è detto, per mancata considerazione della dimensione temporale, della vicinanza (o non lontananza) dei fine pena.

Le riflessioni critiche qui svolte, sulla enfatizzazione deformante del problema mafia, intendono spostare l’attenzione sugli approcci ai problemi della pena e del carcere. Rispetto alle discussioni del periodo ante emergenza, l’emergenza sanitaria e la crisi economica aggiungono nuovi elementi di preoccupazione circa le possibili politiche penali.  Siamo entrati in uno scenario di crisi che prevedibilmente durerà a lungo; difficile anche sotto l’aspetto sociale, che possiamo ipotizzare turbolento, ed esposto a rischi di varia natura, anche per la tenuta della democrazia liberale, quale vorremmo sia e resti salda la normalità da recuperare dopo la sospensione totale (da metà marzo) e poi parziale (dal 4 maggio) della normalità liberale.

In uno scenario difficile sotto l’aspetto economico, riguarda anche il penale il problema di un uso delle risorse disponibili che sia razionale anche dal punto di vista economico, che guarda il rapporto costi/benefici. Ridurre i costi del penale, di qualsiasi natura, in un attento bilanciamento con i benefici attesi. Tagliare i rami che incentivano attività superflue, che appesantiscono il funzionamento della macchina[18], e spesso non hanno significati né di giustizia, né di sicurezza.

È la continuità con le politiche e le retoriche ante emergenza l’aspetto preoccupante di esibizioni di rigore antimafia, volte alla ricerca di consensi, che ripropongono immagini deformate della realtà, e forzature securitarie e carcerocentriche, trasmesse ed enfatizzate come doverosa assunzione di responsabilità. Nel pieno di una crisi devastante della socialità e dell’economia, perseverare nella linea carcerocentrica è una fuga dalle responsabilità, una mancanza di intelligenza degli avvenimenti e dei problemi reali di sicurezza e di giustizia.

 

[1] Pubblicati in Sistema penale, 1° maggio 2020, con nota di A. Della Bella, Emergenza covid e 41-bis: tra tutela di diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche.

[2]  Un esempio delle critiche: M. Travaglio, Cupolavirus, in Il fatto quotidiano, 24 aprile.

[3]376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure”, è il titolo di un articolo de la Repubblica, 6 maggio 2020. Nella lista sono compresi 3 o 4 condannati al 41-bis. Altri condannati in regime di alta sicurezza, 196 agli arresti domiciliari in attesa di giudizio. Leggiamo nel Corriere della sera, 7 maggio, che si tratta di condannati o accusati per reati di mafia e traffico di droga. Così sintetizza ironicamente G. Ferrara, Togliere la coca dall’informazione italiana, Il foglio, 9 maggio 2020: “Tre è un numero diverso da 376. Boss mafioso è definizione diversa da manovale della delinquenza. Arresti domiciliari è nozione diversa da remissione in libertà. Chi ha sei mesi finali da scontare di una lunga pena è diverso da chi è lontano dalla espiazione della pena. Chi è seriamente malato e non in grado di essere accudito in un centro carcerario è diverso da chi è sano”.

[4] Con riguardo alla concessione o proroga della detenzione domiciliare in surroga, nei casi in cui sarebbe possibile il rinvio dell’esecuzione della pena, per i detenuti per uno dei delitti previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cpp, deve essere chiesto il parere del procuratore antimafia (distrettuale, o nazionale per i detenuti in regime 41-bis); la decisione, in assenza del parere, non può essere presa prima di un termine che in certi casi arriva a 15 giorni[4]. Ovviamente il parere del procuratore antimafia non è vincolante (sarebbe manifestamente incostituzionale vincolare il giudice a un parere di parte); non necessariamente sarà negativo. Cfr. M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto legge n. 28 del 2020, in Sistema penale, 1° maggio 2020.

[5] M. Chiavario, in Avvenire, 3 maggio 2020.

[6] L’ottica della riforma è stata definita carcerocentrica da G.M. Flick nell’intervista su Il dubbio, 1° maggio 2020.

[7] Pertinenti osservazioni sono state svolte da G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione del magistrato, in Diritto di Difesa, 6 maggio 2020.

[8] A. Della Bella, op. cit., indica il 2024.

[9] Le età dei boss usciti dal 41-bis sono 60, 65, 78, 80 anni.

[10] Nota a margine: le due vicende in esame si caratterizzano per il salto brusco dal 41-bis alla detenzione domiciliare. Appare ragionevole domandarsi: ha senso man tenere in regime 41-bis un condannato che si avvicina al fine pena? O non sarebbe sensato prevedere, in via generale, percorsi di avvicinamento al ritorno in libertà, che comunque sarebbe arrivato indipendentemente da ragioni di salute?

[11] Traggo questa definizione da D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Milano 2018. Sulla rilevanza del tempo ho svolto alcune riflessioni in D. Pulitanò, Tempo e giustizia penale, in Sistema penale, 2 dicembre 2019.

[12] Anche di un denunciato che non è stato ritenuto colpevole, mostra la nota vicenda di Woody Allen.

[13] Vedi vicenda relativa ad uno dei condannati per l’omicidio Ramelli, risalente al 1975, in D. Pulitanò, Lezioni dell’emergenza e riflessioni sul dopo, in Sistema penale, 20 aprile 2020.

[14] Dal Corriere della sera, 7 maggio 2020, articolo intitolato “Il papà del bimbo nell’acido: Ilo sequestratore ora è a casa Ma lo Stato c’è o non c’è?”. Non è riferita la data del delitto, che ricordo lontana.

[15] Si tratta di un’intervista alla sorella di Giovanni Falcone; la prima fase, fra virgolette, è “la certezza della pena, in un paese democratico, non dovrebbe mai essere messa in discussione”.

[16] Sintesi della Relazione sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2019.

[17] Nel caso di condanna per delitti gravissimi, accettiamo o esigiamo come giusta un’esecuzione anche a grande distanza temporale dal commesso delitto, indipendentemente dall’ipotesi di una pericolosità attuale, indebolita nel tempo (caso Battisti, estradato dopo 40 anni dagli omicidi per i quali è stato condannato).

[18] Riprende questi temi G. Pignatone, La giustizia e l’agenda da cambiare, in La stampa, 11 maggio 2020.