A DELFINO SIRACUSANO. LETTERA DI UN PROCESSUALISTA CON GLI OCCHI UMIDI – DI ENNIO AMODIO
AMODIO – A Delfino Siracusano. Lettera di un processualista con gli occhi umidi.pdf
di Ennio Amodio
Carissimo Delfino,
dicono che non sei più tra noi, ma io credo che sia solo uno dei tuoi misteriosi silenzi con i quali, in una arringa o nella relazione ad un convegno, sapevi tenere con il fiato sospeso un intero uditorio. Ci sentivamo tutti come presi da un incanto. Nell’itinerario del tuo argomentare si aprivano lunghe pause che sfociavano poi in concetti di straordinario nitore. Ed ora io ti penso di nuovo avvolto in una di quelle parentesi. No, non è un distacco definitivo. Presto la tua voce e la tua figura, per dirla con un bellissimo verso di Eugenio Montale, «si accamperanno di gitto», cioè balzeranno davanti ai nostri occhi, per restituirci la grandezza del tuo pensiero, con la umanità sorridente del tuo viso.
Lascia che la mia affettuosa devozione si incammini sul sentiero dei ricordi. Ho imparato a conoscerti da giovane assistente universitario leggendo i tuoi scritti sulla motivazione della sentenza penale e sulla corte di cassazione. Ma ancor di più ho apprezzato, frequentandoti, la tua affabile benevolenza verso chi si rivolgeva a te per un consiglio o un orientamento per la ricerca su un tema della nostra procedura penale. Non sei mai stato un austero dispensatore di cultura giuridica, come Giovanni Conso, né un irraggiungibile pensatore rinchiuso in una mitica roccaforte, come Franco Cordero. Sei sempre stato in mezzo a noi e ci hai fatto capire che nel processo penale, al di là delle fattispecie e della rete inestricabile delle norme, c’è un uomo in carne ed ossa che si chiama imputato. La finezza delle tue costruzioni scientifiche non era frutto di un lavoro condotto in camice bianco in un laboratorio universitario, ma veniva fuori dalla esperienza acquisita sul campo nelle difese svolte nella quotidianità del tuo lavoro di avvocato.
Proprio per questo, penso che nell’album di famiglia dei processualpenalisti la tua immagine debba stare accanto a quella del mio maestro, Gian Domenico Pisapia. Vi stimavate e vi volevate bene, tanto che fu proprio Gian Domenico a volerti accanto a sé come vicepresidente della Commissione ministeriale che ha elaborato il Progetto del nuovo codice di procedura penale nel 1988. Avevate lo stesso DNA: grande tempra del giurista che ama studiare le patologie della giustizia penale per aiutare a sanarle: grande passione di avvocato, nella consapevolezza che la milizia del vestire la toga mira a prevenire abusi e prevaricazioni.
Il tuo entusiasmo nel vivere a fondo la vita universitaria e quella professionale traspariva fin dai primi approcci alla tua personalità. Si intuiva subito la tensione verso la conoscenza dei gangli vitali del processo penale come ricerca delle deviazioni nel rito da scoprire e da estirpare. Così come la gioia di donare agli allievi e alla comunità scientifica e a quella giudiziaria i risultati conoscitivi, intesi come arricchimento per il progredire delle istituzioni giudiziarie.
Ci hai insegnato che la prova è un fragile e ingannevole strumento se non viene filtrata e corroborata dall’esperienza diretta di chi la ha osservata a lungo nel suo articolarsi in udienza davanti al giudice. Così pure, nel tuo fondamentale lavoro sulla prova delle esimenti (1959), ci hai rivolto l’invito ad abbattere le paratie stagne tra diritto sostanziale e processo. Questo messaggio culturale comincia a dare i suoi frutti solo ora, dopo tanti anni di rivendicazione della necessità della separatezza tra i due ambiti scientifici.
È quindi persino riduttivo definirti “processualista”. I plurimi orizzonti del tuo contributo culturale mi suggeriscono più che una definizione, una immagine. Tu che hai saputo integrare la procedura con il diritto vivente e sei poi riuscito anche a ricucire con un filo robusto i rapporti tra processo e diritto penale sostanziale meriti la palma di artefice della integralità del «sapere penalistico».
Grazie, Delfino, per aver illuminato le nostre menti, senza dimenticarti di scaldare i nostri cuori.
Ennio