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SEPARAZIONE DELLE «CARRIERE»: LE RAGIONI DI UN OBBIETTIVO STORICO DELL’AVVOCATURA – di Giuseppe Frigo

SEPARAZIONE DELLE «CARRIERE»: LE RAGIONI DI UN OBBIETTIVO STORICO DELL’AVVOCATURA – di Giuseppe Frigo

di Giuseppe Frigo*

Non è certamente una novità la scelta dell’avvocatura italiana per quel diverso assetto dell’ordinamento giudiziario, che da varie parti si propone di introdurre nel nostro paese e che passa ormai sotto la locuzione di «separazione delle carriere» dei giudici e dei pubblici ministeri.

Anzi, va ricordato che proprio gli avvocati possono rivendicare una sorta quasi di «primogenitura politica» della proposta, coincidente con la nascita, negli anni 80, dell’Unione delle Camere penali, che l’aveva raccolta, facendola propria, da alcune Camere penali territoriali; dunque, in un tempo in cui essa non era ancora entrata nei programmi dei partiti rappresentati in parlamento[1] e, in genere, dei movimenti politici e certamente si sottraeva a quelle che poi sarebbero diventate le ricorrenti accuse di «strumentalizzazione», che la indicavano come un mezzo per ledere l’indipendenza della magistratura e, in particolare, per sottomettere il pubblico ministero al potere esecutivo. Gli associati alle Camere penali hanno provenienze e inclinazioni “partitiche” diverse, pur essendosi da sempre trovati concordi nel perseguire l’obiettivo della «separazione delle carriere».

Del resto, proprio con riguardo alle caratteristiche della funzione processuale loro affidata, quella difensiva, gli avvocati sono non già occasionalmente (e, quindi, in via “strumentale”), ma permanentemente interessati ad un ordinamento che garantisca insieme la loro indipendenza e l’indipendenza dei soggetti – giudici e pubblici ministeri – cui è affidato l’esercizio delle altre funzioni processuali, quella giurisdizionale e quella di investigazione e di accusa. E proprio per questo sin dall’origine la loro proposta ha sempre sottolineato che la separazione deve significare mantenimento e, se occorre, rafforzamento dell’indipendenza (anche) del pubblico ministero, al pari dell’indipendenza del giudice da ogni altro potere (compreso quello … dello stesso pubblico ministero)[2].

Che, poi, la sensibilità per l’obbiettivo della separazione delle carriere sia sorta e cresciuta non tanto nell’avvocatura nel suo insieme, quanto (e piuttosto) nell’avvocatura penalistica, sviluppandosi e divenendo più acuta con il codice di procedura penale del 1988, non sorprende nessuno.

La collocazione istituzionale del pubblico ministero è un tema strettamente e indissolubilmente legato alla giustizia penale, come dimostra, in tutta evidenza, il fatto che il solo potere-dovere che a tale organo è assegnato dalla Costituzione (e che certamente non gli potrebbe essere sottratto) è quello di esercitare l’azione penale. Ed è, poi, la concreta esperienza della gestione dei processi penali che consente di apprezzare – specialmente dal versante dei singoli cittadini che vi sono, a vario titolo, coinvolti (ed è il versante su cui si collocano gli avvocati difensori) – se e in quale misura possono incidere, sull’imparzialità del giudice e sulla effettività stessa della tutela che gli può offrire, la sua contiguità e condivisione di interessi con il pubblico ministero, derivanti dall’appartenenza di entrambi a ruoli unificati, cui si accede con lo stesso concorso, al quale conseguono lo stesso tirocinio e la stessa progressione di anzianità, con la naturale e corrispondente possibilità di esercitare indifferentemente l’una funzione o l’altra.

Ed è chiaro – a meno di ipotizzare un improbabile, persistente e unanime errore collettivo – che, se tanto ferma è l’opzione degli avvocati penalisti per una riforma nel senso della separazione delle carriere, quella esperienza deve avere dato risultati complessivamente negativi, tanto più palesi dopo che il codice di procedura dell’88 ha disegnato un processo penale di parti, nel quale, dunque, è parte anche il pubblico ministero (come si addice al titolare, oltre tutto esclusivo, di una azione).

Nei documenti elaborati dall’avvocatura penalistica associata si coglie come una sorta di progressione nella consapevolezza dell’importanza di tale riforma, proprio in coincidenza con l’entrata in vigore di quel codice. Già nella mozione conclusiva del III Congresso dell’Unione delle Camere penali (Rimini, 1990) fu indicata l’esigenza di «una chiara, netta separazione tra il ruolo del pubblico ministero e quello del giudice». Al V Congresso (Abano, 1994), significativamente articolato sul tema «Tutti giudici, nessun giudice», richiamando tale esigenza, la mozione conclusiva la qualificò come una necessaria implicazione del «rito accusatorio e comunque del giusto processo» (con un palese riferimento alla nozione di questo, quale si coglie nelle Convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo), aggiungendo che «alla separazione delle funzioni non può che corrispondere una separazione della carriere, nel senso che ogni magistrato è vincolato stabilmente al suo ruolo» . Infine, al VI Congresso (Catania, 1996) si precisò, da un lato, che «separazione delle carriere e dei ruoli – condizione ulteriormente necessaria (anche se forse neppure sufficiente) per dare spessore alla distinzione delle funzioni processuali – non può non significare … diverso accesso, quindi diverso concorso, diventa progressione, diaframma reale tra corpo dei giudici e corpo dei pubblici ministeri, non più colleghi e contigui, ma diversi» e si affermò, dall’altro, «la priorità di questa riforma anche rispetto alle riforme processuali», avendo constatato la obbiettiva debolezza di queste di fronte al «blocco monopolistico dei poteri giudiziari e alla sua ideologia dominante»[3].

Il pregio che anche i dissenzienti potrebbero forse riconoscere a questa posizione – già alla stregua del linguaggio con cui è espressa – è quello di porre in luce come il tema della separazione o della unicità delle carriere non è riducibile al piano delle scelte puramente tecniche, se non dopo che sono state fatte scelte di sistema, le quali sono essenzialmente ideologico-politiche.

Poiché queste per loro natura scontano una scala piuttosto che un’altra scala di “valori”, sembra doversi riconoscere che, al più, si può tentare di svelarli, mettendo, per così dire, le carte in tavola, non mascherando per scelta tecnica quella che, invece, è una scelta politica né cercando di nascondere questa dietro la prima, ammantando tutto di una razionalità che il presupposto ideologico di per sé non accetta; e di indicare, per contro, il senso della maggiore o minore coerenza razionale dello strumento tecnico in relazione alla sua idoneità ad assecondare l’una o l’altra scelta politica.

Così, a titolo d’esempio, quando si propone di rendere in vario modo più difficile il passaggio di un magistrato da una funzione requirente ad una giudicante e viceversa[4], si fanno certamente scelte in sé “tecniche”, più o meno coerenti e idonee a certi scopi (promuovere le professionalità, prevenire incompatibilità processuali o magari solo disagi personali, ecc.), ma non pare dubbio che dietro la «tecnicità» sta una opzione di base, la quale resta “politica”: quella di mantenere comunque in capo ad uno stesso corpo di funzionari, sostanzialmente tra loro intercambiabili, l’esercizio monopolistico esclusivo dei poteri giudiziari e particolarmente (avuto riguardo alla giustizia penale) insieme del potere di azione e del potere di giurisdizione.

Ora, l’avvocatura penalistica ha maturato soprattutto nell’esperienza quanto già potrebbe costituire il risultato di una valutazione teorica, cioè la convinzione che tale scelta, così come quella opposta di una separazione dei ruoli, non siano affatto indipendenti, ma siano, invece, legate ad altre scelte concernenti il modello di processo penale e, anzi, lo stesso scopo che si intende assegnare a tale processo; e altresì la convinzione che il ritenere come “variabile indipendente” rispetto al modello processuale la collocazione ordinamentale del pubblico ministero (unita e commista ovvero separata rispetto a quella del giudice) costituisca una “pretesa”, a sua volta “politica”, per giustificare, a esempio, la convivenza impossibile tra il sistema delineato dal codice di procedura dell’88 e il vigente ordinamento giudiziario, mentre proprio questa vigenza è tra le cause di una, per così dire (eufemisticamente), “imperfetta” realizzazione di quel sistema.

Riconoscere un rapporto stretto tra modello di giustizia penale e suoi scopi (anzi, si potrebbe dire «problema penale»), da un lato, e collocazione ordinamentale del giudice e del p.m., dall’altro, significa niente più che individuare la qualità di un nesso tra funzioni processuali e assetto dell’ordinamento, nel senso che il modo di distinguere e distribuire (o di non distinguere e di non distribuire) le prime postula l’una piuttosto che l’altra struttura del secondo e questa, d’altra parte, condiziona l’effettività di quel modo.

Se la scelta politica è per un sistema penale nel quale al versante sostanziale delle norme incriminatrici corrisponde un versante processuale disegnato secondo uno schema, per così dire, lineare, concepito – nella versione individualistica – come lo strumento diretto per l’attuazione dei precetti e delle sanzioni penali e, nella versione “sociale” o “collettivistica”, come uno dei principali strumenti di lotta contro interi fenomeni criminali (il terrorismo, la mafia, la criminalità organizzata, la criminalità politico-amministrativa, ecc.), allora questa strumentalità diretta del processo penale rispetto al diritto sostanziale rende poco coerente enucleare distinzioni nette tra la funzione, per così dire, di impulso e quella decisoria, rispettivamente del p.m. e del giudice. Entrambi finiscono per avere lo stesso obbiettivo, lungo la linea retta di questo modulo processuale e, tutt’al più, il secondo può essere – sulla stessa linea – un “controllore” del primo.

La concezione del modulo medesimo postula poteri giudiziari sostanzialmente compattati e reciprocamente vicari, così che l’azione possa attendersi dalla giurisdizione una risposta coerente. Pubblico ministero e giudice agiscono in un regime di monopolio (certamente dell’investigazione e della prova, ma poi del giudizio sui risultati, oltre che sull’interpretazione giuridica). Non è un caso, quindi, che nelle esperienze concrete di questo tipo di processo spesso sia mancato addirittura o abbia svolto un ruolo secondario il pubblico ministero (pensiamo a certi processi di ancien régime o al nostro vecchio pretore o allo stesso nostro vecchio dibattimento) ovvero egli abbia agito, per così dire, “a braccetto” del giudice (ricordiamo le sinergie tra p.m. e giudice istruttore della nostra anche recente tradizione e, in genere, quanto accadeva e accade nei modelli neo inquisitori o “misti”)[5].

Il coerente riflesso ordinamentale di questa concezione politica del processo penale e dei suoi obbiettivi è l’appartenenza del pubblico ministero e del giudice allo stesso corpo burocratico. Anzi, si è acutamente notato che la commistione ordinamentale tra l’uno e l’altro risultava particolarmente congeniale proprio al processo c.d. «misto», tanto più se con forti accentuazioni inquisitorie[6].

Si connettono a questa stessa ideologia del processo penale, in guisa di sue particolari espressioni (più o meno riconosciute o consapevoli) le concezioni del pubblico ministero come organo “imparziale”[7], difensore e promotore del rispetto e della attuazione della legge, soggetto non interessato e così via, delle quali taluni opinano potersi trovare traccia anche in norme del codice di procedura penale, in particolare nell’art. 358[8] . Da queste concezioni si fa, poi, discendere una asserita strutturale impossibilità di configurare una posizione paritaria del pubblico ministero rispetto alla difesa (il che costituisce niente più che un corollario, quando ci si orienta per una assimilazione delle funzioni del primo a quelle del giudice).

Certo è che, ove si accentui nel pubblico ministero non la qualità di organo dell’azione davanti al giudice, ma quella di un organo che si muove solo per l’applicazione della legge e, corrispondentemente, nel giudice colui che con i suoi provvedimenti «concretizza» l’attuazione della legge, si finisce quantomeno per rendere difficile la distinzione delle due rispettive funzioni e per collocarle, piuttosto, lungo lo stesso itinerario, appunto, «lineare»[9]. Tutto ciò – è ovvio – sul piano ordinamentale trova, poi, un riscontro coerente nell’unicità dell’accesso, dei ruoli, della progressione, ecc.

Un pensiero più raffinato e più recente – ma che, a nostro avviso, si colloca, esso pure, all’interno della medesima prospettiva ideologica – è quello di chi, muovendo dalla considerazione che la comune cultura della giurisdizione è un valore, ne fa discendere l’esigenza di conservare quella unicità, per mantenere così il pubblico ministero nell’ambito di tale cultura.

Questo pensiero, tuttavia e innanzi tutto, non spiega a quale giurisdizione si intenda fare riferimento (se, cioè, a quella del giudice inquisitore del modello «lineare», come sembra più facile sottintendere, in quanto postula quasi necessariamente una commistione con il p.m., ovvero ad altra). In secondo luogo, a qualunque giurisdizione si voglia fare riferimento, la relativa cultura – per essere davvero un valore – dovrebbe essere comune non solo a giudici e pubblici ministeri, ma anche a tutti gli altri soggetti chiamati ad esercitare funzioni processuali (in particolare, agli avvocati difensori) e, in definitiva, a tutti i cittadini, prescindendo dalla appartenenza o meno ad un unico corpo burocratico. Si tratterà, semmai, di promuovere con mezzi idonei lo sviluppo e, poi, il rispetto attraverso comportamenti coerenti.

È, dunque, da credere che l’evocare tale cultura per tenere insieme pubblici ministeri e giudici voglia significare proprio altro, cioè coinvolgere gli uni e gli altri in uno stesso modo di concepire e “fare” giurisdizione penale, cioè nel modo corrispondente al modello processuale di cui parliamo, che favorisce la nascita e la vita di figure di “quasi-giudici” e di “Quasi-pubblici ministeri”.

Tuttavia, può darsi una diversa scelta politica di base sul modello: quella (sostenuta dall’avvocatura penalistica, che, proprio per ciò, ha aderito alla svolta riformatrice del codice del 1988, ravvisandovi un deciso progresso in tale direzione) che affida al processo penale una strumentalità indiretta rispetto alla attuazione del diritto penale sostanziale. Il processo non è strumento per la “concretizzazione” delle norme sostanziali, ma per la soluzione dei conflitti intersoggettivi sulla loro applicazione.

L’esigenza di tale «concretizzazione» diventa pretesa punitiva, che si soggettivizza nel potere di azione penale ed il conflitto, la controversia (reali e potenziali) si instaurano tra il portatore di questa pretesa ed il soggetto nei cui confronti essa è “azionata”.

Si tratta di una diversa scelta che dà profilo ad un modello processuale “triadico”, il quale giustifica ed esige una netta diversificazione delle funzioni del p.m. e del giudice.

Il primo è colui che, esprimendo l’esigenza di «concretizzazione» della norma penale, aziona la pretesa punitiva, facendola valere nel processo: non si tratta, certo, di un interesse proprio, ma di un interesse della collettività la quale, nondimeno (questo è il senso vero della scelta «politica»), accetta di farsi parte, anche in senso sostanziale, ponendosi con quella pretesa al livello della parte contrapposta, il cittadino; ma non già «indifferente» al risultato, non potendosi scambiare per «indifferenza» la necessità che l’azione abbia, nei limiti del possibile, basi di fondatezza e prospettive di successo.

L’altro, il giudice, è colui che governa le regole della controversia e la decide, egli sì “indifferente” al risultato e, dunque, proprio per questo “imparziale”, garante e custode delle norme, in eguale misura di quelle sostanziali e di quelle processuali.

Insomma, la scelta politica che si esprime nel modello triadico è, da un lato, di porre sullo stesso piano l’interesse collettivo alla “concretizzazione” della norma penale e l’interesse individuale di colui che si contrappone al primo e nei cui confronti quello è fatto valere e, dall’altro, di estraniare dai due interessi colui al quale è devoluta la soluzione del conflitto.

È chiaro che ciò dà, innanzi tutto, un senso preciso alla distinzione delle funzioni processuali del p.m. e del giudice, assolutamente eterogenee, contenutisticamente (e non solo contingentemente) incompatibili.

In secondo luogo, e corrispondentemente, postula una distinta e permanente collocazione ordinamentale dell’uno e dell’altro, perlomeno quando l’esercizio delle funzioni sia affidato a corpi stabili di funzionari, per i quali, dunque, devono essere previsti ruoli separati. Lo esige proprio la cultura di questa diversa concezione della giurisdizione. La prima garanzia della alterità “terza” del giudice, rispetto alle parti, è costituita dalla “separatezza” del suo ruolo di appartenenza rispetto a quelli di coloro che rappresentano le parti (o agiscono per esse).

A rovescio, l’appartenenza allo stesso corpo e l’unicità dei ruoli di coloro cui è consegnata quella funzione “terza” e di coloro cui è invece affidata una funzione di parte è idonea a indebolire (o, se si vuole, a fare apparire più debole) quella, specialmente agli occhi di chi è, invece e per così dire, inesorabilmente costretto ad essere parte «separata», cioè il cittadino nei cui confronti si svolge l’indagine e, poi, si esercita l’azione penale. Se la sua parte contrapposta condivide, sul piano ordinamentale, gli stessi «destini» del suo giudice, egli non potrà mai pensare fino in fondo di contendere con essa «ad armi pari». Sarà piuttosto, indotto a credere (ed è poi ciò che crede la gente comune, al di là delle nostre, talora sottili, disquisizioni) di doversi contrapporre a due «parti» (o «mezze parti») ovvero di doversi fare giudicare da due giudici (o «mezzi giudici»), quando di parti contrapposte ne basta una (specialmente se appartiene ad un ruolo pubblico), così come altrettanto può dirsi che basti un giudice (quando è davvero estraneo alla controversia).

Se, come si potrebbe convenire, la disputa sulla separazione delle carriere è, nella sua essenza, tutta politica, ragioni di chiarezza imporrebbero di evitare improprietà e confusioni lessicali (salvo che non si voglia deliberatamente impiegarle a scopi diversivi), come accade talora quando – lo si è già accennato – alla richiesta di tale separazione si oppone, con l’intento di superare ogni polemica dentro una prospettiva di razionalità, la c.d. distinzione delle funzioni[10] .

Il discorso sulle funzioni attiene al processo e non già all’ordinamento, le cui norme delineano, semmai, le condizioni di capacità dei soggetti da investire delle diverse funzioni e la organizzazione dei rispettivi ruoli e assetti (così, a esempio, alle norme processuali sulla funzione del difensore corrispondono quelle dell’ordinamento professionale forense in tema di abilitazione all’esercizio e sull’organizzazione).

Quando, dunque, al tema essenzialmente ordinamentale della separazione delle carriere si risponde in quel modo, si parla d’altro.

E si allude a qualcosa che c’è già – la separazione delle funzioni del giudice e del p.m. -, in buona parte rafforzata con il codice del 1988, che – almeno nella versione d’origine – ha sottratto al p.m. poteri di formazione autonoma della prova e poteri su taluni diritti di libertà.

A onor del vero, non può dirsi che l’opera sia compiuta. Molto vi sarebbe ancora da fare per completare proprio la separazione delle funzioni, attribuendo al p.m. solo poteri di richiesta e consegnando al giudice tutti i poteri dispositivi, quantomeno tutti quelli che incidono sui fondamentali diritti individuali. A proposito di questi e delle relative garanzie, in un tempo (come il nostro) di progetti di riforme costituzionali, non deve scandalizzare l’affermazione che la Costituzione è, sul punto, in parte superata: quella che suole dirsi «riserva di giurisdizione» (che si accompagna alla «riserva di legge») in tema di libertà personale, di libertà domiciliare, di libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, non è, in realtà, una riserva di giurisdizione in senso stretto (cioè, una riserva delle limitazioni affidata esclusivamente al giudice), ma una più ampia «riserva giudiziaria», quella che, per esempio, per tanti anni ha consentito anche al p.m. di incidere direttamente sulla libertà personale.

La legge ordinaria ha, per così dire, sopravanzato, sul punto, il dettato costituzionale, sottraendo molti di questi poteri al p.m. e così concorrendo in modo decisivo alla definizione distinta nella sua funzione.

Ma la disciplina che, in altre materie, attribuisce al p.m. poteri di incidere sui diritti di libertà è rimasta intatta. Si pensi alle perquisizioni personali e domiciliari, ai sequestri di corrispondenza. Ora, nella prospettiva di una «costituzionalizzazione» della parità tra accusa e difesa (autorevolmente prospettata dal capogruppo al senato del partito di maggioranza relativa[11]), sembra chiaro che il p.m. dovrebbe perdere anche i residui poteri, che il codice di procedura gli ha lasciato, di incidere sui diritti fondamenti dei cittadini.

Ma non consta che alcuno di loro che sollecitano ad abbandonare l’idea della separazione delle carriere per un impegno comune sulla distinzione delle funzioni abbia ancora avanzato proposte concrete in questa direzione; anzi, vi sono segni preoccupanti di iniziative che vanno in senso contrario, come quelle contenute nel d.d.l. governativo[12] in tema di modifica della disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, le cui previsioni accrescono i poteri del p.m., costituendolo, tra l’altro, custode esclusivo di tutto il “materiale” intercettato.

Comunque sia, la strada della distinzione delle funzioni processuali (quella propria del modello processuale “triadico”), percorsa cospicuamente dal codice del 1988 e certo da completare, non può a sua volta non addurre – per le stesse esigenze di coerenza già dette – alla riforma ordinamentale della separazione delle carriere, che finalmente si dovrebbe più propriamente chiamare, della formazione di ruoli separati per i pubblici ministeri e per i giudici. Il completamento della distinzione delle funzioni non è e non può essere un’alternativa, ma deve integrare tale riforma.

Se questa – che è una implicazione razionale – non si realizza, il modello processuale, per quanto si distinguano le funzioni, entra fatalmente in crisi: si involve e regredisce[13].

*Pubblicato sulla Rivista Diritto penale e processo, n. 6/1997, 732 ss., con il titolo: “Separazione delle «carriere» o separazione delle funzioni”.


[1] Invero, sembra potersi dire che il dibattito sulla posizione ordinamentale del pubblico ministero era rimasto, sino ad allora, su un piano prevalentemente accademico. Per quanto consta, il suo «trasferimento» sul piano politico coincide con l’approvazione della legge-delega per il codice di procedura penale e l’approvazione di questo. In tale momento si collocano, ad esempio le proposte di legge 4 luglio 1986, n. 3901, Andò e altri, 9 luglio 1987, n. 731, Galgani e 16 luglio 1987, n. 977, Ferrari Bravo. Nello stesso periodo sono databili le prime posizioni di contrasto alle proposte sulla separazione delle carriere, assunte dal Consiglio Superiore della Magistratura (v., a esempio, la Risoluzione del 9 marzo 1988, cui seguirono i «passaggi» sul tema contenuti nelle Relazioni al parlamento sullo stato della giustizia del 1990 e del 1991). Durante la XI Legislatura il tema fu, poi, portato, com’è noto, all’attenzione della Commissione Parlamentare per le Riforme Istituzionali, che, nell’ambito dei «Principi direttivi approvati per la riforma della parte seconda della Costituzione», adottò anche il seguente principio: «mantenere intatte la garanzia di autonomia e di indipendenza del pubblico ministero, nonché l’obbligatorietà dell’azione penale; in tale quadro dovrà essere approfondito il tema di una modifica dell’ufficio del pubblico ministero differenziando tale organo dalla magistratura giudicante». Alla Commissione bicamerale aveva replicato la voce dissenziente della magistratura (v. Risoluzioni del C.S.M.del 10 dicembre 1992 e del 24 febbraio 1993). Successivamente, in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994, tutti i partiti, nei rispettivi programmi, presero posizione sul tema, molti proponendo la separazione delle carriere. Altrettanto accadde in occasione delle elezioni politiche del 1996, quando, peraltro, in vari programmi fu avanzata la proposta (più cauta e ambigua) della c.d. separazione (o distinzione) delle funzioni. Nella sintesi programmatica della c.d. «coalizione dell’Ulivo», distribuita dal prof. Giovanni Maria Flick, si proponevano riforme concernenti le «funzioni di magistrato, la sua professionalità e deontologia … con particolare riferimento alla distinzione fra funzioni giudicanti e requirenti, nel quadro di un comune ordinamento e di una comune carriera». Nel programma del contrapposto «Polo delle libertà» si indicava l’esigenza di prevedere per i magistrati, all’inizio della «carriera», l’esercizio di funzioni giudicanti per un periodo di almeno tre anni, indi una scelta tra le stesse e quelle requirenti con caratteri di «tendenziale definitività mediante meccanismi di progressione in carriera che favoriscano fortemente il mantenimento delle stesse funzioni».

[2] Durante la formazione del Governo Berlusconi, nella primavera del 1994, in seguito ad una nuova e forte “presa di posizione” contro ogni ipotesi di separazione delle carriere da parte della Associazione Nazionale Magistrati, la Giunta esecutiva dell’Unione delle Camere penali adottò una delibera, nella quale, rilevando che «si è finalmente imposto all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della separazione delle carriere che l’Unione fin da quando fu costituita aveva qualificato come fondamentale tra quelli riguardanti la giustizia penale e quale mezzo per assicurare nel processo penale una effettiva parità tra accusa e difesa ed una equidistante indipendenza del giudice da entrambe», si sottolineava come «tale separazione non deve e non può in alcun modo significare soggezione del Pubblico Ministero all’esecutivo, ma va realizzata in modo da garantire l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia dello stesso pubblico ministero, la quale costituisce un valore speculare e complementare all’’autonomia dell’avvocatura e, insieme a questa, costituisce il primo e necessario presidio dell’imparziale esercizio dei poteri del giudice» e si concludeva affermando che «l’opposizione ad una riforma dell’ordinamento giudiziario sul punto appare come il retaggio di una cultura inquisitoria del processo penale e può persino prestarsi ad essere interpretata come difesa di interessi corporativi», mentre «l’avvocatura indica la riforma stessa quale mezzo di garanzia dei diritti dei cittadini nel processo penale».

[3] V.la Relazione congressuale, poi recepita nella mozione finale, sul tema «“Difendersi provando”: tutela politica della difesa e indagine difensiva nelle iniziative delle Camere penali italiane», 8, 9 e 23 dell’estratto.

[4] Nel d.d.l. approvato dal Consiglio dei Ministri il 21 novembre 1996, con il titolo Norme in materia di funzioni dei magistrati e valutazione di professionalità si propone (art. 16) un diverso testo dell’art. 190 dell’Ordinamento giudiziario, nel quale si stabilisce di subordinare il passaggio di funzioni alla frequenza di un corso di qualificazione professionale organizzato dal C.S.M. e ad un giudizio di idoneità di questo, precludendo peraltro il passaggio nell’ambito dello stesso distretto. Analoga previsione è contenuta nel d.d.l. n. 1383/S d’iniziativa dei senatori Salvi e altri del 30 settembre 1996, ove peraltro la preclusione è limitata al territorio del circondario e concerne le sole funzioni di primo grado (art. 21).

[5] Nell’ambito di queste esperienze l’esigenza di tutela dell’individuo rispetto ai poteri giudiziari “compattati” si è sviluppata postulando il riconoscimento di progressive garanzie, concepite come argini o barriere rispetto all’esercizio di tali poteri. L’esperienza ha, tuttavia, dimostrato come tali argini o barriere si siano rivelati e si rivelino ogni giorno agevolmente superabili e aggirabili e come vengano rimossi, proprio in ragione della qualità dei poteri stessi e dei fini, considerati primari, del processo penale. Se il fine assegnato al processo penale è, quantomeno, la concretizzazione della norma penale sostanziale, questa finisce per collocarsi al di sopra di ogni altra norma, in particolare di quella processuale, che deve cedere alla prima. Di qui, la natura malleabile o addirittura friabile delle regole processuali e tanto più delle regole-ostacolo, cioè di quelle espressive di garanzie.

[6] Cordero, Procedura penale, II ed., Milano, 1992, 199-200.

[7] Per contro, sulla «imparzialità» come aspetto di quel carattere di «terzietà» che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici [dunque, anche dal pubblico ministero] e che condiziona l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio, si è espressa C. Cost. 24 aprile 1996, n. 131.

[8] A nostro avviso, si tratta piuttosto di un itinerario rovesciato; accade, cioè, che tali concezioni della figura del pubblico ministero costituiscano un postulato ideologico che condiziona l’interpretazione di quelle norme procedurali, anche a costo di renderle incoerenti con il modello complessivo delineato dal codice di procedura penale.

[9] La prospettiva di doversi misurare con due «imparzialità» (quella del p.m. e quella del giudice) è, comunque, per un imputato non solo … inquietante, ma significativa di un unico potere, di una unica funzione che gli stanno di fronte.

[10] V., per esempio, le relazioni accompagnatorie ai d.d.l. citati retro a nota 4.

[11] La proposta è stata avanzata dal sen. Salvi, fra l’altro, in un intervento al VI Congresso dell’Unione delle Camere penali, svoltosi a Catania nell’ottobre 1996.

[12] Si tratta del d.d.l. approvato dal Consiglio dei ministri il 21 novembre 1996, all’esame della Camera dei deputati (C/2773).

[13] Restano, in questa prospettiva, premonitrici e attuali le parole di Giovanni Falcone, Il pubblico ministero del nuovo processo penale, in Interventi e proposte (1987-1992), 1994, 179 ss.: «Comincia a farsi strada la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisognosa di muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti».