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IL FILTRO MAGICO E I LIMITI DELLA RIFORMA – DI FRANCESCO PETRELLI

IL FILTRO MAGICO E I LIMITI DELLA RIFORMA – DI FRANCESCO PETRELLI

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IL FILTRO MAGICO E I LIMITI DELLA RIFORMA

di Francesco Petrelli

Il completamento della riforma del processo penale è alle porte, così come le elezioni politiche. Nella riforma “Cartabia” il riscatto finanziario si è così sostituito al ricatto elettorale nell’impulso riformatore. Una seria riforma del processo avrebbe preteso un riequilibrio ordinamentale della figura del giudice, ma la crisi della magistratura non ha prodotto rinnovamenti perché la si è intesa come una crisi di magistrati e non come un cedimento strutturale. Quanto alla prossima legislatura, è difficile lumeggiare un orizzonte positivo di riforme radicali o di ampio respiro. Diritto e processo sono diventati la cassetta degli attrezzi (o del pronto soccorso) della politica per la ricerca di consenso, ma sono ingombranti quando si impone una scelta di campo più netta sui valori messi in gioco dal processo penale.  

Destra e Sinistra nel nostro Paese si sono spartiti i diritti: da una parte le libertà e i diritti individuali, dall’altra i diritti sociali e i diritti civili. Criticare la magistratura è di destra. La tutela e la promozione dei diritti di difesa nel processo penale sono intesi come valori della destra. Il garantismo conserva una quota ancipite: può essere di sinistra se tutela le libertà degli ultimi, le condizioni degli immigrati in un centro di accoglienza sono materia di tutela, destano meno indignazione le condizioni inumane di una casa circondariale per detenuti comuni. Un terreno off limits è quello della lotta alla mafia. Vietato tutelare i diritti degli imputati e dei condannati per reati di mafia: il 41-bis è un luogo meta-valoriale. Ciò che invece è equamente distribuita nel Paese è la retorica giustizialista: la si trova ovunque, perché si nutre di questa indeterminatezza prospettica. Cresce e si sviluppa nell’indifferenza di quelli che sono i valori e i principi fondanti dello Stato di diritto. Sottintende una forza tutta strumentale della giustizia ed alimenta così una dimensione puramente formale del diritto. Diritto e processo sono diventati la cassetta degli attrezzi (o del pronto soccorso) della politica, buoni per la ricerca di consenso, per l’attacco all’avversario, per stimolare o sopire insicurezze collettive. Se il processo penale si è rivelato assai utile per questo genere di sortite, lo stesso ha mostrato invece di essere ingombrante nelle partite politiche più aperte dove si impone una prospettiva ideologica o culturale più larga e una scelta di campo più netta sui valori messi in gioco dal processo penale. In questi casi l’ascia di guerra della giustizia viene seppellita.

Con queste premesse strutturali, difficile lumeggiare un orizzonte positivo di riforme radicali o di ampio respiro. Ogni riforma del processo penale è nata e cresciuta dentro quegli angusti limiti politici, storici e culturali.

Questa riforma, tuttavia, è cresciuta con una partnership differente. Se anche in precedenza la dimensione sovranazionale aveva già fatto sentire il suo peso in alcuni limitati interventi riformatori, in questo caso l’Europa si è presentata con la tensione di una faglia di rottura larga e netta. La crisi pandemica ed il conseguente piano nazionale di ripresa e resilienza e hanno imposto agli Stati membri riforme politiche estese e profonde. Non una riforma giocata sul piano politico tutto interno dei vari “pacchetti sicurezza”, ai quali in questi ultimi decenni ci eravamo abituati, ma una riforma di ben più ampio respiro, “europea” nel senso che dalla sua approvazione e dal suo immediato funzionamento (l’effettiva accelerazione dei processi penali nella misura del 25%) discenderanno in concreto i promessi flussi finanziari del PNRR (ulteriori 40 miliardi). Questo spiega e giustifica l’impegno del Governo di portare a compimento l’impresa riformatrice che ha investito innanzitutto il codice di procedura penale, ma anche il sistema sanzionatorio con l’innovativa introduzione del capitolo della giustizia riparativa.

Il riscatto finanziario si è così sostituito al ricatto elettorale nell’impulso riformatore. Così che il Governo si è trovato ad esaminare, in pieno agosto, fra gli altri affari correnti, il Decreto Legislativo prodotto dalle Commissioni ministeriali, accompagnato dalle pagine della sua Relazione.  Ricorre inevitabile il valore trasversale dell’efficientizzazione del sistema. Il principio funzionale della ragionevole durata subisce una torsione progressiva e rischiano così di piegarsi alla velocità del processo tutti gli altri principi. Si stabilizzano le misure straordinarie che l’emergenza pandemica aveva imposto, dal processo a distanza alle udienze cartolari. Da verificare se il contraddittorio e l’oralità che ne residuano saranno piegati anch’essi dalla prassi dominante dell’accelerazione. Evidente la “fallacia naturalistica” nella quale si cade nell’affrontare il problema della intercambiabilità del giudice. Anziché modificare le regole che consentono ai giudici di spostarsi agevolmente da un ufficio giudiziario all’altro, abbandonando il proprio carico di lavoro, si modificano le regole del processo, affidandosi a strumenti succedanei certamente incapaci di trasmettere l’immediatezza dell’esame di un teste da un giudice all’altro. I principi di immediatezza e di oralità ne restano mortificati. Il dibattimento resta così un’isola misteriosa e lontana. La riforma la circumnaviga senza neppure gettarvi dentro uno sguardo. Ci si dovrebbero avventurare infatti solo i condannati.

Ci sarà poi da riflettere su come il processo digitale svuoterà gli spazi, di come il rito non partecipato cambierà il volto delle corti di appello. Su come il Foro perderà definitivamente il suo ruolo di luogo di formazione.

L’impatto della giustizia riparativa cambierà trasversalmente il volto del processo. Incerte le sorti della improcedibilità, non solo sul piano della efficienza operativa della nuova forma di “prescrizione processuale”, ma anche su quello dei suoi nuovi delicati intrecci con il processo in fase di impugnazione e della sua tenuta costituzionale. Resterà poi da vedere come i due sistemi di prescrizione, quella sostanziale che governa il processo fino alla sentenza di primo grado e quella processuale della improcedibilità, che governerà le fasi di impugnazione, riusciranno a convivere e soprattutto a garantire soluzioni di tipo razionale tali da resistere al vaglio di costituzionalità (o prima ancora al principio di realtà).

Resta fuori dalla linea di faglia l’universo carcerario. Dopo l’abbandono nel 2018 della riforma dell’esecuzione penale e la mutilazione del testo così come era uscito dagli Stati Generali coordinati dal Prof. Giostra, da parte del nuovo governo giallo-verde, il carcere ha subito quell’ulteriore degrado che ha toccato i suoi punti più bassi nelle vicende di Santa Maria Capua Vetere. I lavori della Commissione Ruotolo (settembre-dicembre 2021), che aveva ripreso le fila di quel discorso, sono rimasti privi di impulso. Si nota una strana asimmetria fra l’impegno riformatore del sistema sanzionatorio e l’abbandono delle sue attuali conseguenze più volte denunciate dal Garante. Condizioni spesso caratterizzate da infime condizioni igieniche e strutturali e da un tasso di sovraffollamento del 112%. Sono ancora 27 i bambini detenuti in carcere assieme alle loro madri a causa di una riforma mai approvata. Ed è giunto a 49 (agosto 2022) in numero dei suicidi nelle carceri italiani. Inosservata e tragica sonda della illegalità ed inumanità del nostro sistema (98 in tutto i morti nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno).

Prima, ovvero ultima, la riforma dell’Ordinamento giudiziario (approvata il 16 giugno 2022). Per meglio dire la riforma delle regole elettorali del CSM e l’aggiustamento delle modalità di valutazione di professionalità e di avanzamento delle carriere. Una seria riforma del processo avrebbe preteso un riequilibrio ordinamentale della figura del giudice. I nuovi poteri di controllo (le famose “finestre della giurisdizione”) avrebbero preteso un nuovo giudice dotato di una nuova cultura del limite, che non significa banalmente fronteggiare l’espansività dei pubblici ministeri, ma consapevolezza dei limiti intrinseci ed estrinseci del processo. La crisi della magistratura non ha prodotto rinnovamenti perché la si è intesa come una crisi di magistrati e non come un cedimento strutturale. Ma ogni critica a questo assetto viene letta come un attacco alla sua indipendenza ed alla sua autonomia. La difesa della Costituzione e dei suoi valori da parte della magistratura si può confondere facilmente con la tutela dello status quo dei suoi privilegi e del suo potere. Il rifiuto di una riforma ordinamentale in senso costituzionale si avvale spesso di quell’argomento dialettico. È una sorta di filtro magico. Un siero che funziona in ogni caso contro chiunque tenti l’impresa, che sia di destra o di sinistra.