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NON SPARATE  SULL’APPELLO di Massimo Ceresa-Gastaldo

NON SPARATE SULL’APPELLO di Massimo Ceresa-Gastaldo

di Massimo Ceresa-Gastaldo

Abstract. È sempre più alto il rischio che, nella battaglia sulla prescrizione e i tempi del processo, a cadere sul campo sia l’appello, accusato di pesare troppo e di prestarsi ad impieghi dilatori. Non è vero. Il secondo grado di giudizio svolge una funzione essenziale ed ineliminabile per assicurare l’affidabilità della giurisdizione. E la sua configurazione come giudizio critico rappresenta una perfetta sintesi tra efficacia ed efficienza, tra giustizia sostanziale della sentenza e certezza del diritto. L’appello va mantenuto esattamente come lo ha progettato il codice Vassalli, senza sfigurarlo e, soprattutto, senza negarne l’accesso alle parti. Per far durare meno la fase, non va amputato il mezzo, bisogna tagliare i tempi morti.

1. Sulle barricate. – Ossessionato dalla fobia per l’aborto processuale, il legislatore ha pensato bene di congelare il tempo delle impugnazioni penali, fermando l’orologio della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: “per troppi decenni, persone oneste di questo Paese hanno ingoiato il boccone amaro della prescrizione, simbolo di uno Stato che si rassegna rispetto alla propria incapacità di dare una risposta di giustizia in tempi celeri garantendo i diritti di tutte le parti” ([1]).

Salutata con entusiasmo dai sostenitori della teoria secondo cui le impugnazioni (che andrebbero comunque abolite, o ridotte ai minimi termini) non sono altro che una inutile e costosa perdita di tempo, anzi uno strumento irresponsabilmente lasciato nelle mani dell’imputato colpevole e del suo difensore per cercare di frenare il corso altrimenti spedito della giustizia verso la pena, la riforma ha scatenato accese reazioni.

L’ansia per la morte prematura del processo, si è obiettato, ha prodotto un risultato peggiore del male che si voleva curare. Siamo sprofondati nell’incubo del cronicario giudiziale, dove i pazienti, superata la fase delle prime cure, sono inesorabilmente condannati alla lungodegenza. La prescrizione del reato non è il bastone infilato dall’avvocato tra le ruote del processo; al contrario, è l’unico freno di cui dispone la macchina giudiziaria per riuscire a terminare la sua corsa in tempi accettabili. Senza la prescrizione del reato a far da limite all’indeterminato protrarsi del supplizio, il processo non avrà mai fine ([2]).

2. Dov’è la voragine? – Nessuno può evidentemente negare che l’infruttuosa perenzione del processo sia un problema: non riuscire, a distanza di anni dal fatto, a pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa non rende giustizia neppure all’imputato innocente.

Ma è a dir poco un’esagerazione agitare lo spettro di un cancro letale per il sistema. Le statistiche giudiziarie dimostrano come i casi (in costante calo negli ultimi anni) in cui il giudice alza bandiera bianca non superano mediamente l’8-9 % del totale dei procedimenti definiti. Un fenomeno indubbiamente non insignificante, ma certo non quella “voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi” e che reclamerebbe una drastica riduzione dei gradi di giudizio, lusso non consentito nei sistemi accusatori ([3]).

Ed è una vera e propria mistificazione affermare che il principale responsabile di quel fenomeno siano le impugnazioni, “finte garanzie” utili solo agli abili e disinvolti professionisti del rinvio per far fallire il processo.

A tacere dell’ingeneroso quanto arbitrario pregiudizio nei confronti della funzione difensiva, inquietante evocazione di una concezione autoritaria della giustizia che si sperava superata da tempo, non si può non far notare come solo una minima parte delle prescrizioni intervenga in appello e in cassazione (meno di un quarto del totale), mentre oltre il 55 % delle dichiarazioni delle cause estintive si registra nella fase delle indagini preliminari, dove l’astuto e spregiudicato difensore non tocca palla.

A dimostrazione del fatto che il male ha una doppia faccia, che non è affatto quella dell’avvocato. Una faccia è l’ipertrofia del sistema sanzionatorio, che produce una mole di domanda punitiva oggettivamente indigeribile dalle procure; l’altra, il gigantismo abnorme delle indagini preliminari, che rappresenta (questa sì) una grave distorsione del modello accusatorio, che vorrebbe una fase preparatoria leggera, a favore di una verifica pubblica e dialettica dell’accusa da instaurare il più celermente possibile, soprattutto quando l’imputato è sottoposto a misure cautelari.

Il sistema ha tutti gli anticorpi per difendersi dall’abuso del diritto da parte dell’imputato.

Un’impugnazione fondata solo sull’aspettativa della prescrizione non va da nessuna parte: viene fulminata dall’inammissibilità, che chiude subito il processo. Anzi, occorrerebbe casomai riflettere attentamente sul corretto dosaggio (normativo e applicativo) del vaglio preliminare; ad esempio domandandosi se la vertiginosa impennata delle pronunce di irricevibilità dei ricorsi per cassazione verificatasi all’indomani della “ex Cirielli”, non riveli un eccesso terapeutico, somministrato quale impropria reazione della giurisdizione proprio alla scelta legislativa della riduzione dei termini di prescrizione.

3. Pannicelli caldi. – Gli ispiratori del disegno riformatore insistono invece nell’addebitare all’utente la responsabilità del disservizio e filosofeggiano di diseguaglianze sociali.

Disinnescare la prescrizione nella fase delle impugnazioni significa eliminare l’odiosa disparità tra i ricchi e potenti, che possono permettersi costose parcelle per rallentare la macchina impugnando le condanne, e i poveri cristi, costretti per mancanza di risorse a subire passivamente l’esito del primo giudizio. E non fermiamoci ai “pannicelli caldi”: “serve il coraggio, una buona volta, di riforme radicali. Per correggere l’anomalia italiana servono la ‘nuova’ prescrizione e la riduzione dei gradi di giudizio” ([4]).

Perché, allora, fermarsi all’appello? Perché non pensare di sopprimere anche il dibattimento, visto che difendersi in primo grado, con le regole del rito ordinario, costa e pesa ben di più che proporre l’atto di appello? Anziché impegnarci perché siano davvero “assicurati ai non abbienti, con appostiti istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”, come ingenuamente ([5]) prescrive l’art. 24 comma 3 Cost., perché non rinunciamo a quel dispendioso meccanismo cognitivo? Dovremmo cancellarlo dal codice, se non vogliamo che i riti sommari e i patti con l’accusa restino un’eccezione, un’opzione obbligata solo per i poveri, anziché diventare la regola, uguale per tutti.

Per chi ritiene che le garanzie processuali siano “insidie e cavilli” utili solo per i “galantuomini” ([6]), basta e avanza, a rendere equamente giustizia e a garantire la perequazione sociale, una rapida e inappellabile delibazione dell’imputazione resa da un solo giudice: è l’assiomatica infallibilità del magistrato la “vera garanzia” per il cittadino ([7]).

4. L’iperbole dell’ergastolo processuale. – Per contro, è all’evidenza iperbolica l’affermazione secondo cui la “riforma Bonafede”, neutralizzando la prescrizione, determinerà l’ergastolo processuale, con buona pace del diritto costituzionalmente riconosciuto alla ragionevole durata del giudizio.

Non c’è bisogno di sottolineare che non è certo la causa di estinzione del reato il timer del processo: laddove prevista, la prescrizione ha un tempo parametrato alla gravità del reato, non alla congruità della durata dell’accertamento. Decorrendo dalla data del fatto e non da quella di avvio del giudizio, il termine potrebbe sopraggiungere in un momento in cui il processo è iniziato da poco, o, al contrario, quando ha già superato il limite del ragionevole. Limite necessariamente relativo, che va verificato caso per caso, misurando i tempi morti della macchina processuale ([8]) e distinguendoli da quelli vivi, mai irragionevolmente spesi per giudicare.

Non per questo, però, l’argomento merita di essere ridicolizzato.

Nella quotidiana esperienza, così come nelle norme che regolano la trattazione prioritaria dei processi, il rapporto tra l’istituto ex artt. 157 ss. c.p. e le scansioni temporali della macchina giudiziaria è percepibile in modo netto.

E’ innegabile che l’avvicinarsi dello stop loss funzioni da effettivo acceleratore dell’ingranaggio e, quindi, da propulsore – per quanto improprio e occasionale – dell’efficienza processuale; ed è altrettanto certo che la rimozione di quel congegno non potrà che riverberarsi negativamente, in molti casi, sulla tollerabilità della durata del procedimento.

5. Sotto attacco. – Il rischio che, nella battaglia sulla prescrizione e i tempi del processo, a cadere sul campo sia l’appello, è sempre più alto.

Sono anni, del resto, che il mezzo di impugnazione è sotto attacco, sferrato da più fronti.

I sostenitori della “legge Pecorella”, pensando soprattutto alla posizione del pubblico ministero, ne propugnavano il ridimensionamento, denunciando l’anacronistica permanenza del mezzo nel sistema ormai allineato ai canoni del giusto processo; la “commissione Canzio”, a sua volta, proponeva amputazioni e protesi, poi confluite nella “legge Orlando”, partendo in buona sostanza dalle stesse premesse; e dall’identica convinzione muove ora chi vorrebbe risolvere il conflitto in atto incidendo sulla disciplina delle impugnazioni.

L’idea (tanto diffusa quanto, a mio parere, priva di un serio fondamento) ([9]) è che la previsione del doppio grado di giurisdizione di merito, oltre ad essere eccessivamente costosa, non sia coerente con il modello del rito accusatorio, configurato tradizionalmente come giudizio a scrutinio unico, con esito immotivato e inappellabile. Non imposto dalla costituzione né dalle carte convenzionali, che si accontenterebbero di un controllo di legittimità della decisione, l’appello sarebbe in sostanza un rimedio legislativamente rinunciabile, o comunque relegabile a ipotesi eventuale ed eccezionale di replica del primo giudizio.

Allo stesso modo (e altrettanto discutibilmente), si ritiene che la costruzione del mezzo come strumento critico di controllo del primo giudizio (non invece come giudizio ex novo sulla regiudicanda), amplifichi i profili di “inquisitorietà” dell’istituto, dal momento che consente al secondo giudice, che decide rivalutando le “carte”, la sostituzione del risultato che il primo giudice ha raggiunto “dal vivo”, in un contesto che ha visto la piena espansione dei canoni del giusto processo.

6. Tempi, costi, risultati. – L’appello costa troppo? La tesi, per quanto riproposta all’infinito, è e resta assolutamente indimostrata.

Se è vero che la durata media della fase non è breve, non è meno vero che solo una porzione minima dell’intervallo è dedicata allo svolgimento dell’attività processuale; il resto, è tempo di attesa ([10]). E’ su questo versante che si deve lavorare per migliorare le performance del giudizio; e “quel che occorre sono uomini e mezzi, non norme” ([11]).

Per contro, i risultati sono indiscutibilmente positivi: le percentuali di riforma delle sentenze emesse dalle corti distrettuali (quasi il 60% dei provvedimenti appellati) ([12]) sono tali da non lasciare dubbi sull’efficacia del ruolo svolto dal mezzo per assicurare l’affidabilità del giudicato penale.

L’appello, insomma, funziona assai bene. I dati statistici dimostrano che il mezzo assolve egregiamente alla sua preziosa funzione di garante della attendibile ricostruzione del fatto e della corretta applicazione del diritto.

Una funzione irrinunciabile, si converrà, in tutti i processi, anche quelli di stampo accusatorio: è pericolosamente errata la convinzione che basti adottare ottimi metodi di ricerca per poter rinunciare al controllo nel merito dell’esito dell’operazione; questo resta sempre necessario, non foss’altro che per la semplice quanto incontrovertibile ragione che occorre comunque assicurarsi che, nel caso concreto, quei protocolli non siano restati sulla carta, ma siano stati fedelmente applicati. E non è un caso che anche oltreoceano (dove peraltro i tassi di errore giudiziario non sembrano proprio invidiabili) all’idea della sacralità indiscutibile del vere dictum della giuria popolare si stia progressivamente sovrapponendo quella di una verità relativa, da sottoporre a verifiche, dirette o indirette, anche nel merito.

8. Modelli. – Quanto, poi, al modo di concepire il controllo, pare difficile mettere in dubbio il fatto che la configurazione dell’appello penale come giudizio critico rappresenti una perfetta sintesi tra efficacia ed efficienza, tra giustizia sostanziale della sentenza e certezza del diritto.

Circoscrivere l’impegno valutativo del giudice alla materia devoluta con l’atto impugnatorio, permettendogli di rivalutare il fatto alla luce dell’esperienza del primo giudizio e delle critiche delle parti interessate, consente di economizzare notevoli risorse. Ma significa, soprattutto, ottenere un risultato tendenzialmente migliore di quello che si otterrebbe ripetendo ex novo l’intero giudizio, rinnovando prove inevitabilmente logorate dal tempo e dal precedente esperimento.

Non è detto, infatti, che il modello del gravame, con la riedizione della prova, sia preferibile a quello del giudizio critico. Al contrario: un giudice chiamato a ricostruire da zero, per la seconda volta, lo stesso fatto ha le stesse probabilità di errore del suo predecessore, più quelle che derivano dall’inconveniente di intervenire in seconda battuta.

Anche il valore dell’immediatezza, infatti, è fatalmente relativo: per saggiare la spontaneità della narrazione e la credibilità del testimone attraverso il linguaggio muto del corpo o dei gesti, un conto è osservare il dichiarante chiamato per la prima volta a rispondere, e ben altro è assistere al suo secondo o terzo esame, quando in precedenza, sulle stesse circostanze, egli abbia già risposto in dibattimento alle domande delle parti o, nel segreto delle indagini, a quelle dell’inquirente.

9. Non sparate sull’appello. – L’appello, dunque, va mantenuto esattamente come è stato progettato nel codice Vassalli, senza sfigurarlo e senza negarne l’accesso alle parti.

Sarebbe un grave errore mutilare il mezzo, contrabbandando l’operazione come necessaria per far recuperare efficienza al corpo processuale.

La legge deve farsi carico di assicurare la riduzione al minimo livello possibile dell’errore giudiziario, prima ancora che garantire la chiusura del processo in tempi rapidi: la durata del processo è ragionevole quando il tempo occorso per celebrarlo è proporzionato all’impegno reso necessario per raggiungere un risultato affidabile. Sono i tempi morti del processo, persi nell’inutile attesa passiva, a rendere irragionevole la sua durata, non quelli vivi, dedicati all’attività cognitiva, alla valutazione e alla ponderazione delle diverse opzioni, al controllo dei risultati raggiunti.

Un processo rapido, ma dal risultato iniquo, è un processo ingiusto, ancor più di quello che giunge in ritardo al risultato corretto.


[1] A. Bonafede, La riforma del processo penale va avanti, www.blogdellestelle.it, 2 febbraio 2020.

[2] Come canta G. Flora, sulle note malinconiche di Gino Paoli e il testo di F. Giunta (www.ilfoglio.it/giustizia/2019/11/29/video/gino-paoli-e-la-riforma-della-prescrizione-289858/).

[3] G.C. Caselli, Blocca-Prescrizione, viva la riforma purché non si faccia, in Il Fatto quotidiano, 4 gennaio 2020.

[4] G. Caselli, Una proposta per riformare la giustizia: aboliamo l’appello, www.huffingtonpost.it, 3 dicembre 2019.

[5] P. Davigo (www.ildubbio.it, 20 gennaio 2020): “Io rivedrei il patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti (…) La non abbienza è una categoria fantasiosa, perché molti imputati risultano nullatenenti. Così lo Stato paga i loro avvocati a piè di lista per tutti gli atti compiuti, e quelli compiono più atti possibile per aumentare la parcella. Molto meglio fissare un forfait una tantum secondo i tipi di processo: così gli avvocati perdono interesse a compiere atti inutili. E lo Stato, con i risparmi, può difendere gratis le vittime, che invece la dichiarazione dei redditi la presentano e di rado accedono al gratuito patrocinio”.

[6] G. Caselli, Blocca-prescrizioni, cit.

[7] G. Caselli, Una proposta, cit.: “è ben noto – per altro – che l’ipotesi dell’abolizione dell’appello è aborrita dagli avvocati e respinta come scandalosa da molti altri. L’obiezione principale è che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa, uguale per tutti. Non in un processo che registra un progressivo arretramento delle garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli”.

[8] G. Giostra, Un giusto equilibrio dei tempi, sfida per la nuova prescrizione, Avvenire, 11 gennaio 2020.

[9] Cfr., volendo, voce Appello (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali III, 2010.

[10] In particolare, dovuto al “notevole ritardo nell’arrivo del fascicolo dopo la proposizione dell’atto”, cui si aggiunge quello necessario “per l’instaurazione del rapporto processuale, spesso condizionato da vizi di notifica”: lo riferisce il presidente della Corte di appello di Roma, Luciano Panzani, nella Relazione tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto della capitale (www.roma.repubblica.it, 1° febbraio 2020).

[11] È la condivisibile opinione espressa dal dott. Panzani (v. nota precedente).

[12] Cfr. DG Stat, Procedimenti penali definiti con sentenza presso le Corti d’Appello per distretto e sezione. Anno 2017 (www.giustizia.it): su 74.075 appelli definiti nell’anno, nel 40,3 % dei casi la sentenza di primo grado è stata confermata, mentre nel 59,7% l’appello è stato accolto (14.064 le riforme delle sentenze di assoluzione, 30.157 quelle di riforma della condanna).