LA GRAMMATICA DELLA LEGALITÀ di Francesco Petrelli
di Francesco Petrelli
La parola Legalità è sulla bocca di tutti e in nessun luogo. I suoi princìpi sono scritti nella Costituzione ma i riformatori dei nostri codici ne diffidano. Il principio di legalità viene messo in dubbio e guardato con sospetto. Ma nel momento stesso in cui i princìpi della legalità sostanziale e processuale arretrano, ciò che avanza non è una nuova legalità ma la sua stessa negazione, un riflusso di tutto ciò che la modernità aveva accantonato e sospinto ai margini della storia del pensiero e del diritto. Credevamo di trovarci in quella difficile epoca di transizione che era stata definita “Interregno”, nella quale si aveva “la sensazione di trovarsi davanti a sistemi ed a modalità operative che non funzionano più in modo adeguato, mentre le nuove più efficienti modalità che ne avrebbero dovuto prendere il posto brillano per la loro assenza”(BAUMAN). Ma contrariamente a quanto si pensava, l’assenza di nuove forme non ci ha lasciato nel vuoto di una fluttuante incertezza, perché quello spazio è stato immediatamente colmato dalle forme più antiche e primitive della cultura giuridica. In una collettività piena di rancore e per ciò indifferente all’intermediazione razionale, lo spazio sociale è stato trasformato dalle nuove tecnologie in una “infosfera” (FLORIDI) nella quale i fatti vengono sostituiti dalle narrazioni dei fatti. Una narrazione che ha sostituito al “male dell’ingiustizia sociale” il “male dell’ingiustizia del processo”. Una narrazione nella quale il diritto penale dell’istinto si rivela un invincibile strumento di consenso. È con questi nuovi problemi che si scontra la cultura del processo e della penalità nel nuovo millennio. Colui che viene additato come reo perde ogni potere, ogni diritto ed ogni dignità. La sicurezza della collettività passa attraverso la sua “espulsione” dal sistema delle garanzie. L’accusato diviene lo strumento della sicurezza sociale al cui perseguimento viene sacrificato. Mentre per un sistema liberale “ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere” (RAWLS), un ordinamento illiberale decide di scaricare sul “singolo” tutti i rischi e tutti i danni derivano dal bisogno di sicurezza e di stabilità. Mentre una società liberale assume sulla intera collettività i rischi derivanti dal processo (come ad esempio quello di assolvere un colpevole pur di non condannare un innocente, o di non utilizzare nel processo una prova assunta violando i diritti di riservatezza o la dignità di una persona), al contrario, un ordinamento non-liberale ritiene tale scelta del tutto irrazionale e preferisce esporre l’accusato a tutte le conseguenze, gli errori e le inefficienze della macchina giudiziaria. Questa opzione implica evidentemente la “mancata identificazione” fra le garanzie di libertà del cittadino e le garanzie di libertà dell’accusato. Ma era proprio partendo da tale presupposto psicologico che John Rawls aveva formulato invece l’idea del “velo di ignoranza”, quella regola cioè che dovremmo imporci ogni volta che ci troviamo di fronte ad una scelta organizzativa che incida sulla nostra convivenza civile, costringendoci ad “ignorare” quale sia la nostra posizione in quel contesto sociale, di uomo privo di mezzi o benestante, di giudice o di imputato, di vittima o di autore di un reato. La scelta prodotta da tale necessitata “ignoranza” sarà certamente la più giusta. Ma in questi contesti culturali egemonizzati dal populismo penale il male è invece sempre “altro da noi” e il processo penale e la pena sono lo strumento elettivo di tale proiezione. L’opzione delle democrazie illiberali mira ad identificare sempre e comunque l’accusato con un nemico ed il processo con una macchina che “deve” produrre condanne. L’idea stessa di pena – che è alla base di ogni sistema penale – ne esce evidentemente modificata, perdendo del tutto i suoi moderni connotati funzionali propri della cultura illuminista, e riassumendo invece l’antica e primitiva natura di un “valore in sé”: tanto più soddisfacente per la comunità, quanto più elevata e rigorosa e, come tale, evidentemente immodificabile nella sua espiazione. La “certezza della pena” si è trasformata così in una inesorabile e ottusa equazione fra pena detentiva e carcere, un nulla poena sine carcere che in nessun moderno e serio sistema punitivo dovrebbe avere corso.Una sorta di improbabile “riserva di carcere” secondo la quale nessuna esecuzione penale può essere data fuori di quel luogo. Un luogo fisico che diviene così anche luogo morale e ideologico della penalità. Una doppia equazione, quella fra carcere e pena, e fra più carcere e più sicurezza che contraddice anche il buon senso ed ogni dato esperienziale. La illiberalità si invera, tanto agevolmente quanto definitivamente in queste semplici formule seduttive, assai facili da inoculare nel sentire comune ed altrettanto difficili da recuperare alla ragione. Non basta, infatti, essere “democratici” – come abbiamo più volte sperimentato in questo volgere degli anni – per avere a cuore i principi del processo liberale. E la dottrina democratica non appare pertanto da sola sufficiente a contenere l’onda illiberale. È così avvenuto, invece, che lo smantellamento progressivo dell’idea della natura universale del principio di legalità, del primato della legge e della irrinunciabilità dei fondamenti liberali delle nostre costituzioni, che non sarebbero nient’altro che “ostacoli epistemologici” (VOGLIOTTI) alla comprensione delle più moderne forme del diritto, ha aperto la strada, da occidente e da oriente, alla immagine attraente delle democrazie populiste e autoritarie, sovraniste ed illiberali, che ripropongono come attuali i valori del passato, mettendo in crisi le basi valoriali del nostro stesso ordinamento sovranazionale. Occorre per questo reinnervare l’idea che la testualità della legge, in quanto prodotto del procedimento democratico di una collettività, abbia un primato che non è solo formale ma anche sostanziale ed in qualche modo universale, in quanto la forma, sotto un profilo fenomenologico, è l’unico modo che la sostanza possiede per manifestarsi nella realtà. L’invito a “storicizzare” le idee prodotte dall’illuminismo e dal pensiero liberale, negandone il valore universale, non è servito ad altro che a sguarnire il pensiero occidentale di un portentoso anticorpo ed a renderci infine inermi di fronte a questo dilagante virus del populismo penale che restaura una idea medievale del diritto, della pena come valore in sé, e dell’uomo come mezzo per la riaffermazione della sicurezza sociale. Occorre a tal fine saper riconoscere nella difesa della libertà del singolo e nel rifiuto della strumentalizzazione dell’individuo ai fini della politica criminale, le radici di una democrazia matura e nel garantismo l’unico dispositivo progressivo resistente ai miraggi del populismo. “Diritto di difesa” muove da questa analisi e dalla convinzione della necessità di dare una nuova forza ed una nuova voce, che sia politica e scientifica ad un tempo, alla avvocatura penale. E lo fa partendo dalla radice paradigmatica del Manifesto del processo penale liberale, riflettendo su quei contesti problematici, intrecciandoli con tutti i profili culturali, anche non specialistici, della modernità, per “collegare quelle fonti privilegiate, esterne ma non estranee”, e da esse “desumere” (NOBILI) una idea nuova di legalità. Questo significa non alzare alcun muro ma aprire varchi laddove la comunicazione si è interrotta, dove i valori del processo sono stati fraintesi, dove l’avvocatura ha trascurato di coltivare la sua vocazione intellettuale e culturale, la sua capacità di “comunicare il processo” all’interno della collettività nella quale vive, dimostrando la dimensione sociale e democratica dei suoi valori garantistici, la sua connessione con i principi di libertà di ciascuno di noi. Questo vuol dire svelare la natura euristicamente e culturalmente sorpassata delle impostazioni inquisitorie del processo penale e la qualità ancora originale ed autonoma del nostro modello accusatorio e fare della condivisione assiologica di quel modello, ivi compresa la sua coerenza ordinamentale, la base sulla quale reimpostare i rapporti con l’intera magistratura. Significa portare avanti il dialogo con il mondo dell’Accademia, ribadendo così la irreversibilità di quell’impegno dei docenti esterno al mondo delle università che non può mai essere temuto come un tradimento della imparzialità scientifica, ma che deve essere inteso invece come una declinazione viva e coerente delle sue attitudini epistemologiche all’interno della collettività. Ponendo così le basi sia comunicative che ideologiche della ricostruzione della grammatica fondamentale dei principi liberali dei sistemi penali. E per fare sì che l’avvocatura del nostro Paese divenga il luogo culturale del rilancio anche sovranazionale della rinnovata capacità fondativa di quei principi, nel convinto contrasto di quell’onda illiberale che, aprendosi la strada attraverso l’espandersi di una “costruita ignoranza”, è divenuto lo strumento esiziale della riesumazione di improponibili modelli inquisitori fondati sulla banalizzazione e sulla svalutazione di ogni forma etica di conoscenza, di civiltà e di dignità dell’uomo.