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QUALE “RIEDUCAZIONE” PER GLI AUTORI DI VIOLENZE DI GENERE? di Giovanni Fiandaca

QUALE “RIEDUCAZIONE” PER GLI AUTORI DI VIOLENZE DI GENERE? di Giovanni Fiandaca

di Giovanni Fiandaca

1. Queste brevi considerazioni rispecchiano, fondamentalmente, il contenuto di un intervento a un recente incontro formativo sugli aspetti giuridico-criminologici delle violenze domestiche e di genere (organizzato a Palermo il 6/7 febbraio 2020 su iniziativa dell’UIEPE per la Sicilia), cui ho preso parte – oltre che come studioso – nell’attuale ruolo di garante siciliano dei diritti dei detenuti.

Com’è noto, l’esigenza di promuovere una specifica formazione in materia a beneficio di tutti gli operatori giudiziari potenzialmente coinvolti, inclusi (e non certo ultimi) gli avvocati, è emersa già da qualche tempo e si è fatta più pressante dopo l’approvazione nel luglio scorso del c.d. Codice rosso. Questa riforma ha introdotto svariate innovazioni normative su diversi piani ordinamentali (dal diritto penale sostanziale al diritto processuale, all’ordinamento penitenziario e al sistema delle misure di prevenzione personali), con l’obiettivo prioritario di rafforzare la tutela delle vittime nella duplice prospettiva della repressione e della prevenzione. Ma, ancora una volta, il legislatore è stato incapace sia di conferire organicità e sistematicità alla nuova disciplina, sia di bilanciare in modo equilibrato le concorrenti esigenze – da un lato – di garantire una risposta rapida ed efficace ai reati in questione e – dall’altro – di assicurare un adeguato rispetto dei diritti delle persone indagate e imputate. Da quest’ultimo punto di vista, la l. n. 69/2019 rappresenta una esemplificazione emblematica della grande avanzata del “paradigma vittimario” nello scenario penalistico, con conseguente spostamento in senso vittimocentrico degli equilibri e delle dinamiche della giustizia penale: ciò pone problemi di compatibilità con il garantismo di matrice costituzionale, tradizionalmente incentrato sulla figura dell’autore. Per di più, nel contesto politico contingente in cui è stata approvata, la legge predetta ha altresì veicolato pulsioni penal-populistiche nel dilatare il ventaglio delle figure criminose ad hoc e nell’eccedere nell’ormai consueto rigore sanzionatorio.

Il tema della violenza contro le donne e/o in ambiente domestico esemplifica altrettanto emblematicamente, nello stesso tempo, uno dei campi di materia in cui l’attenzione (sia legislativa che giudiziaria) viene ormai rivolta, più che a singoli illeciti in sé considerati, al fenomeno generale: in questo orizzonte la giustizia penale diventa una agenzia giuridico-istituzionale che si fa carico del fenomeno, in chiave innanzitutto preventiva, non da sola, ma in collaborazione con altri soggetti istituzionali e sociali (e altri settori professionali), nell’ambito di un sistema “a rete”. 

Tutto ciò può avere effetti di diversa natura, peraltro non tutti positivi. 

2.Certo è che si conferma, per un verso, l’esigenza di promuovere percorsi di formazione specialistica per tutti gli operatori della giustizia (magistrati, polizia giudiziaria, avvocati ecc.), i quali dovranno essere sempre più capaci di interagire con altre figure professionali quali criminologi, psicologi, assistenti sociali e così via.  Ma, per altro verso, ne può derivare un sovraccarico funzionale (in senso meta- o extra-giuridico) del processo penale e dello stesso ruolo di magistrato (il quale appunto diventa un po’ giudice o p.m., un po’ mediatore di conflitti, un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale), con possibili distorsioni confusive più dannose che vantaggiose.

Uno dei magistrati penali da tempo più esperti della materia sostiene, invero, che un “processo penale condotto con intelligenza costituisce una terapia fondamentale per chi ha subito violenza di genere”, spingendosi sino ad affermare: “La costruzione di una necessaria empatia con la vittima, che deve costruire soprattutto il magistrato nel momento della raccolta della prova, può rappresentare un’occasione di legame con la parte lesa che supera la fase del processo (…). A volte le toghe nere servono più dei camici bianchi” (così F. ROIA, Crimini contro le donne, Milano, 2017, 26 s.). Sia consentito di non condividere tanta enfasi posta sulle virtù terapeutiche di un semplice processo penale, e altresì di diffidare dell’atteggiamento di empatia che un magistrato dovrebbe pregiudizialmente assumere nei confronti delle vittime di violenza. A parte il fatto che l’empatia in generale non sempre rappresenta una valida guida morale e decisionale (per tutti, P. BLOOM, Contro l’empatia, trad. it., Macerata, 2019), e che essa per di più rischia di generare nel magistrato un pregiudizio favorevole alle vittime a danno degli autori, una cosa non andrebbe trascurata.  Cioè la crescente attenzione che è andato riscuotendo anche in Italia quel modello extrapunitivo di risoluzione dei conflitti, che  va sotto il nome di “giustizia riparativa” e che ha come principale strumento la cosiddetta mediazione penale, deriva proprio dalla risalente presa d’atto che il  processo penale (anche se gestito con scrupolosa accuratezza) non costituisce il mezzo migliore per dar voce e soddisfazione a chi subisce le conseguenze del reato: la vittima, almeno in teoria, trova maggiore riconoscimento e maggiore spazio appunto nell’ambito della prassi mediativa. Ma, per altro verso, il ricorso alla mediazione penale reca con sé rischi di vittimizzazione secondaria, nei casi in cui la violenza criminosa ai danni della donna si inquadra in un contesto di rapporti di forza fortemente sbilanciati.

Comunque sia, rimarrebbe da chiedersi che cosa propriamente significhi “terapia” delle vittime. Per rispondere a un simile interrogativo, occorrerebbe conoscere approfonditamente la loro psicologia. Tema complesso e impegnativo, questo, che qui posso soltanto sfiorare. In estrema sintesi, mi limito a rilevare che gli studi a me noti di psicologia della vittima convergono in un punto: cioè nel mettere in evidenza che nel cuore delle vittime si agitano sentimenti oscuri e contraddittori, che non di rado sfuggono ad una chiara presa di coscienza da parte di chi li prova. Aggiungo che, nell’ambito della riflessione teorica più sofisticata, è stata anche prospettata l’esigenza di progettare un secondo binario di rieducazione della vittima (oltre a quello già esistente di rieducazione del reo). Ma, pur guardando senza sfavore a una simile prospettiva, ribadirei l’interrogativo se – dal punto di vista di un corretto riparto di competenze – la gestione di questo nuovo secondo binario spetti davvero alla giustizia penale o, piuttosto, ad agenzie di tipo sanitario-assistenziale.

3.Fatte queste premesse, accostiamoci più direttamente al tema delle modalità di trattamento dell’autore (violentatore o maltrattante), tema che tende oggi a riguadagnare interesse pur all’interno di un orizzonte di riferimento prevalentemente vittimocentrico: va infatti crescendo la consapevolezza che un riorientamento psicologico degli autori, che punti a una riduzione della recidiva, si traduce alla fine in un rafforzamento della prevenzione delle potenziali violenze future.

Ma che vuol dire “trattamento”?  In una accezione criminologica, esso designa l’insieme di tutte le modalità di intervento basate su tecniche psicologiche, ed effettuabili su richiesta il più possibile spontanea del soggetto destinatario. La domanda, a questo punto, è questa: le caratteristiche di personalità degli autori di violenze ai danni delle donne o all’interno della famiglia sono tali da richiedere forme specifiche di trattamento?      

Dal canto suo, la legge n.69/2019 ha in proposito introdotto due innovazioni rilevanti. Per un verso, modificando in senso estensivo la portata dell’art. 13 bis ord. penit. (circoscritta in origine ai pedofili), essa ha previsto che “possono sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero o di sostegno” anche gli autori di violenze di genere o di maltrattamenti. E, per altro verso, la medesima legge ha modificato l’art. 165 c.p., stabilendo che nel caso di condanna per reati del tipo suddetto “la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”. Ne deriva, dunque, che una risposta affermativa all’interrogativo di cui sopra la fornisce lo stesso legislatore del Codice rosso: gli autori di violenze domestiche o di genere sarebbero soggetti bisognosi di trattamenti psicologici con finalità di recupero. Ma perché e in che senso? Si tratta di soggetti fondamentalmente normali, di soggetti disturbati o anomali, di persone socialmente pericolose o addirittura mentalmente ammalate?

Non c’è dubbio che esistono casi, nei quali il comportamento violento, maltrattante o persecutorio affonda le radici in una patologia psichica conclamata, che come tale richiede terapie di tipo strettamente psichiatrico. Come pure, si verificano ipotesi di comportamenti analoghi che hanno come causa anomalie di personalità, che, pur senza integrare gli estremi di una vera e propria patologia psichiatricamente rilevante, giustificano l’intervento dello psicologo o del criminologo nelle note forme del colloquio psicologico di sostegno, della psicoterapia individuale o di gruppo ecc. In una simile prospettiva si inquadra, ad esempio, una interessante esperienza trattamentale di autori di abusi sessuali a danno di minori, realizzata nel carcere di Siracusa a mezzo di setting di gruppo e di colloqui individuali: grazie all’impiego di tali tecniche all’interno dello stesso istituto penitenziario, gli autori hanno sperimentato una evoluzione psicologica contrassegnata dal progressivo passaggio da  chiusure negazioniste e autodifese vittimistiche alla presa di consapevolezza di distorsioni cognitive, alla comprensione dei fattori condizionanti la inclinazione pedofilica e, infine, alla presa di coscienza degli effetti dannosi degli abusi commessi (cfr. F. CATALDI e T. TRINGALI, Il tarlo e la quercia. Strategie di cura del pedofilo, Chieti, 2015).

 Ciò premesso, non è però meno vero che esistono ulteriori casi – verosimilmente, tutt’altro che sparuti – in cui l’autore della condotta illecita, lungi dall’essere un ammalato o una persona comunque disturbata sotto il profilo psicologico, presenta una personalità fondamentalmente normale: per cui, se di devianza può parlarsi, si tratta  di una devianza consistente in ogni caso in una forma – maggiore o minore, a seconda dei casi – di discostamento da modelli culturali o da standard etici di comportamento ispirati al principio della parità di genere e all’insieme dei valori oggi riconducibili all’ambito del politically correct. Insomma, una devianza “culturale” in senso tradizionalmente patriarcale-maschilista-autoritario, che ormai tende ad essere socialmente sempre più inquadrata nel novero degli atteggiamenti più inammissibili e intollerabili. Ma questo tipo di devianza è suscettibile di “rieducazione” nel senso del diritto penale?

Senza potere approfondire il discorso, mi limito qui a ribadire che quello di rieducazione è un concetto di non agevole concretizzazione definitoria, anche perché caratterizzato da uno strettissimo e complicato intreccio di componenti valutative ed empiriche, e altresì esposto a inevitabili sovrapposizioni tra la dimensione giuridico-costituzionale e i versanti disciplinari delle scienze sociali. Sintetizzando al massimo, ricordo che nella letteratura penalistica e nella stessa giurisprudenza costituzionale ha finito (condivisibilmente) col prevalere una nozione – direi – abbastanza laica di rieducazione (o risocializzazione o recupero sociale): cioè una concezione che, rifuggendo in nome del principio costituzionale del pluralismo  da ogni tentazione di orientarne il concetto secondo specifiche concezioni religiose o morali, si accontenta di identificarla con l’acquisita capacità di vivere rispettando le regole della convivenza sociale (la cosiddetta legalità esteriore), non importa se per mero calcolo razionale  piuttosto che per la maturata convinzione che sia cosa buona e giusta non delinquere. Ora, alla stregua di una simile concezione costituzionalmente orientata, sarebbe legittimo puntare a una rieducazione o a un recupero dell’autore di violenze contro le donne basati sulla pretesa di promuovere un mutamento di inclinazione culturale, come se la legge penale e la punizione fossero legittimate ad esempio a trasformare coercitivamente un “maschilista”, se non in un “femminista” militante, in una persona disposta a modificare profondamente mentalità ed atteggiamento nelle relazioni con l’altro sesso (o con la famiglia)? Almeno in linea teorica, la risposta dovrebbe essere negativa. Ma gli psicologi e i criminologi, oltre ai magistrati esperti di violenza di genere, sono dello stesso parere?

 Mi è capitato di leggere in uno scritto (inedito) sull’argomento dei criminologi Paolo Giulini e Francesca Garbarino: “Emerge (…), in considerazione delle difficoltà degli autori di reato violento di ragionare in termini di propria implicazione e responsabilità, e di maturare una motivazione al cambiamento, la necessità di assumere una cultura dell’intervento che oltrepassi la contrapposizione tra volontarietà e coazione”; si tratta di “aprire un nuovo paradigma per uscire da tale schema, introducendo un ‘campo congiunto’ di cura e pena, in ambito detentivo e successivamente nel territorio, che costituisca la pressione adatta a supportare l’operatore e i rei stessi nell’affrontare le difese di negazione, favorendo il confronto di tali soggetti con valori diversi e con la propria interiorità”. Al di là del gergo specialistico, che vuol dire più precisamente combinare volontarietà e coazione, cura e pena? Questa combinazione viene additata indifferentemente per tutti gli autori di violenze di genere, o solo per quelli psicologicamente disturbati? In ogni caso, come giurista attento ai principi e alle garanzie costituzionali, ribadirei l’incombere di un rischio concreto: cioè che un trattamento rieducativo o riabilitativo finalizzato alla modifica dei modelli culturali di comportamento, o dei valori di riferimento, finisca – anche surrettiziamente – col caricarsi di pretese e implicazioni a carattere autoritario e moraleggiante, poco compatibili con una giustizia penale di ispirazione liberaldemocratica.

Auspicherei, pertanto, che il dibattito e il confronto multidisciplinare sul problema del trattamento degli autori dei reati contro le donne si sviluppasse in maniera sempre più approfondita.