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A QUALI COSTI?  L’EFFICACIA ESTENSIVA DELL’INFORMAZIONE INTERDITTIVA ANTIMAFIA. – DI ROSARIO PIOMBINO

A QUALI COSTI? L’EFFICACIA ESTENSIVA DELL’INFORMAZIONE INTERDITTIVA ANTIMAFIA. – DI ROSARIO PIOMBINO

PIOMBINO – A QUALI COSTI? L’EFFICACIA ESTENSIVA DELL’INFORMAZIONE INTERDITTIVA ANTIMAFIA.PDF

(Nota a sentenza – Corte Costituzionale 14.01.2020 n. 57)

di Rosario Piombino*

Sommario: 1 – Le preoccupazioni dell’Antimafia e la necessità della ripresa economica. 2.1 – Gli interventi interpretativi sull’economia “privata”. 2.2 – La sentenza della Corte Costituzionale nr. 57 del 14.01.2020. 2.3 – Il precedente della Corte Costituzionale (sentenza nr. 4 del 18.01.2018). 2.4 – La ratio, il modello processuale e i costi di legalità dell’interdittiva antimafia. 3 – Criteri di bilanciamento dei valori costituzionali.

  1. Le preoccupazioni dell’Antimafia e la necessità della ripresa economica.

La profonda crisi economica che l’emergenza COVID ha determinato e che segnerà i prossimi anni dell’economia italiana ci impone una riflessione sul rapporto tra Stato e imprenditoria privata in un momento storico in cui lo stimolo alla produzione deve vedere necessariamente l’intervento pubblico al centro della scena.

Quali siano i metodi più efficienti per raggiungere lo scopo e quali i limiti di tale protagonismo è questione che investe direttamente il rapporto Stato-Individuo-Proprietà. Quando si discorre di interventismo economico statale, il grado di efficienza non può essere commisurato solo in termini di incremento di PIL, dovendo tale obiettivo essere perseguito unitamente ad altri; l’attività economica privata, ai sensi dell’art. 41, comma 3, della Costituzione, è suscettibile di programmi e controlli funzionali ad indirizzarla e coordinarla per fini sociali. E il sistema giustizia, sul piano dell’efficienza, è uno degli indici di competitività produttiva di una nazione direttamente incidente sul conseguimento dei fini sociali nel cui ambito rientra anche la crescita economica.

Di recente, si legge sempre più spesso, che una delle cause del ridotto tasso di crescita economica dell’Italia rispetto alla media europea è l’interferenza del potere giudiziario sull’economia, che soffrirebbe di un problema essenzialmente giudiziario sino al punto da auspicare, da parte di alcuni, l’abolizione di diversi enti, autorità e corti giudiziarie perché fonti di burocratizzazione e di perdita di competitività[1]. All’ analisi della stampa si affianca quella di una magistratura attenta all’incidenza dell’attività giudiziaria sulla programmazione di impresa[2], che privilegia i dati all’ideologia nel misurare il citato rapporto di incidenza (pag. 6 della Relazione in note): <<In altri settori la misurazione è assai più difficile. Si pensi al campo delle conseguenze economiche della criminalità, dove il peso della ideologia rischia di falsare le valutazioni>>. Si richiede prevedibilità della decisione e costo legale accessibile al fine di evitare una visione internazionale del Paese disincentivante per gli investimenti[3]. Visione particolarmente rilevante perché gli indici di produzione sono alimentati anche da percezioni come gli indicatori di fiducia degli imprenditori e dei consumatori, e, quando si legge che in Italia l’economia è diventato un problema giudiziario o che gli imprenditori “scappano dal Paese” in ragione dell’invasività del potere di intervento (amministrativo e giudiziario) sulle imprese, abbiamo l’obbligo di indagare siffatte affermazioni e percezioni. L’analisi, pertanto – sul piano della comunicazione – non può prescindere da alcune dichiarazioni della magistratura inquirente circolate dopo l’approvazione del cosiddetto decreto legge liquidità n. 23 dell’8 aprile 2020, fautrice della necessità di un tracciamento circa le modalità di investimento del danaro che le banche dovrebbero prestare agli imprenditori con le note garanzie statali. Denaro in prestito e non a fondo perduto, di proprietà dell’imprenditore o della società, funzionale agli scopi sociali. Alle preoccupazioni dei Procuratori di Napoli e Roma[4] sono seguite quelle di alcuni Consiglieri del CSM. Non è mancato l’intervento dell’europarlamentare ed ex Procuratore, Franco Roberti[5], che – preoccupato di un vero e proprio assalto alla diligenza da parte della criminalità – ha auspicato indagini preliminari (di natura amministrativa) prima dell’erogazione del finanziamento e un coordinamento tra il sistema bancario e la banca dati della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo per dazioni oltre un certo limite. Non abbiamo rinvenuto opinioni sul punto da parte della magistratura giudicante, sebbene sia essa ad essere deputata all’attività di ius dicere e ad avere la conoscenza delle dinamiche economiche sterilizzate dalla visione di parte. Bisogna precisare che le preoccupazioni della magistratura oltre che legittime e verosimili sono fondate su assoluta buona fede perché espressioni di una sincera consapevolezza culturale circa la validità dei controlli amministrativi e giudiziari per l’impresa sana. C’è da dire che anche <<Eichmann non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale Kantiana>> come ha recentemente scritto Giorgio Agamben nel riflettere sulla relazione tra democrazia ed emergenza COVID.  È una legittima visione della società e dell’economia, anche se in questa sede il parametro di valutazione delle idee non si limita alla loro astratta legittimità ma alla correlazione tra iniziativa economica e fini sociali in una scala di valori che dovrebbe essere tenuta distante da una retrospettiva di fondo definibile come “cultura interventista”, secondo la quale, i rapporti patologici nascenti dalle relazioni commerciali e finanziarie devono essere oggetto di prevenzione anche a discapito degli imprenditori che non incorreranno in alcuna censura diversa dal rischio di impresa e che dovranno sopportare il costo di una tale invadenza (costo di legalità) in nome di principi superiori[6].

2.1 – Gli interventi interpretativi sull’economia “privata”.

L’emergenza sanitaria ha avuto il merito di evidenziare alcune propensioni istituzionali ed ha rappresentato lo spunto per chiederci sia in che termini la citata cultura ha permeato le scelte del legislatore, sia come vengono interpretate e applicate tali opzioni normo-economiche. Alcune recenti sentenze (Corte Cost. n. 4/2018 e n. 57/2020) sono da stimolo per riflessioni che vanno condotte in modo laico nel tentativo comune di individuare un punto di equilibrio tra giustizia ed economia che consenta alla prima di essere un valido strumento di promozione della seconda nell’alveo dei fini sociali di cui all’art. 41 della Costituzione.

2.2. La sentenza della Corte Costituzionale nr. 57 del 14.01.2020 pub.ta il 01.04.2020, Pres. Cartabia – Rel. Coraggio.

Sintomatica di un rinvigorito ed ormai esteso interventismo statale ai rapporti commerciali tra privati è la sentenza della Corte Costituzionale n. 57 del 2020, che è dovuta intervenire sul bilanciamento tra la libera iniziativa economica e l’ordine pubblico economico. La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (codice antimafia), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo – sezione imprese. Il giudice palermitano ha dubitato della legittimità costituzionale delle norme censurate in ragione dell’ampliamento degli effetti della informazione antimafia interdittiva agli atti elencati nell’art. 67, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011, tradizionalmente incisi dalla comunicazione antimafia interdittiva e, in particolare, a quelli funzionali all’esercizio di una <<attività imprenditoriale puramente privatistica>>, così privando un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, e ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo.

Il caso concreto riguarda un’impresa artigiana (ditta individuale) che ha impugnato il provvedimento di cancellazione dall’albo delle imprese adottato dalla Commissione provinciale per l’artigianato, dopo che il ricorso gerarchico proposto in via amministrativa è rimasto inevaso per la mancata costituzione della Commissione regionale. Il rimettente ha precisato, quindi, di non essere stato chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti della informazione antimafia interdittiva, che è devoluta alla giurisdizione amministrativa, ma a sindacarne le conseguenze, e cioè se tale misura integri o meno il presupposto per la cancellazione dall’albo delle imprese artigiane. Il provvedimento di cancellazione richiamava gli artt. 67 e 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, ed era fondato sulla nota della Prefettura di Palermo con la quale veniva comunicata, ai sensi dell’art. 91, comma 7-bis, del d.lgs. n. 159 del 2011, l’adozione, nei confronti della suddetta impresa artigiana, di informazione antimafia interdittiva. Il giudice di Palermo si è posto il quesito di come tutelare gli interessi costituzionali in gioco: da un lato il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale nel settore privato e dall’altro gli interessi (di natura valoriale) dello Stato alla sicurezza, libertà e dignità della persona da tenere indenni dall’infiltrazione mafiosa nell’economia. I dubbi di tenuta costituzionale della norma sono stati sollevati anche in relazione all’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza in presenza di una misura di prevenzione applicata con un provvedimento di natura amministrativa che incide sull’esercizio dell’iniziativa economica, in assenza del contraddittorio garantito dal contenitore processuale previsto dall’applicazione delle misure di prevenzione in sede giudiziaria. Il Tribunale palermitano si è mostrato particolarmente sensibile dinanzi al rapporto tra l’imprenditore/artigiano e l’Autorità di pubblica sicurezza impersonata dal Prefetto, il quale, a determinate condizioni, che saranno solo accennate, può emettere un’interdittiva antimafia, inaudita altera parte, che incide sull’esistenza dell’impresa stessa (cancellazione dall’albo) senza che l’imprenditore possa, nella fase amministrativa, compartecipare al procedimento nel contraddittorio con la pubblica amministrazione. Costrutto che al giudice rimettente appariva irragionevole perché non è prevista alcuna difesa al cospetto di un provvedimento così incisivo per la vita dell’impresa artigiana con una portata – aggiungiamo – particolarmente afflittiva per la sua stessa esistenza. Il giudice a quo ha sostenuto che fosse irragionevole ricomprendere nella sfera d’incidenza dell’inibitoria, <<ma soprattutto nella sfera della decadenza, tutti i provvedimenti previsti dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, senza escludere quelli che sono il presupposto dell’esercizio dell’attività imprenditoriale privata>> che non comporti alcun rapporto con la pubblica amministrazione e nessun impatto su beni e interessi pubblici. Assume il rimettente che travolgere, per effetto dell’informazione antimafia interdittiva, anche i provvedimenti che sono esclusivamente funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, significa espungere un soggetto dal circuito dell’economia legale privandolo in radice del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica e ponendolo in tutto e per tutto nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione definitiva adottata in sede giurisdizionale, anzi in una situazione deteriore ove si consideri il contenuto derogatorio dell’art. 67, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011. Non è mancata una espressa critica alla tecnica legislativa contenuta nel libro II del Codice Antimafia recante nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia (artt. 82 e ss.) e, più in particolare, alla portata dell’art. 89 bis codice antimafia (introdotto con il d.lgs. n. 153/14), nonchè ai numerosi, reciproci rinvii delle norme coinvolte, che a nostro parere non favoriscono l’accessibilità alla fattispecie in una materia, come quella della prevenzione, in cui la tipizzazione delle categorie dei destinatari delle misure è stata “delegata” alla giurisprudenza. In sintesi, il Tribunale delle imprese riteneva che le norme censurate meritassero una verifica costituzionale sul piano della libera iniziativa economica nel settore privato e su quello delle garanzie processuali e standards probatori sotto il profilo della ragionevolezza rapportata alla disciplina delle misure di prevenzione giurisdizionalizzate.

2.3. Il precedente della Corte Costituzionale (sentenza nr. 4 del 18.01.2018).

I dubbi di costituzionalità si ponevano in continuità con la questione di legittimità costituzionale decisa dalla Corte con la sentenza n. 4 del 2018 in cui il medesimo art. 89 bis Codice Antimafia è stato setacciato in relazione agli artt. 76, 77 e 3 della Costituzione nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa. Per ragioni di brevità il caso deciso nel 2018 può essere così riassunto: il Tribunale Regionale Amministrativo di Catania riteneva che l’introduzione dell’art. 89 bis Codice Antimafia, inserito dal decreto legislativo 153 del 2014, avesse realizzato un eccesso di delega nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa. Il fatto riguardava un imprenditore di prodotti relativi al «I^ Settore Alimentare prodotti freschi e congelati, ittici e non» che aveva partecipato al bando per l’erogazione di un finanziamento dell’assessorato regionale dell’agricoltura.  A seguito di rituali informazioni, ai sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 159 del 2011, da parte dell’Amministrazione procedente, la Prefettura di Messina aveva adottato l’informazione antimafia interdittiva non impugnata, e aveva rilevato la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, dando atto che il coniuge del legale rappresentante della società era stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e che alcuni procedimenti di natura patrimoniale si erano conclusi con provvedimenti di sequestro e confisca di beni riconducibili al gruppo imprenditoriale in questione. In disparte le sociologiche osservazioni sul posizionamento che un indagato, condannato o attinto da misura di prevenzione deve avere in una Repubblica fondata sul lavoro come espressione della dignità umana, il TAR di Catania è stato investito dell’impugnazione dell’ordinanza con la quale il Comune di Messina aveva revocato la S.C.I.A. autorizzatoria al commercio di prodotti ittici. Il giudice amministrativo, già prima del Tribunale di Palermo, aveva espresso dubbi di ragionevolezza sull’estensione degli effetti dell’interdittiva antimafia, emessa nell’ambito di un procedimento teso ad ottenere un contributo pubblico, anche su autorizzazioni nel settore privato; si attribuiva rilievo al tentativo di infiltrazione mafiosa, non in ragione dell’importanza del provvedimento autorizzatorio o del contratto, ma per ragioni contingenti come una informativa interdittiva emessa nel diverso procedimento inerente alla richiesta di un contributo pubblico. Si estendono, ai sensi dell’art. 89 bis Codice Antimafia, al regime delle autorizzazioni previste dall’art. 67 codice antimafia gli effetti dell’interdittiva laddove le predette autorizzazioni sono disciplinate dai diversi presupposti della comunicazione antimafia. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 4 del 2018 è stata investita della questione sul piano dell’eccesso di delega rispetto ai i principi e i criteri direttivi dell’art. 2 della legge delega del 13 agosto 2010, n. 136 ove secondo il giudice rimettente non sarebbe contemplata la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia, con i più severi accertamenti da essa previsti, per alcuna delle ipotesi in cui l’ordinamento aveva precedentemente previsto la richiesta e il rilascio della semplice comunicazione per ottenere autorizzazioni come quella al commercio ittico revocata dal Comune di Messina.

Le argomentazioni rassegnate sull’eccesso di delega, ritenuto insussistente, non sono oggetto di analisi del presente scritto. Si segnala, invece, come la sentenza n. 4 del 2018 abbia tenuto fuori dal parametro di compatibilità costituzionale l’art. 41 che la parte privata ha tentato di introdurre rispetto ai criteri di compatibilità invocati dal giudice a quo. La Corte ha precisato che l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega n. 136 del 2010 ha inteso allargare il campo di applicazione dell’informazione antimafia, stabilendo che la sua «immediata efficacia» potesse esplicarsi <<con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione concedendo al legislatore delegato di introdurre ipotesi in cui l’infiltrazione, alla quale corrisponde l’adozione di un’informazione antimafia, giustifichi un impedimento non alla sola attività contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011>>. Pertanto la legge delega legittimerebbe l’estensione degli effetti dell’interdittiva antimafia operata dal legislatore del 2014 oltre i rapporti con la pubblica amministrazione che il Prefetto sorveglia in termini di tentativo di infiltrazione mafiosa. Il Giudice delle leggi tuttavia precisava anche che <<spetta alla giurisprudenza comune, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia>>. Il giudizio deciso dal TAR catanese non ha coinvolto il merito dell’approdo ermeneutico dell’art. 89 bis codice antimafia in termini diversi dalla copertura della legge delega sull’effetto estensivo dell’interdittiva alle ipotesi autorizzatorie. La sentenza n. 4/2018 non si è occupata della citata conseguenza sull’imprenditoria privata in ragione della espressa esclusione del parametro costituzionale di cui all’art. 41 della Costituzione. Pur tuttavia, delegare alla giurisprudenza in sede di interpretazione i casi e le condizioni ai quali il legislatore abbia inteso parificare gli effetti dell’interdittiva antimafia a quelli della comunicazione, a noi è apparso come un invito alla distinzione tra i due istituti al fine di evitare una indifferenziata equazione che conduce all’invasione indiscriminata dello standard probatorio del Prefetto (<<pericolo di eventuale tentativo di infiltrazione mafiosa>>) nel campo della libera iniziativa economica privata. Con la conseguenza che a Palermo è stata cancellata un’impresa artigiana e a Catania è stata revocata una s.c.i.a. al commercio ittico senza che venissero in rilievo rapporti forti (contratti e appalti) o deboli (forniture sotto soglia) con la pubblica amministrazione.

2.4. La ratio, il modello processuale e i costi di legalità dell’interdittiva antimafia.

Nel solco tracciato dalla sentenza n. 4 del 2018, il Tribunale delle imprese di Palermo ha sollevato il quesito della legittimità del sistema anche sotto il profilo della compatibilità costituzionale dell’art. 89 bis Codice Antimafia con l’art. 41 della Costituzione. La Corte è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi con la sentenza n. 57 del 2020 in termini che involgono il più ampio rapporto tra Stato ed economia privata. E dinanzi ai nuovi dubbi di costituzionalità, ha risposto con una sentenza che ci impone alcune analisi sul piano del bilanciamento dei diritti e dei valori coinvolti, ove l’equilibrio, lo affermiamo sin d’ora, sembra sbilanciato a favore della cultura dell’interventismo amministrativo e a discapito di una visione liberale dell’economia. Tra le motivazioni a sostegno del rigetto della questione di costituzionalità, la Corte richiama sia l’impugnabilità dell’interdittiva antimafia dinanzi al competente giudice amministrativo con possibilità, in tempi brevi, di sospensione cautelare del provvedimento, sia la temporaneità della misura preventiva, della durata di un anno. Prima di entrare nel merito della gerarchia dei valori coinvolti nella vicenda, ci appare doveroso evidenziare come le modalità di composizione degli interessi in gioco (iniziativa economica privata da un lato e sicurezza dell’ordine economico dall’altro a tutela della sicurezza, libertà e dignità umana) siano state costruite con una visione giuridico-formale delle norme, ove con la locuzione <<giuridico-formale>> non si intende incrementare il novero dei criteri di bilanciamento che la dottrina costituzionalista ha individuato, ma si pone l’accento sugli effetti empirici che il bilanciamento produce nei rapporti tra uno Stato liberale e la sua economia. L’efficacia limitata nel tempo dell’interdittiva e l’impugnabilità della stessa sono due oggettivi parametri di incidenza sul giudizio di bilanciamento, ma è la loro collocazione sistematico-temporale nella struttura dell’interdittiva antimafia che andava valutata per giungere ad una composizione nella scala dei valori costituzionali coinvolti. L’accesso alla giustizia amministrativa, in una visione dell’economia con fini sociali e attenta anche alla produttività, dovrebbe costituire una extrema ratio – per utilizzare l’espressione simmetrica della libertà personale – perché essa incide sui costi materiali e immateriali dell’impresa e, in ultimo, sul cosiddetto costo di legalità. Quando diritti e valori oggetto della verifica costituzionale coinvolgono la libera e privata iniziativa economica ex art. 41 della Costituzione (diritto) da esercitarsi senza contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (valori), il bilanciamento degli interessi dovrebbe avvenire con il minor sacrificio possibile a carico di entrambe le parti: lo Stato e l’imprenditore. Un tale obiettivo poteva essere conseguito con la soluzione che il giudice palermitano privilegiava, in particolare, quando non sono in gioco risorse pubbliche, che vede l’imprenditore nella condizione giuridico/economica di poter interloquire, ex ante, con l’Autorità giudiziaria già in sede di proposta di un provvedimento di decadenza dall’attività produttiva <<privata>>. La costruzione processuale prospettata dal Tribunale di Palermo aveva il pregio di un maggior equilibrio degli interessi coinvolti e contribuiva a razionalizzare un sistema di relazioni tra giudice penale, giudice amministrativo e prefetture che presenta una <<polverizzazione di competenze che genera difficoltà operative per gli stessi giudici dei due rami dell’ordinamento ed introduce ostacoli all’effettivo esercizio del diritto di difesa del destinatario di questi provvedimenti costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost[7]>>. L’introduzione anticipata al contraddittorio e alla difesa dinanzi all’autorità giudiziaria non avrebbe arrecato alcun pregiudizio allo Stato rispetto all’accesso postumo dinanzi al Tribunale amministrativo, a cancellazione avvenuta. Il giudice, auspichiamo, della prevenzione, garantirebbe comunque la tutela dell’ordine pubblico economico dalle infiltrazioni mafiose; ordine economico che non verrebbe inciso quantitativamente e qualitativamente dall’accesso ad un contraddittorio anticipato. Per contro, il destinatario/imprenditore della proposta di cancellazione (o che decade da un scia autorizzatoria), oltre ad avere accesso alle garanzie del contenitore processuale tipico del procedimento di prevenzione potrebbe vedersi accolte le proprie difese rispetto a  provvedimenti di cancellazione o revoca che producono un costo di legalità intrinseco in ragione dell’immediatezza dell’efficacia del provvedimento amministrativo presupposto (l’interdittiva antimafia sia pure suscettibile di sospensione). La differenza tra un atto con efficacia immediata da impugnare, ex post, dinanzi al TAR o al Tribunale delle imprese e un provvedimento giudiziario che interviene con le garanzie e lo standard probatorio del procedimento di prevenzione (fin troppo informali ed agili) è evidente. Nel modello invocato dal Tribunale di Palermo il costo di legalità – con componenti anche di natura psicologica e di programmazione aziendale – si ridurrebbe, e soprattutto verrebbe favorito un rapporto tra Stato e imprenditore privo di eccessi anticipatori, in cui l’interesse all’ordine pubblico economico non cederebbe di un millimetro perché il giudice della prevenzione costituirebbe il presidio a sua tutela. A noi pare che l’irragionevolezza prospettata dal Tribunale di Palermo sia condivisibile, e in particolare, che il sistema di tutele auspicato nell’ordinanza di rimessione avrebbe garantito in modo più equilibrato l’interesse delle parti senza spostare il baricentro dei valori costituzionali sottostanti. Tali conclusioni non sembrano possano essere scalfite dall’argomentazione, pur contenuta nella sentenza della Corte, che vede il Prefetto titolare di un potere discrezionale da esercitare con motivazione accurata. E’ lo stesso Giudice delle leggi che evidenzia come la natura stessa dell’informazione antimafia <<risulti fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari>>. In particolare viene invocata quella giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 30 gennaio 2019, n. 758 e 3 aprile 2019, n. 2211), che vede nell’interdittiva una valutazione tecnico-discrezionale fondata su elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: quali i cosiddetti delitti spia), <<altri, a condotta libera, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa>> che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata (citato art. 91, comma 6). La Corte, dopo aver rimarcato la natura preventiva dell’informazione antimafia interdittiva rispetto agli interessi di ordine economico, non manca di evidenziare che anche in presenza degli elementi non tipizzati dal legislatore non viene violato il <<principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa>>. Argomento tautologico, anche intrinsecamente contraddittorio! Gli elementi non tipizzati dal legislatore lasciati al prudente apprezzamento del Prefetto sembrano introdurre un’evidente violazione del principio di legalità sostanziale nei rapporti tra soggetti e pubblica amministrazione (di polizia). Per argomentare l’asserita osservanza del principio di legalità la Corte valorizza la <<componente fortemente tecnica>> delle valutazioni discrezionali del Prefetto, suscettibili di vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo. Ribadita la discutibilità logica di circoscrivere una discrezionalità fortemente tecnica su elementi non tipizzati della fattispecie astratta, la Corte evidenzia anche che l’impegno della giustizia amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, 3 maggio 2016, n. 1743, come ricorda la sentenza della terza sezione, 5 settembre 2019, n. 6105) sul piano dell’esame della coerenza e della consistenza degli elementi raccolti dal Prefetto ha condotto ad un <<nucleo consolidato di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale>>. Viene replicata la legittimità costituzionale della funzione tassativizzante della fattispecie amministrativa attraverso l’attività interpretativa del Consiglio di Stato; approccio tassativizzante ribadito dalla Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. I, n. 349, dep.ta il 9.1.2018) quando ha difeso la qualità della legislazione di prevenzione italiana dinanzi alle censure di indeterminatezza contenute nella sentenza della Corte Edu, Grande Camera, sent. 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia. La Suprema Corte ha distinto la cattiva qualità della legge dalla cattiva applicazione che ne fanno i giudici di merito, consapevole evidentemente delle decisioni, non sempre tipizzate, della giurisprudenza dei Tribunali della prevenzione sulla base della descrizione delle categorie criminologiche di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 1 e 4. Una legislazione, quella di prevenzione, che, bisognevole di reiterate e continue interpretazioni tassativizzanti, si presta – secondo sillogismo logico – ad interpretazioni maggiormente discrezionali e certamente meno controllabili rispetto alla norma incriminatrice di diritto penale. Lo schema della funzione tassativizzante è stato importato dal Consiglio di Stato e ora avallato dalla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 57/2020, richiama espressamente quella <<giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 24 del 2019) che, anche se relativa a fattispecie diversa, ha valorizzato l’apporto fornito da una giurisprudenza costante e uniforme, al fine di delimitare l’applicazione di disposizioni legislative incidenti su diritti costituzionalmente protetti, pure caratterizzate da una certa genericità>>.

Il principio di legalità sostanziale dell’azione amministrativa viene dichiarato salvo in nome della giurisprudenza tassativizzante, variabile genetico-ermeneutica in via di espansione!

A noi, invece, sembra pericolosa l’estensione delle funzioni tipizzanti della fattispecie amministrativa quando l’attività di applicazione è devoluta al prudente apprezzamento del Prefetto, che, nella fluidità della fattispecie astratta, può emettere provvedimenti che incidono sulla vita di un’impresa. L’opzione a favore del Giudice risulta più confacente ai valori coinvolti. Un conto è una fattispecie <<caratterizzata da una certa genericità>> che deve essere interpretata ed applicata da un giudice con l’ausilio dell’apporto giurisprudenziale tipizzante; altro è rimettere l’interpretazione e l’applicazione della fattispecie al Prefetto, che, per formazione e cultura, non è terzo e non ha la medesima sensibilità del magistrato giudicante. Se <<cattiva>> è stata l’applicazione della legislazione di prevenzione dei giudici di merito, ancor meno rassicurante è la qualità dell’azione amministrativa nell’applicare norme che la stessa Corte Costituzionale definisce generiche. La cultura di parte dell’interventismo antimafia ha recentemente condotto il Prefetto di Lecce ad impugnare l’ordinanza del locale Tribunale di Prevenzione che aveva ammesso un’azienda alla misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario volontario per la durata di due anni, sospendendo così, ai sensi dell’art. 34 bis, comma 7, d.lgs. n. 159/2011, gli effetti del provvedimento dell’interdittiva antimafia. Come evidenziato e condiviso dalla dottrina[8], la Suprema Corte di Cassazione (Cass., Sez. I, 30 gennaio 2020, dep. 28 febbraio 2020, n. 8084, Pres. Tardio, Est. Magi, Gial Plast s.r.l) è stata ferma e chiara sia nel ricordare al Prefetto che quando si passa dinanzi all’Autorità giudiziaria i soggetti legittimati ad impugnare sono tassativamente indicati dal codice antimafia (ci sono le Procure), sia che il Prefetto non aveva alcun interesse ad impugnare perché il controllo giudiziario volontario non nega affatto la ricognizione contenuta nell’interdittiva antimafia. Probabilmente il Prefetto – preso da un impeto di tutela di beni superiori – non ha distinto tra l’interesse di parte processuale di cui si è sentito titolare e quello dello Stato, dell’imprenditore e dei lavoratori alla continuità aziendale controllata.

Possiamo ragionevolmente condividere la proposta del Tribunale di Palermo di sottrarre alla parte inquirente e alla fonte unilaterale dell’azione amministrativa, inaudita altera parte, la facoltà di emettere provvedimenti dalla immediata efficacia simmetrici rispetto alle misure di prevenzione. Né il successivo controllo giurisdizionale di una informativa interdittiva dinanzi al TAR ricompone il baricentro dei valori costituzionali interessati dalla vicenda poiché, come innanzi evidenziato, la giurisdizionalizzazione anticipata dell’interdittiva antimafia non farebbe arretrare lo Stato rispetto al pericolo di eventuali infiltrazioni mafiose sterilizzando, al contempo, il costo immediato a carico dell’impresa. La sentinella contro l’infiltrazione mafiosa sarebbe realizzata con la competenza del Tribunale di prevenzione. Rigettando le argomentazioni del Tribunale delle imprese di Palermo, la Corte Costituzionale ha scelto una strada costellata di insidie così ben celate che spesso risultano difficili da essere individuate. Proprio quella giurisprudenza tassativizzante richiamata dalla sentenza n. 24 del 2019 non è sempre così costante e uniforme come richiederebbe una funzione tipizzante. La <<denotazione fattuale>> dei traffici delittuosi che sottende la pericolosità generica per alcuni arresti giurisprudenziali (Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco) comprende non solo tutte quelle condotte delittuose caratterizzate da una tipica attività trafficante ma anche tutte quelle connotate dalla finalità patrimoniale o di profitto e che si caratterizzano per la spoliazione (quali ad esempio quelle previste dagli artt. 314, 317, 624, 643, 646, 628, 629 cod. pen.), l’approfittamento e, in genere, per l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali e civili (quali ad esempio, quelle previste dagli artt. 316-bis, 318, 640, 644 cod. pen.). Per altri orientamenti più rigorosi nel perimetrare la denotazione fattuale (Sez. 6, n. 53003 del 21/09/2017, D’Alessandro), in conformità alle esigenze di tipicità evidenziate dalla Corte Edu con la sentenza De Tommaso c. Italia, i traffici delittuosi vanno circoscritti alle sole ipotesi di commercio illecito di beni materiali (quali, esemplificativamente, stupefacenti, armi, materiale pedopornografico), immateriali (ad esempio, influenze illecite, notizie riservate, dati protetti dalla disciplina in tema di privacy), o di esseri viventi, nonché alle condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite (usura, corruzione). Viene privilegiato il significato semantico della parola traffico, inteso come “affaccendarsi”, che non può comprendere il mero delinquere con finalità di provento. Ancor meno sicuro appare il richiamo alla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 30 gennaio 2019, n. 758 e 3 aprile 2019, n. 2211) che la Corte Costituzionale utilizza per sostenere l’osservanza del principio di legalità sostanziale in ragione del suo apporto tassativizzante. A nostro avviso non è paragonabile, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, la sedimentazione giurisprudenziale sviluppatasi in seno alla Suprema Corte di Cassazione dal 2014 in poi nel tassativizzare le categorie della pericolosità sociale delle misure di prevenzione rispetto all’attuale portata della giurisprudenza del Consiglio di Stato, sviluppatasi su concetti ancor più evanescenti nei confronti del vivere abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose. Dinanzi al Prefetto, infatti, la denotazione fattuale che la Suprema Corte di Cassazione ritiene sufficientemente descritta nelle categorie della pericolosità generica e qualificata, consiste – ex art. 84, co. 3, Codice Antimafia – nel pericolo di eventuali tentativi di infiltrazione tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate. Siffatta categoria di pericolo, che sottende una misura preventiva come l’interdittiva antimafia, non si è ancora confrontata – in modo diretto – nella sede convenzionale con i criteri ermeneutici della sentenza De Tommaso. Il Consiglio di Stato – nelle sentenze innanzi citate – sostiene che <<tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa>>. L’apporto tassativizzante della giurisprudenza amministrativa sul versante della perimetrazione del fatto viene rivendicato dal Consiglio di Stato in nome del pericolo di eventuale inquinamento (pericolo del pericolo!) fondato anche su elementi a condotta libera lasciati al prudente apprezzamento dell’autorità amministrativa. Tali elementi costituirebbero (Sezione terza, sentenza 30 gennaio 2019, n. 758 – richiamata dalla Corte Cost.) la struttura della <<ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale deve affidarsi anche, e necessariamente, a “clausole generali”, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali>>.

Sulla base di tali premesse ermeneutiche appare ragionevole sostenere che la denotazione fattuale del fenomeno (fattispecie concreta), essendo in parte sconosciuta persino al legislatore, sia parzialmente assente nella struttura dell’interdittiva antimafia. Sorgono quesiti di tipicità e di accessibilità alla norma oltre che di orientamento dei comportamenti per non incorrere nella scure del Prefetto che incide sulla vita dell’impresa. Né vale obiettare che l’informazione antimafia interdittiva sia un qualcosa di diverso dalle misure di prevenzione giurisdizionalizzate; essa è una misura preventiva che incide su libertà e diritti costituzionalmente garantiti. Traslando i criteri Engels sul piano della prevenzione, l’interdittiva antimafia ha il medesimo carico afflittivo (in chiave preventiva direbbe la Suprema Corte di Cassazione) delle misure di prevenzione personali e patrimoniali. E di tanto si è mostrato consapevole il Tribunale delle imprese di Palermo. La possibilità di orientare i propri comportamenti senza incorrere nella incisiva misura preventiva va garantita ex ante e non solo in seconda battuta dinanzi al TAR con il procedimento di sospensione cautelare. Anche nel processo giurisdizionale amministrativo, la dichiarata carenza di denotazione fattuale, a nostro parere, non salverebbe la norma in termini di compatibilità convenzionale secondo i canoni della Corte Edu. La Corte Costituzionale con la sentenza n 57/2020 condivide l’opzione del Consiglio di Stato che attribuisce alla legislazione antimafia un preciso scopo (di valore): <<…può e deve prevenire anche l’insidia della contiguità compiacente accanto a quella c.d. soggiacente e, con essa, le condotte, ambigue, di quegli operatori economici che, pur estranei ad associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, se è vero che simili condotte non solo sono un pericolo non solo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel «fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona» (v., per tutte, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258)>>.

E ancora è dato leggere che <<se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia, esso davvero riposa nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale – e non a caso – opera come limite all’attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma secondo, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o – secondo un climax assiologico di tipo ascendente – in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana>>. L’interdittiva antimafia svolge una funzione di tutela della dignità della persona, valore primario nella scala dei valori anche rispetto all’iniziativa economica privata, e trae la propria ragion d’essere nell’orientamento dell’utilità sociale in modo da tutelare la sicurezza, la libertà e la dignità umana.

3 – Criteri di bilanciamento dei valori costituzionali.

La Corte Costituzionale è chiamata a comporre conflitti tra diritti e principi selezionando criteri di bilanciamento che producono empiricamente una scala di valori. Con la sentenza n. 85 del 2013 (caso Ilva) ha precisato che non vi sono diritti assoluti nel pluralismo dei valori costituzionali optando per una tutela <<sistematica e dinamica>> che tenga conto di tutti gli interessi antagonisti: il punto di equilibrio tra di essi non risulta essere prefissato in anticipo. Nelle sentenze n. 264/2012 e n. 63/2016 (richiamate nella più recente sentenza sul caso Ilva, n. 58/2018), è sancito che <<il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuni di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati dall’art. 41 della Cost., laddove prevede che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con la libertà, la dignità umana e la sicurezza, in quanto è tenuta al rispetto della clausola dell’utilità sociale>>.

La molteplicità e la variabilità delle relazioni sociali hanno introdotto una <<gerarchia mobile>> dei valori, che tenga conto del modificarsi dell’opinione pubblica e del costume sociale, facendo, in generale, riferimento a un ordine variabile tra valori fondamentali in ragione del caso concreto tanto da ritenere che si è passati da criteri di bilanciamento prescrittivi a quelli descrittivi ove i parametri costituzionali e/o legali si adattano al caso[9].

Come è stato scritto da una parte della dottrina,[10] l’obbligo positivo di protezione di beni fondamentali troverebbe legittimazione sul riconoscimento dei diritti fondamentali nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che già con l’art. 1, obbliga gli Stati alla protezione in positivo di tali diritti (e non solo in negativo contro gli abusi dell’autorità). È stato condivisibilmente osservato[11] che un tale approccio può finire per essere autoreferenziale e giustificare qualunque limitazione dei diritti fondamentali al fine di proteggere i beni fondamentali dei cittadini. Nell’ambito della mobilità dei valori e della necessaria mobilità dei criteri di bilanciamento, è lo stesso Giudice delle Leggi ad aver precisato che i parametri della ragionevolezza e della proporzionalità debbano essere utilizzati nel comporre i criteri di bilanciamento utilizzati in concreto, in modo da evitare la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti con totale o incisiva soccombenza del valore sacrificato.

Con la sentenza n. 57 del 2020 la Corte ha costruito un criterio di bilanciamento <<di scopo>> che attribuisce alla legislazione antimafia, e nel caso concreto, all’informativa antimafia, la funzione di tutela della dignità della persona. Dinanzi a tali conclusioni, il punto critico che sembra risolto in modo squilibrato è costituito dalle modalità esplicative (ragionevolezza) del criterio selezionato e dalle argomentazioni sugli effetti (proporzionalità) che il criterio produce sui valori coinvolti. In sentenza abbiamo rinvenuto un criterio di bilanciamento degli interessi che sin dal punto 3 rinvia alle legittime preoccupazioni dell’infiltrazione mafiosa, della tutela della concorrenza, della funzione sociale della proprietà e della libera iniziativa economica. In particolare, per argomentare il criterio di bilanciamento incidente sul diritto di iniziativa economica privata, la Corte Costituzionale ha richiamato la relazione della Commissione Parlamentare del 7 febbraio 2018 e più dettagliatamente il paragrafo 2,  intitolato <<L’evoluzione del metodo mafioso tra intimidazione, corruzione e area grigia>>, citando testualmente la pag. 22: <<In generale, si tratta dei settori connotati da elevato numero di piccole imprese, basso sviluppo tecnologico, lavoro non qualificato e basso livello di sindacalizzazione, dove il ricorso a pratiche non propriamente conformi con la legalità formale diviene prassi diffusa>>. Trattasi di una Commissione politica autrice di una relazione istituzionale di “genesi politica” che nelle 502 pagine di cui si compone riporta, in indice, il paragrafo 3.5.1. denominato <<Mafia Capitale>>, descrivendone la struttura e gli scopi, attingendo dalle ordinanze di custodia cautelare. E invece, sapendo com’è stato definito il fatto mafioso contestato, ci si chiede se una siffatta fonte possa informare i criteri di bilanciamento. Sulle imprese private la Commissione esprime un analogo giudizio di valore evidenziando – in sintesi – che la mafia opera anche nei rapporti commerciali privati investendo capitali illeciti e alterando la concorrenza. E sono tali valutazioni di merito che sono state richiamate per costruire il criterio di bilanciamento degli interessi coinvolti, rispetto alle quali, il parametro di ragionevolezza risulta non misurabile perché solitamente fondato sull’id quod plerumque accidit, formula che rinvia alla regolarità empirica di accadimenti naturalistici. E ancora, tra le premesse che la Corte Costituzionale cita nel descrivere l’interesse ad un ordine pubblico economico sterilizzato dall’infiltrazione mafiosa, si rinviene la relazione sull’attività della Giustizia amministrativa del Presidente del Consiglio di Stato per l’anno giudiziario 2020, che, nella parte inerente alla legislazione antimafia si sofferma sugli interessi superiori dell’ordine pubblico economico, enunciando condivisibili e irriducibili valori assoluti, naturalmente non comparati col diritto alla libera iniziativa privata del caso concreto. Non si rinvengono, nella sentenza della Corte Costituzionale, iter argomentativi sui sacrificati diritti di accedere in modo chiaro alle norme amministrative, sul diritto di difesa e al contraddittorio, sul diritto alla libertà di impresa come estrinsecazione della dignità della persona attraverso il diritto al lavoro. Possiamo affermare che ad un’analisi sui valori dell’antimafia indubbiamente funzionali alla promozione della dignità della persona, desunti dalle citate fonti, non è seguita l’analisi sui sacrifici che l’elevazione dell’interdittiva antimafia a strumento di promozione della dignità umana arrecava ai menzionati diritti e valori. Se si scelgono criteri di bilanciamento mobili e descrittivi dei casi, sul piano della proporzionalità del criterio, andavano argomentate le ragioni per le quali la tutela della dignità della persona non potesse passare per il Giudice della prevenzione e quelle per le quali la cancellazione della ditta artigiana possa considerarsi un effetto collaterale proporzionato nella gerarchia tra libera iniziativa economica e tutela della dignità della persona. Invero la Corte sulle conseguenze della cancellazione dell’impresa si è pronunciata, in modo dogmatico ribadendo la distanza dal mondo economico, caratterizzante il rapporto tra Stato e percezione dello stesso da parte di coloro che parlano di <<problema giudiziario dell’economia>>.

Difatti l’altro argomento selezionato per rigettare la questione di legittimità costituzionale è la temporaneità dell’efficacia dell’interdittiva. È indubbio come l’efficacia limitata nel tempo del provvedimento amministrativo sia un elemento che rileva nella valutazione del bilanciamento degli interessi coinvolti. Ma anche in questo caso le ragioni a sostegno del criterio di componimento dei valori seguito dalla Corte, sbilanciano il punto di equilibrio fortemente in favore dell’interesse dello Stato all’ordine pubblico economico.

L’interdittiva antimafia ha la validità di un anno e pertanto l’impresa artigiana, per l’effetto indiretto che la misura stessa produce sulle autorizzazioni ex art. 67 codice antimafia, sarebbe cancellata (solo) un anno, e tanto varrebbe a controbilanciare (unitamente al diritto ad impugnare) il diritto alla libertà di impresa. Con franchezza, crediamo che per stabilire il punto di equilibrio dei valori coinvolti non sia stato seguito il professato (nella sentenza Ilva del 2013) parametro di ragionevolezza. E’ altamente irragionevole ritenere che l’efficacia temporanea dell’interdittiva sia un criterio proporzionato rispetto ai valori coinvolti, perché secondo un giudizio di alta credibilità razionale, un’impresa cancellata dal mercato di riferimento per un solo anno è un’impresa morta. L’effetto indiretto dell’interdittiva è tombale e permanente, e il criterio della temporaneità non andava utilizzato per ricostruire il bilanciamento nell’ambito della scala mobile dei valori coinvolti, non indifferente agli effetti empirici.

Il diritto costituzionale della iniziativa economica privata è stato sacrificato (anche sul piano delle garanzie processuali) in modo irragionevole e sproporzionato rispetto ai valori che l’interdittiva antimafia sottende, contribuendo il criterio di bilanciamento selezionato a legittimare una ulteriore invasione dello Stato nell’economia. Un’occasione perduta, dal momento che poteva essere seguita un’opzione interpretativa che avrebbe tutelato in modo più equilibrato gli interessi in gioco. Di tanto si sono dimostrati consapevoli e sensibili il TAR di Catania e il Tribunale di Palermo che vivono sul territorio e sulla propria pelle giudiziaria gli effetti dirompenti e demolitivi dell’invasione dell’interdittiva antimafia sull’economia privata di bottega.

11.05.20

* Avvocato del Foro di Napoli, componente dell’Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione UCPI

[1] Il Riformista: “Burocrazia e magistratura bloccano l’Italia: i 10 freni a mano da far sparire”P. SANSONETTI — 5 Aprile 2020

[2] VI^ Conferenza dei Presidenti delle Corti di appello dell’Unione europea in Roma 25 settembre 2019 “Efficienza della giustizia e competitività del Paese”; relazione di G. SALVI – Procuratore Generale presso la Corte Appello di Roma.

[3] F. VIGANÒ, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Diritto Penale Contemporaneo del 19 dicembre 2016.

[4] Intervento di Francesco GRECO (Procuratore della Repubblica di Milano) e Giovanni MELILLO (Procuratore della Repubblica di Napoli), apparso su “La Repubblica” il 10 aprile 2020: “… ci si riferisce alla necessaria tracciabilità degli impieghi ed alla loro finalizzazione a sostenere i livelli occupazionali e le spese correnti che renderebbe altresì necessario un obbligo di rendicontazione da parte dell’amministratore ed un analogo dovere di verifica degli organi di controllo interni, con conseguente segnalazione immediata alla banca finanziatrice e all’autorità giudiziaria dell’inadempimento degli obblighi assunti all’atto del finanziamento…”.

[5] Su “Il Mattino” del 30 aprile 2020.

[6] Il modulo che prevede l’indebitamento garantito è costituito di 25 pagine con obbligo di indicare le diverse modalità di investimento e con esclusine di determinate categorie di imprenditori regolarmente autorizzati a produrre beni e servizi in Italia (produttori di armi e settore gioco).

[7] G. AMARELLI “Interdittive antimafia e controllo giudiziario volontario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture”?  in Sistema Penale del 10.04.2020.

 

[8] G. AMARELLI “Interdittive antimafia e controllo giudiziario volontario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture?” in Sistema Penale del 10.04.2020.

[9] a. giurickovic dato in Federalismi.it del 19 giugno 2019.

[10] V. Valentini, in Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano 2012; Viganò, La neutralizzazione del delinquente pericoloso nell’ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen.; A. MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale fra dogmatica e politica criminale (Padova, Cedam – 2001)

[11] A. MAUGERI e P. de ALBUQUERQUE in Sistema Penale del 29.11.2019.