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PRIME RILEVAZIONI EMPIRICHE SUGLI EFFETTI DEL PROCESSO PENALE TELEMATICO: LA “VIDEO ENABLED JUSTICE PROGRAMME: UNIVERSITY OF SURREY INDEPENDENT EVALUATION” – DI VITTORIO MANES

PRIME RILEVAZIONI EMPIRICHE SUGLI EFFETTI DEL PROCESSO PENALE TELEMATICO: LA “VIDEO ENABLED JUSTICE PROGRAMME: UNIVERSITY OF SURREY INDEPENDENT EVALUATION” – DI VITTORIO MANES

MANES – PRIME RILEVAZIONI EMPIRICHE SUGLI EFFETTI DEL PROCESSO PENALE TELEMATICO.PDF

di Vittorio Manes*

Una prima ricerca empirica sul processo penale da remoto fornisce dati interessanti. Ogni deduzione a questo riguardo sconta, evidentemente, un tasso di arbitrarietà, e già questo sembra imporre cautela prima di condividere giudizi perentoriamente negativi o apocalittici Ma risulta evidente la riduzione dell’impatto che il difensore è in grado di esercitare sul convincimento del giudice, con il conseguente affermarsi di una ricostruzione unilaterale e monologica della vicenda processuale.

  1. Nella discussione – bruscamente aperta dall’emergenza Covid-19 – sul processo penale “da remoto”, molte e diverse voci – non solo all’interno dell’avvocatura[1] – hanno già manifestato tanto perplessità e criticità applicative, quanto la dubbia tenuta rispetto ai principi costituzionali, in un panorama peraltro arricchito da opinioni diversificate e certo non contrassegnato da pregiudiziale chiusura verso le componenti positive che l’innovazione tecnologica può apportare anche all’efficienza della giustizia penale.[2]

Per quanto qui maggiormente interessa, sul fronte delle garanzie costituzionali, si è motivatamente prospettato, in particolare, il contrasto stridente con il principio di oralità-immediatezza,[3] e con il diritto di difesa, con la garanzia dell’udienza pubblica, con la riservatezza e la segretezza dei dati;[4] segnalando l’impossibilità di ritenere fungibile l’udienza “da remoto” rispetto all’udienza reale, evidenziando la mortificazione del contraddittorio e della sua dimensione dialogica, lo svilimento del ruolo del difensore, e, persino, la spersonalizzazione e la desacralizzazione del processo.[5]

Potrebbero apparire tutte questioni di principio, come tali destinate a volteggiare nel cielo dei concetti giuridici.

Sennonché, i diritti e le garanzie fondamentali non fioriscono nei deserti di ghiaccio dell’astrazione, e il loro arretramento implica ricadute immediate e concrete nella sfera dei diritti dell’indagato/imputato: come sembra del resto confermare – pur con tutta la precarietà di simili rilevazioni – una recente ricerca empirica, commissionata dal Sussex Police and Crime Commissioner e condotta da alcuni professori del Dipartimento di Sociologia della University of Surrey, intitolata “Video Enabled Justice Programme: University of Surrey Independent Evaluation”, pubblicata il 4 maggio 2020.[6]

  1. Lo studio[7] prende in considerazione 631 udienze, la maggioranza delle quali sono remand hearings (udienze in cui l’imputato compare per la prima volta davanti al giudice dopo essere stato arrestato), suddivise tra udienze svoltesi da remoto ed udienze tradizionali in cui la libertà su cauzione viene concessa o negata dal giudice.

I risultati evidenziano, innanzitutto, il verificarsi di una serie di difficoltà tecniche dovuti al non eccellente funzionamento delle risorse tecnologiche a disposizione (connessione lenta, scarsa potenza del segnale o del supporto, scarsa disponibilità di postazioni dalle quali connettersi) in una percentuale non irrilevante di video-udienze: nel 12,2% dei casi il tentativo iniziale di connessione fallisce per le ragioni più varie (perdita della connessione in una delle postazioni remote, necessità di ristabilire manualmente la connessione, collegamento ad un link diverso da quello predisposto per lo svolgimento dell’udienza). La maggioranza degli intervistati (imputati, difensori, consulenti legali ma anche funzionari della Corte) evidenziano i numerosi problemi relativi alla qualità dell’immagine e dell’audio, associati alla mancanza di strumentazione audiovisiva adeguata, soprattutto nei luoghi di custodia dai quali si connettono gli imputati soggetti a restrizione della libertà personale: nel 19,6% dei casi non si riesce a scorgere i lineamenti e le espressioni dell’imputato perché l’inquadratura non viene messa sufficientemente a fuoco; il programma inquadra una sola persona alla volta, generalmente colui che parla, piuttosto che tutti i volti in contemporanea; la mancanza dell’immagine della persona alla quale ci si sta rivolgendo non consente di notarne espressioni e reazioni; il posizionamento delle videocamere, che nei luoghi di custodia sono inamovibili, fornisce una prospettiva inadeguata dei soggetti che si connettono da queste postazioni (imputati o avvocati); sono numerosi i casi in cui l’audio non è stabile, si sente un continuo rumore di sottofondo o ci sono interferenze.

Nella nuova cornice operativa, in particolare, gli avvocati dubitano della segretezza delle conversazioni da remoto con gli assistiti che si trovano nei luoghi di custodia: tutto ciò che si vede è una sedia, la propria videocamera e quella dell’altro, ma non c’è modo di sapere se qualcun altro si trovi nella stanza nello stesso momento.

Nondimeno, le difficoltà tecniche non sembrano essere il problema principale, né ostacoli insormontabili, dal momento che alcuni miglioramenti vengono registrati in seguito all’introduzione di alcuni specifici tools volti ad una migliore pianificazione del lavoro delle Corti.

La ferita più profonda, tuttavia, sembra quella inferta al rapporto di fiducia tra difensore e assistito.

In effetti, tutti gli intervistati, compresi coloro che non assumono una posizione esplicitamente contraria allo svolgimento telematico di alcune udienze, non possono fare a meno di avvertire una sensazione di distance e detachment. A questo riguardo, viene rilevata da più parti la difficoltà di sentirsi coinvolti e tenere alta la concentrazione quando non si ha la possibilità di guardare negli occhi la persona che parla; di sentirsi protagonisti, anziché spettatori, quando non si occupa fisicamente all’interno dell’aula lo spazio che per il proprio ruolo di parte è designato; soprattutto, l’impossibilità di cogliere ed interiorizzare le molteplici sfaccettature di una personalità con la quale si entra in contatto solo attraverso il medium telematico.

D’altro canto, il venir meno delle formalità e della simbologia che caratterizzano lo svolgimento dell’udienza – si evidenzia ancora – sembra riflettersi anche sugli atteggiamenti che assumono i partecipanti, soprattutto gli imputati, e che appaiono meno composti ed adeguati.

Un’altra ricerca[8], condotta su più piccola scala dalla London School of Economics and Political science, pubblicata nel settembre del 2018 e basata sull’osservazione dello svolgimento da remoto delle udienze della Tax Chamber, aveva del resto condotto a conclusioni analoghe: 7 video-udienze su 8 avevano incontrato difficoltà tecniche (audio, visibilità dei volti sullo schermo, accesso ai documenti) che richiedevano l’intervento manuale delle persone connesse o, in caso di persistenza, del team incaricato dalla Corte; era stato spesso necessario mettere in pausa il video per poi riprendere; quando non si riusciva a risolvere il problema tecnico, soprattutto a causa di una scarsa connessione Wi-Fi, l’esperienza telematica falliva e l’udienza doveva essere rimandata e tenersi da capo in presenza.

Anche da questo precedente studio emergeva che l’impressione generale degli intervistati, specialmente dei giudici – che si dichiaravano preoccupati per il livello di informalità riscontrato e per l’inadeguatezza degli atteggiamenti adottati da alcuni partecipanti – era che le video-udienze dovessero restare uno strumento al quale ricorrere solamente in mancanza di alternative (ad esempio, quando una delle parti è impossibilitata a presenziare); la modalità tradizionale risultava senza dubbio preferibile e sembrava insensato farsi tentare da quella telematica in vista di un possibile guadagno in termini di efficienza o risparmio in termini di costi.

  1. Ma il dato più allarmante, in realtà, è un altro: la recente ricerca dell’Università del Surrey evidenzia che nei procedimenti espletati per via telematica nei quali, tra quelli esaminati, è stata emessa dal giudice una sentenza (258 su 631), la probabilità di ottenere una condanna ai lavori socialmente utili (in media, 13%) è risultata vertiginosamente più bassa della probabilità di vedersi infliggere una condanna alla pena detentiva (in media, 47%).

Il giudice, insomma, si è orientato nella maggioranza dei casi per la pena più grave.

Ogni deduzione a questo riguardo sconta, evidentemente, un tasso di arbitrarietà, e già questo sembra imporre cautela prima di condividere giudizi perentoriamente negativi o apocalittici:[9] ma da questa prima ricerca empirica alcune indicazioni possono forse trarsi, in ordine alla riduzione dell’impatto che il difensore è in grado di esercitare sul convincimento del giudice, al conseguente affermarsi di una ricostruzione unilaterale e monologica della vicenda processuale, con minor propensione alla verifica dei requisiti la cui sussistenza suggerisce di evitare l’irrogazione, in concreto, di una pena custodiale, entrambi profili connessi al fatto che il difensore e l’assistito non compaiono ed intervengono in aula ma si connettono da remoto.

Se fosse così, comincerebbe a chiarirsi quale è il sacrificio – tangibile e concreto – imposto ai diritti sull’altare dell’efficienza coûte que coûte: per un “relativamente modesto impatto” in termini di efficienza e di comodità sulla pianificazione e gestione delle udienze – per usare le parole del report -, il prezzo da pagare è il depotenziamento della difesa tecnica, l’inquinamento del rapporto di fiducia tra difensore e assistito, la spersonalizzaizone del rapporto tra le parti – e tra il giudicante e il giudicato -, ed una progressiva, subliminale, disumanizzazione del processo e della pena.

11.05.20

 

*Professore, Avvocato, Responsabile dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Unione Camere Penali Italiane

[1] Si veda, tra gli altri, la autorevole posizione espressa dal Presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, Processo penale online, opinioni a confronto, Diritto di difesa, 3 maggio 2020.

[2] V. ad es., specie con riguardo alle videoregistrazioni, il colloquio tra G. Di Federico e G.D. Caiazza, assieme a F. Petrelli, pubblicato in questa rivista il 2 maggio 2020.

[3] O. Mazza, Distopia del processo a distanza, Arch. pen., 1/2020; G. Spangher, Parole che pesano: “sperimentale” e “senza toga”, Diritto di difesa, 28 aprile 2020; v. anche E. Maiello, Udienze on line: un golpe, in Il Riformista, 25 aprile 2020.

[4] Cfr. anche il contributo V. Manes-L. Petrillo-G. Saccone, Processo penale da remoto: prime riflessioni sulla violazione dei principi di legalità costituzionale e convenzionale, Diritto di difesa, 6 maggio 2020; ed ancora il contributo dell’Osservatorio Corte costituzionale.

[5] V. ad es. l’intervento di F. Petrelli-F. Alonzi, La privatizzazione (e la privazione) del processo, Diritto di difesa, 26 aprile 2020.

[6] Ne ha dato conto l’Independent, in un articolo di L. Dearden, Coronavirus: defendants more likely to be jailed in video hearings, research warns amid rise of remote justice, 6 maggio 2020, consultabile in https://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/coronavirus-court-hearings-jail-sentence-remote-lockdown-a9500101.html?fbclid=IwAR1ZCsDZoXW84ZYhm2n0LKWfG6VjE1C-dB3fXz33X1tP3yGjFdVKcaB1gvc

[7] N. Fielding-S. Braun-G. Hieke, Video Enabled Justice Programme: University of Surrey Independent Evaluation, 4 maggio 2020 http://spccweb.thco.co.uk/media/4807/university-of-surrey-video-enabled-justice-final-report-ver-11.pdf

[8] M. Rossner-M. McCurdy, Implementing Video Hearings (Party-to-State): a Process Evaluation, 2018 http://www.lse.ac.uk/business-and-consultancy/consulting/assets/documents/implementing-video-hearings.pdf

[9] Un giudizio simile sembra emergere nella ricostruzione di L. Dearden, Coronavirus: defendants more likely to be jailed in video hearings, research warns amid rise of remote justice, cit.