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APPUNTI SPARSI DI ‘LOTTA PER IL DIRITTO’ di Vincenzo Maiello

APPUNTI SPARSI DI ‘LOTTA PER IL DIRITTO’ di Vincenzo Maiello

di Vincenzo Maiello

L’apparizione (o, se si preferisce, la ricomparsa in forme e con vesti rinnovate) di una rivista ideata e organizzata dall’associazione degli avvocati penalisti italiani segna un evento importante, da salutare con speciale favore. Non per assecondare velleità narcise, ma affinché – nello spazio di una riflessione ‘scientifica’ non ipotecata da chiusure corporative ed autoreferenziali, ma ovviamente aperta al confronto ed alla discussione critica – prosegua l’impegno dell’Unione a sostenere le ragioni del modello di giustizia penale che si riconosca nella civiltà dei principi costituzionali.
Nell’ormai celebre Manifesto, i penalisti italiani hanno inteso appellare tale paradigma ricorrendo alla definizione con la quale è stato connotato dal lessico civile e politico della Modernità. A taluni la qualifica liberale è apparsa però sprovvista della necessaria attitudine stipulativa, vuoi perché recherebbe il rischio di generare improprie sovrapposizioni con l’omologa tradizione di pensiero politico, vuoi perché semanticamente inadeguata a descrivere il chiasmo funzionale (scilicet, l’apparente ossimoro) dei programmi di azione interni all’universo penalistico. Quel che, tuttavia, va sottratto ad equivoci di sorta è la sostanza del riferimento; in esso i penalisti italiani hanno inteso leggere l’esito della svolta epocale (vero e proprio cambio di paradigma) vissuta dagli assetti di potere punitivi, nel trapasso storico dall’autoritarismo degli Stati di antico regime (perciò detti pre-moderni) alle forme di organizzazione politica della convivenza sociale fondati sul primato dei diritti individuali.
Quel modello – si chiami liberale, illuministico o, semplicemente, garantistico – costruisce la coercizione pubblica come espressione di una teoria politica che predica la limitazione del potere a garanzia dei diritti inviolabili della persona, segnatamente delle prerogative di libertà.
In un tempo nel quale si fa strada il bisogno di ricostruire la grammatica del discorso civile sul tema dei rapporti tra autorità e individuo, può non essere superfluo rammentare che la correlazione biunivoca tra diritti di libertà e limiti giuridici al potere punitivo – oltre ad assecondare l’aspirazione della cultura illuministico-rivoluzionaria alla minimizzazione della violenza istituzionale, razionalizzando la discrezionalità legislativa e sottolineando la natura dichiarativa della decisione giudiziale – gioca una specifica rilevanza sul piano della dottrina politica, consentendo di riconoscere piena legittimazione al diritto penale anche nel contesto di uno Stato edificato sull’apriori dei diritti umani.
Ora, questa concezione del rapporto tra potere punitivo e diritti individuali – all’esito di una parabola di incivilimento delle istituzioni politiche niente affatto, ma anzi segnata da fratture, crisi e regressioni – è divenuta patrimonio dello Stato costituzionale. Eppure, il suo odierno stato di salute non corrisponde affatto alle aspettative alimentate dallo statuto del suo rango sovraordinato, nel tempo rafforzatosi nella cornice del sistema multilevel e, particolarmente, del diritto internazionale dei diritti umani.
Complice la natura ‘controintuitiva’ della cultura che lo ispira e dei principi che ne strutturano il funzionamento, quel modello è messo all’indice nel discorso pubblico che lo addita quale responsabile della (ritenuta) scarsa resa dell’azione repressiva, di cui sarebbe rappresentazione la forte divaricazione tra domande formalizzate di tutela e condanne emesse.
Il rischio (niente affatto peregrino) è, allora, che il vento dello spirito popolare possa condizionare non solo l’azione politica legittimata dal consenso elettorale, ma le stesse istituzioni penali di garanzia.
Insomma, preoccupa che una cultura sociale angosciata da frustrazioni ed insicurezze e, per questo, percorsa da ansie repressive che spingono nella direzione di un ossessivo fanatismo punitivistico (FASSIN, Punire. Una passione contemporanea) possa condizionare la laicità dell’agire giurisdizionale, con pregiudizio del suo ufficio di custodire la duplice funzione delle garanzie penali di limitare il potere e proteggere le libertà dell’accusato.
Si tratta di un pericolo connaturato alla storicità del diritto e dei suoi processi di evoluzione rispetto ai quali la vigenza di una Costituzione rigida e di Carte internazionali di diritti umani rappresenta un baluardo significativo, ma di per sé non sufficiente. Decisivo nella partita storica tra le risorgenti concezioni autoritarie delle istituzioni penali e la loro destinazione a svolgere compiti di Magna Charta risulterà la capacità degli attori dell’esperienza giuridica (complessivamente intesa) di articolare discorsi sul diritto, in nome delle ragioni profonde del pensiero costituente dello Stato di diritto e della sua attuazione nella cornice della Carta repubblicana; dunque, la capacità di interpretare la struttura bipenne e intrinsecamente dialettica della coercizione, valorizzando – con equilibrio, ma senza arretramenti di circostanza – la componente liberal/individualistica.
Su queste premesse, l’affinamento dell’analisi e dello studio del diritto – nell’ottica della difesa penale – finisce per assumere la forma della militanza a protezione del paradigma garantistico, in una prospettiva che deve accompagnarsi al gusto dell’impegno civile in favore di una moderna lotta per il diritto.
I fronti lungo i quali riversare gli sforzi in questa direzione sono molteplici e tutti qualificati – per caratteri originari ovvero per le deformazioni impresse delle esperienze applicative – dalla prevalenza accordata ad esigenze di ampliamento della punibilità, extra et praeter legem.
A questo proposito, vorremmo segnalare la rinnovata esigenza di battersi in difesa del principio di legalità, in un momento nel quale sembra essersi aperto nella giurisprudenza costituzionale un canale di valorizzazione della dimensione testuale del nullum crimen, e del corollario della precisione linguistica dei relativi enunciati, destinata ad accordarsi a quelle versioni di legalità della legge che la dottrina del diritto vivente aveva fortemente ridimensionato, lasciando prefigurarne esiti di accentuata flessibilizzazione, quando non addirittura il loro inesorabile assorbimento nelle pieghe di fenomeni di desuetudine.
La svolta si compie – sull’abbrivio delle puntualizzazioni in tema di distinzione tra legis-latio e iuris-dictio operate dalla pronuncia n. 230/12 – con la sentenza n. 115/2018 che definisce l’affaire Taricco. Qui, la Consulta scrive con nettezza che le scelte di diritto penale “nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia” devono tradursi “in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati. Rispetto a tale origine nel diritto scritto, di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo (sottolineatura d.r.)”.
Che non si sia trattato di un obiter si ricava dall’ulteriore precisazione secondo cui “quand’anche la ‘regola Taricco’ potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contenuto meno sfocato, ciò non varrebbe a “colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale”.
Com’è stato prontamente rilevato, si è innanzi ad una svolta epocale che “sembra segnare una sorta di ripensamento della giurisprudenza costituzionale in relazione al vizio di determinatezza”, per la quale “eventuali deficit del principio di precisione (quale vincolo di tecnica normativa nei confronti del legislatore) sarebbero sanabili attraverso la stabilizzazione delle interpretazioni, ossia ad opera della giurisprudenza, cui verrebbe di fatto trasferito il compito di chiudere la fattispecie nel punto in cui risulta linguisticamente generico” (GIUNTA, Ghiribizzi penalistici per colpevoli. Legalità, “malalegalità”, dintorni, Pisa, 2019).
L’impostazione è stata poi ribadita nella sentenza n. 24/19, la quale se, per un verso, ha dato ingresso al diritto giurisprudenziale (quello cioè che tassativizza clausole normative generali o enunciati porosi e semanticamente incerti) nelle materie qualificate non penali – quale, nello specifico, la prevenzione ante delictum – per un altro, ha categoricamente escluso che in campo penale “l’esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti” valga “di per sé, a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale”.
Spetterà alla comunità degli interpreti – tra i quali innanzi tutto gli avvocati – incalzare il diritto delle Corti ad intraprendere un percorso di coerente e compiuta valorizzazione del nuovo corso, sia segnalando le situazioni nelle quali la struttura della tipicità legale debba essere sottoposta al sindacato del giudice costituzionale, sia concorrendo ad elaborare una articolata radiografia mappa dei diversi gradi di rilevanza del deficit di precisione semantico/linguistica dei diversi elementi dislocati con differente funzione nel quadro descrittivo delle fattispecie.
Esemplificando, può dirsi che un settore problematico, non sul solo piano della tenuta delle funzioni di garanzia della legalità, resta quello del diritto penale della criminalità organizzata.
Fattispecie quali il concorso esterno – osservato nella molteplicità dei casi tipologici nei quali la giurisprudenza frammenta le cornici di tipicità – lo scambio elettorale politico-mafioso, la configurabilità dell’archetipo di cui all’art. 416-bis sul terreno delle mafie delocalizzate e di quelle autoctone (ma non storiche) ed i criteri di imputazione delle figure circostanziali ad ambientazione mafiosa costituiscono i tavoli settori sui quali necessita un’opera di riabilitazione del tipo tassativo; in altri termini, occorre un’attività di paziente ricucitura degli strappi creati dalla processualizzazione delle categorie di diritto sostanziale che schiuda la strada alla riabilitazione delle funzioni di garanzia del tipo legale determinato al cui interno deve includersi la provabilità del fatto e, correlativamente, la confutabilità della proposizione accusatoria.
Discorso analogo merita la materia dei reati di corruzione, dove la giurisprudenza sembra fagocitata dalla voracità di una nozione sociologica di corruzione, da cui è derivata una tendenziale atipicità del reato affidata a fattispecie ubiquitarie ove lo scambio (anche solo diacronico) di prestazioni, l’utilità indebita o l’abuso della qualità hanno preso il posto del patto di mercimonio.
Altro settore problematico è quello dell’accertamento del dolo, nel quale la riesumazione della categoria del dolus in re ipsa determina lo scivolamento della ratio decidendi verso schemi presuntivi di verifica probatoria.
Anche qui, un impegno iscrivibile al paradigma della lotta per il diritto dovrà farsi carico di ricomporre le distanze tra queste degenerazioni della prassi e le posizioni più illuminate della stessa elaborazione giurisprudenziale (cfr. le SS.UU. nel caso Thyssenkrupp).
In tema di delitto colposo di evento le pratiche espansive della punibilità che ruotano intorno ad una trasfigurazione del tipo colposo passano attraverso la manipolazione della ri-descrizione dell’evento, segnatamente negli ambiti della responsabilità per infortuni sul lavoro e da gestione del rischio da esposizione professionali.
Qui, l’accertamento giudiziale si concentra sulla prevedibilità – al tempo della condotta illecita – dell’evento, in materie nelle quali le regole cautelari violate non sono rivolte ad impedire o ridurre le tipologie di infortuni concretamente vissute dal lavoratore. Ne deriva una certa sollecitazione a ri-descrivere in forma generica l’evento verificatosi ed a trasformare la regola cautelare in regola precauzionale, con conseguente flessibilizzazione dei requisiti di imputazione (causalità e colpa).
In questi contesti, la sofferenza del diritto di difesa appare collegarsi anche alla diffusa tendenza a costruire gli editti imputativi in chiave oltremodo elastica ed a ravvisare la colpa generica tutte le volte che non si riesca a provare quella specifica.
Si tratta di una realtà che nel complesso si pone in conflitto con la dimensione normativa della colpa penale e con la fondazione personalistica del relativo rimprovero in rapporto ad un reato di evento.
Un ulteriore tema che sollecita l’esigenza di riportare le interpretazioni correnti nel solco dei principi costituzionali riguarda la tipicità soggettiva dell’omicidio preterintenzionale, che un indirizzo ormai stabilizzatosi fa corrispondere al “dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 cod. pen. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato, per il quale i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d’inosservanza di norme sono assolutamente irrilevanti. (..) La ragione evidente è che chi agisce con dolo di delitto di percosse o lesioni per definizione può prevedere l’evento più grave del risultato voluto, indipendentemente dai parametri che servono a qualificare la colpa. Il rischio del verificarsi della morte è implicito nell’offesa dell’incolumità personale”.
L’impostazione non considera, da un canto, che l’omicidio preterintenzionale ripete la propria peculiarità dal rapporto tra il coefficiente psichico di un delitto doloso contro l’incolumità individuale ed il conseguente evento morte, da un altro, che quest’ultimo va imputato secondo un criterio di prevedibilità in concreto, pena la violazione del principio costituzionale di colpevolezza.
Presentano criticità anche gli indirizzi giurisprudenziali sul principio di affidamento nelle attività mediche di équipe, sulla responsabilità concorsuale commissiva nel delitto omissivo altrui e sul concorso omissivo nel delitto commissivo.
Un impegno a parte esige la materia della prevenzione ante delictum, soprattutto all’indomani della sentenza costituzionale post De Tommaso.
È di tutta evidenza che si tratta di una carrellata oltremodo parziale ed a macchia di leopardo, eppur significativa di esperienze applicative che esigono un’attività critica di analisi prodromica a promuovere una loro riabilitazione in chiave garantistica.
Anche in vista di questi traguardi, la rivista che oggi viene tenuta a battesimo deve coagulare le energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto.