LA GUERRA DEI “PARADIGMI” FRA LIBERTÀ E ILLIBERTÀ. – DI FRANCESCO PETRELLI
di Francesco Petrelli
Si va da tempo proponendo un nuovo “paradigma” che sostituisca alla centralità di una legge ormai screditata la centralità del giudice. Accanto all’avanzare del populismo penale si va diffondendo la figura di un giudice che, non potendo essere “bocca della legge”, sarà d’ora in poi “orecchio del popolo” e dei suoi nuovi valori dominanti. Sono tuttavia proprio i tempi epidemici nei quali viviamo, con le drammatiche esperienze di disintegrazione delle certezze e della stabilità, a fornirci una possibile nuova prospettiva chiarificatrice. Il “paradigma” essenziale è invece quello capace di ragionare del recupero di una solida legalità modernamente intesa e capace di garantire il nucleo portante e universale delle garanzie democratiche e liberali.
Questi tempi epidemici segnati dal dubbio circa la stabilità dei valori dell’esistenza umana, e della stabilità stessa quale valore[1], ci pongono davanti a nuove prospettive di senso e ci interrogano sulla fragilità e reversibilità dei principi che governano la nostra stessa esistenza e quella delle nostre collettività.
Credevamo oramai stabili alcuni valori, immaginandoli profondamente radicati nei nostri abiti mentali e nel nostro sentire. Si modifica invece nel tempo non solo l’idea del significato delle nostre libertà e delle garanzie poste a loro presidio, ma anche quella della loro utilità per la collettività intera. Ciò che sembrava essere il fine oramai compiuto dell’evoluzione politica di una comunità, finisce d’un tratto, nel volgere di pochi anni, di essere una meta credibile e condivisa. Quello che sembrava essere un patto fondativo, viene ribaltato invece nel suo contrario: un’impostura.
Si modificano così nell’immaginario collettivo tutte quelle idee che erano ritenute innovative e rivoluzionarie e che il tramonto dell’Aletheia aveva portato a compimento[2], narrando invece di un “nuovo ordine” che nascerebbe dal disvelamento di quell’impostura e dallo smantellamento dei “miti” illuministi e modernisti che l’avevano alimentata: la funzione risocializzante della pena, la presunzione d’innocenza, la dignità incondizionata della persona, il valore della tutela dell’individuo in tutte le sue estensioni pubbliche e private, e sopra di queste il primato della legge.
Ma accanto all’incedere dei contro-valori imposti dalla weltanschauung populista, della pena come valore in sé, del diritto penale del “reo come nemico”, della dignità della persona, non come condizione primaria dell’essere umano, ma come bene da concedere e da meritare, vanno affermandosi altre idee dalle radici genealogicamente risalenti, che, sebbene fondate su circoli più aristocratici, hanno tuttavia assunto nella contemporaneità una forza ed una capacità espansiva altrettanto dilagante.
Si tratta delle ideologie volte alla affermazione di un nuovo “paradigma” che sostituisce alla centralità della legge, la centralità del giudice.
Non si è mai ragionato di questi due fenomeni della contemporaneità – l’uno politico e sociologico e l’altro tecnico-giuridico – come aspetti di un unico problema e come epifenomeni di un’unica spinta politica. Si tratta invece di questioni sulle quali conviene riflettere con un nuovo sforzo interpretativo unificante, provando a rivelarne la profonda connessione, piuttosto che osservarne la occasionale contiguità.
Quello che è stato definito lo “scontro tra paradigmi”[3] non è altro che il modello teorico di reinterpretazione della modernità in chiave di riassetto dei poteri all’interno dell’ordinamento costituzionale. Nell’ambito di tale scontro, la “nuova legalità” si pone essenzialmente quale “legalità dei principi” espressi dalla giurisprudenza, in contrapposizione alla “legalità della legge”.
Il presunto paradigma progressivo non si risolve in altro che nella nuova formula secondo la quale “il giudice è soggetto esclusivamente alla legge così come da questi interpretata”. La “narrazione” posta a sostegno di questa consolidata visione ideologica si sviluppa affermando che è la nostra moderna “società liquida” che “rivendica un ruolo sempre più incisivo nell’attività dei giudici di dire il diritto”, chiedendo così alla giurisdizione penale di assumere su di sé oneri sempre più gravosi, ai quali la “politica” e la “scienza giuridica” da tempo si sottraggono: quelli di “costruire un nuovo ordine giuridico e riconfigurare istituti e categorie principi alla luce delle profonde trasformazioni dell’esperienza giuridica e delle nuove acquisizioni teoriche” [4]. Tutto ciò rassicurandoci circa il fatto che non è il “diritto quale dimensione ontica della società” ad essere in crisi, bensì soltanto “un certo modo di concepire il diritto”[5], ovvero quello relativo al vecchio, obsoleto paradigma della legalità della legge scritta.
Eliminata tuttavia la sovrastruttura culturale che alimenta questa narrazione relativa al come ed al perché di questo nuovo promettente “paradigma”, viene il dubbio che non si tratti altro che di una teorizzazione oggettivamente orientata ad una redistribuzione del kratos all’interno dei poteri dello Stato.
Una pre-condizione governa i due fenomeni – quello elitario della nuova legalità e quello trasversale del populismo penale – ed è quella costituita dal disarmo della politica e dall’abdicazione della sua necessaria ed insostituibile opera di mediazione.
La politica ha infatti da tempo rinunciato a formulare una sua idea “di giustizia” ed a costruire una qualche forma di progettualità “per la giustizia”, si è andata sedimentando nel tempo nella cultura diffusa del Paese che tali fondamentali questioni (come debba essere fatto un codice, a quale modello si debba far riferimento, quali siano i fatti da punire ed in che modo e con quali pene, quale politica criminale debba essere adottata, quali siano i principi negoziabili nella lotta alla criminalità organizzata e non …) possano, o meglio, debbano essere lasciate alla magistratura[6] nelle sue diverse componenti organiche, istituzionali ed associative[7].
Ne è scaturita una progressiva “politicizzazione della magistratura” ed una simmetrica evoluzione in senso “filo-magistratuale” della politica, il che ha inevitabilmente contribuito, attraverso una sorta di dissolvenza incrociata di questi due fenomeni, ad una trasformazione del diritto penale in un efficacissimo strumento di “pedagogia sociale”[8].
E la magistratura, in quelle sue diverse componenti, ha così imparato a gestire in maniera autonoma e disincantata la giustizia e la sua comunicazione, la politica criminale e i suoi destini, suggerendo riforme e al tempo stesso assecondando o implementando ogni pulsione populista che risulti utile non solo al mantenimento della sua quota di potere politico, ma anche al governo di tutte le tensioni politiche, sindacali e aristocratiche che allignano al suo interno.
Sono esattamente questi i diversi elementi che hanno di fatto, nell’ultimo decennio, costituito la base recettiva delle nuove idee circa la necessità di smantellare l’impianto della legalità processuale e sostanziale e l’urgenza di imporre un “nuovo paradigma”, una nuova legalità giudiziaria e sovranazionale del tutto disancorata dalla funzione nomopoietica dei Parlamenti ed accentrata sulla logica sistemica del precedente interpretativo e sul potere cetuale di chi la governa.
La progressiva perdita di credibilità e di competenza del Parlamento e la sua sempre più scarsa e discutibile produzione normativa, giustificano e sanciscono l’espansione compensatrice della funzione interpretativa. La legge screditata deve essere sostituita da una fonte più prossima al popolo ed alle sue esigenze. Il giudice che non è e non può essere “bocca della legge” sarà d’ora in poi “orecchio del popolo” e dei suoi nuovi valori dominanti.
Come non rilevare in tutto questo la fondamentale opera demolitrice portata a compimento attraverso la postulazione di un “diritto penale dell’istinto”, ed attraverso la dissacrazione dei principi costituzionali posti a garanzia dell’imputato, faticosamente costruiti e preservati nel tempo, la ridicolizzazione del processo e della stessa funzione democratica ed epistemologica del modello accusatorio, da parte di vasti movimenti politici e di rilevanti settori della stessa magistratura. Tutte le leggi ispirate alla tutela dell’individuo, alla protezione della riservatezza della sua sfera privata ed ai valori del processo accusatorio ed anche le legislazioni ispirate alla funzione costituzionale della pena, sono state investite da una profonda critica che non ha posto in dubbio l’efficacia delle singole norme, ma ne ha radicalmente spazzato via, senza alcuna possibilità di confronto, le ragioni fondanti.
La desertificazione, da un lato, di quelli che erano stati definiti con disprezzo i “miti dell’illuminismo”[9], gli “ostacoli epistemologici” all’incedere di una moderna “scienza del diritto”[10], e l’approdo populista, dall’altro, ad una grandiosa opera di disintegrazione di massa dei presidi razionali delle garanzie poste a fondamento del processo penale, con la sua univoca vocazione al disprezzo della legge, ci appaiono dunque ora come due aspetti di un unico processo politico che spinge verso un ridimensionamento della separazione dei poteri ed una nuova inusitata stabilizzazione in chiave tecnocratica di quella che acutamente qualche anno fa era stata definita una “democrazia giudiziaria”[11].
Seppure con due linguaggi differenti, quello del sofisticato dogma teoretico, e quello del più popolare lessico del “codice spaventapasseri” e del “marcite in galera”, queste due forze convergono dunque all’interno di un unico pericolosissimo progetto di redistribuzione e di sostituzione del potere e di ridefinizione in chiave paternalistica e illiberale della nostra democrazia.
Sono tuttavia proprio i tempi epidemici nei quali
viviamo, con le drammatiche esperienze di disintegrazione delle certezze e
della stabilità, a fornirci una possibile nuova prospettiva chiarificatrice, ed
a mostrare – proprio nel momento in cui con il proliferare di decretazioni
d’urgenza, che in un intreccio di competenze politiche e amministrative,
incidono tuttavia sulle libertà di tutti – cosa significhi in un contesto
tecnologico e globalizzato la crisi dei rapporti fra la Legge e la libertà, e
come il “paradigma” essenziale non sia quello della confusione e della
redistribuzione dei poteri, né quello dell’esercizio di una giurisdizione volta
alla tutela di beni individuati sull’onda di una presunta volontà popolare, ma quello capace
di ragionare del recupero di una solida legalità modernamente intesa e capace
di garantire il nucleo portante e
universale delle garanzie democratiche e liberali.
[1] M. C. Nussbaum, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2004.
[2] E. Severino, La Potenza dell’Errare – Sulla Storia dell’Occidente, Diritto, filosofia, tecnica, BUR 2014., p. 293.
[3] M. Vogliotti, Il giudice al tempo dello scontro tra paradigmi, DPC 2016.
[4] M. Vogliotti, cit., p. 2.
[5] P. Rossi (a cura di), Fine del diritto? Bologna, Il Mulino, 2009.
[6] G. Insolera, Declino e caduta del diritto penale liberale, Edizioni ETS, Pisa 2019.
[7] Accanto a questa sorta di “competenza funzionale” se ne è andata nel tempo ad affiancare un’altra, sospinta da una componente mediatica di indiscutibile valore, costituita dalla implicita virtù dei capi delle procure più importanti, o dei magistrati, di solito pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, che si sono distinti per indagini di grande richiamo presso l’opinione pubblica.
[8] G. Insolera, cit., p. 21.
[9] P. Grossi, il quale ha più volte ribadito la necessità di “demitizzare un terreno come quello penale minato da mitologie risalenti e resistenti”.
[10] Vogliotti, cit., p. 2.
[11] L. Violante, Anatomia del potere giudiziario, Carocci Editore, Firenze 2016.