AL FIANCO DEGLI ULTIMI DA SEMPRE – DI FRANCESCO PETRELLI
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di Francesco Petrelli
I soggetti del processo raramente formano in solitudine i loro abiti mentali e sedimentano consuetudini e culture del processo al di fuori di una reciproca influenza: alla fine il Giudice forgia le sue parti. Conosciamo bene, e forse meglio di altri, i limiti e i difetti dell’avvocatura italiana ed è infatti costante e permanente l’impegno nella formazione dei giovani colleghi. Ma conosciamo le qualità e l’impegno di moltissimi avvocati che in maniera generosa e disinteressata esplicano il loro mandato fiduciario o ufficioso che sia, anche in condizioni di pericolo, spesso circondati dallo sfavore dei media e dall’avversione dell’opinione pubblica.
Nell’articolo di Lucia Vignale[1], pubblicato sul sito di Area democratica per la Giustizia, si vorrebbe accreditare una obsoleta e scolastica visione di avvocati penalisti sensibili solo alle lesioni dei diritti di imputati eccellenti, attenti esclusivamente alle criticità imposte dai grandi processi illuminati dai media e disinteressati invece alla emergenza quotidiana che coinvolge i diritti e le garanzie dei più umili, dei diseredati e degli emarginati, degli accusati di reati bagatellari che popolano le udienze di convalida e direttissima e che abitano in condizioni spesso disumane le carceri del nostro Paese.
Faccio direttissime da quaranta anni. Ed ogni volta che ancora mi capita curo personalmente di andare in udienza, convinto che il ruolo del difensore si esplichi fondamentalmente nella tutela dei diritti di libertà della persona, sempre e comunque. E da quando ho iniziato a farlo mi sono sempre chiesto come mai si avesse così poca cura nella gestione di quelle udienze, di quelle pretorili prima, e poi di quelle che sarebbero state le udienze monocratiche. Facendo spesso esperienza di giudici spazientiti dalla presenza di un difensore di fiducia che poneva questioni e discuteva della legittimità degli arresti e dei fermi. E anche della insofferente meraviglia di vedere avvocati di ufficio che chiedevano magari un termine per poter oculatamente e ponderatamente formulare una scelta del rito. E della soddisfazione del Giudice di poter invece procedere con la speditezza della “catena di montaggio” laddove il difensore d’ufficio si mostrava più compiacente alle approssimazioni dell’accertamento del fatto e dell’applicazione della procedura. I soggetti di un processo raramente formano in solitudine i loro abiti mentali e sedimentano consuetudini e culture del processo al di fuori di una reciproca influenza e di un inevitabile condizionamento: alla fine il Giudice forgia le sue parti. Conosciamo bene, e forse meglio di altri, i limiti e i difetti dell’avvocatura italiana ed è infatti costante e permanente l’impegno nella formazione dei giovani colleghi[2]. Ma conosciamo le qualità e l’impegno di moltissimi avvocati che in maniera generosa e disinteressata esplicano il loro mandato fiduciario o ufficioso che sia, anche in condizioni di pericolo, spesso circondati dallo sfavore dei media e dall’avversione dell’opinione pubblica. E ci è nota per esperienza personale l’attenzione con la quale molti giudici svolgono il loro lavoro ritenendo che la presenza di un difensore preparato e scrupoloso sia un contributo essenziale della giurisdizione.
Di queste cose occorrerebbe dunque parlare, non solo in base alle mutevoli esperienze personali di cui ognuno di noi ha fatto tesoro, ma su più estese basi di conoscenza della realtà politica dei soggetti che da tempo hanno cura del processo penale e di promuoverne i valori, operando nello sforzo di forgiare un’avvocatura non solo tecnicamente preparata, ma soprattutto consapevole del proprio ruolo e della propria fondamentale funzione sociale e democratica di garanti della legalità del processo. A dimostrazione di tale impegno basti ricordare come da molti anni l’UCPI ha istituito un Osservatorio “Difesa d’ufficio” che si occupa del miglioramento, dello studio, del monitoraggio, della promozione di questa fondamentale forma di tutela dei diritti di libertà e delle garanzie processuali di tutti i cittadini[3]. Se non tutti sono tenuti a sapere che la “difesa degli ultimi” ha da sempre costituto il tema costante dell’iniziativa politica, associativa e formativa dei penalisti italiani, ne avrebbe dovuto invece avere cura chi temerariamente ha ritenuto di poter affermare che “l’avvocatura si disinteressa di questo processo e non si preoccupa della formazione dei giovani avvocati cui spesso lo affida”, chiedendosi imprudentemente “perché le Camere Penali non ne parlano mai, perché non invocano anche qui, anche di fronte a imputati che non possono pagare, la sacralità del diritto di difesa”. Per chi si fosse invece legittimamente distratto dal merito delle posizioni assunte dall’Unione delle Camere Penali su questi temi, sarebbe utile ricordare come “l’effettività della difesa e la difesa degli ultimi” è sempre stata un obbiettivo dei penalisti dell’UCPI, nella convinzione che si dovesse operare con “un particolare impegno alla implementazione, al rafforzamento ed alla riforma di tutte le forme di assistenza difensiva dei soggetti economicamente e socialmente più deboli, al fine di ottenere che la effettività della difesa fosse garantita prescindendo, dalla natura e dalla origine del mandato, dalla mancanza del rapporto fiduciario con il difensore, ovvero dalla condizione economica dell’assistito”[4]. Se il mondo che ci circonda corrispondesse ai nostri desideri e assecondasse le nostre intenzioni non staremmo certo a scriverne, ma nell’affrontare il difficile compito di rendere migliore il mondo della giustizia penale dovremmo superare i pregiudizi che a volte ostacolano il confronto. Un confronto che troverebbe ad esempio convergenza sulla questione della mancata presenza dei Pubblici Ministeri togati in quelle udienze. Un tema che è da sempre stato oggetto di denuncia e di critica da parte dei penalisti italiani che hanno colto in quella scelta, non solo il frutto di una errata impostazione culturale, ma l’inevitabile conseguenza di una grave ed originaria deformazione assiologica che finisce con il porre il controllo sulla privazione della libertà personale, come correttamente la stessa autrice segnala, all’ultimo gradino della giurisdizione.
Suona per questo strano che da quella stessa parte della magistratura che avrebbe voluto addirittura espandere l’uso del processo a distanza, estendendolo ben oltre l’ambito necessitato dei procedimenti con detenuti, si sottolineino i rischi, da noi subito denunciati, connessi alla mancata presentazione fisica del detenuto davanti al proprio giudice ed accanto al suo difensore ed alla sua permanenza nelle stazioni o nei commissariati di Polizia, o anche in una casa circondariale, comunque lontano dal luogo – l’aula del Tribunale – ove si esercita la pienezza delle garanzie e della tutela dei diritti. Ma è l’idea stessa che nel nostro Paese il Giudice sia l’unico e solo “garante” dei diritti di libertà dell’imputato o dell’accusato risulta piuttosto arbitraria e legata ad una mitologia francamente inappropriata. Non perché non si conoscano le doti e le capacità e la sensibilità garantista di chi scrive e dei tanti magistrati giudicanti quotidianamente impegnati nelle udienze delle direttissime, ma perché accanto a quelle conosciamo e vediamo l’impegno e la preparazione e la dedizione di tanti giovani e meno giovani avvocati che in quelle stesse faticose udienze forniscono il loro essenziale contributo di professionalità e di passione.
E quando infine ci si chiede se si sia “così sicuri che lo stato di necessità conseguente alla crisi sanitaria non consenta di sacrificare il diritto al giusto processo” esigendo la espressione di un consenso in tutti i processi diversi da quelli che implichino una convalida, si formula una domanda alla quale si è data già da tempo una risposta negativa: che in nessun caso si debba e si possa derogare alle regole del giusto processo, dichiarandoci da sempre pronti a sedere accanto ai nostri assistiti privati della libertà ovunque essi siano ristretti e trovando invece nella stessa magistratura associata ben altre e diverse resistenze[5]. Abbiamo condotto una aspra dialettica con il mondo della politica e della magistratura sull’uso che della videoconferenza si voleva fare in violazione dei principi del giusto processo, proprio con riferimento ai processi nel quale l’imputato era detenuto[6]. Tanto ci siamo disinteressati al problema che abbiamo pubblicato sulla nostra Rivista, a cura del prof. Manes i contenuti di una recente ricerca empirica, commissionata dal Sussex Police and Crime Commissioner e condotta da alcuni professori del Dipartimento di Sociologia della University of Surrey, intitolata “Video Enabled Justice Programme: University of Surrey Independent Evaluation”, proprio al fine di denunciare le ricadute in termini quali-quantitativi della privazione della libertà nei procedimenti “di convalida” (remand hearings ) celebrati in videoconferenza[7]. L’illustre docente, responsabile dell’Osservatorio Diritto Costituzionale dell’Unione, concludeva evidenziando come nell’applicazione di simili strumenti telematici ai procedimenti in esame “il prezzo da pagare è il depotenziamento della difesa tecnica, l’inquinamento del rapporto di fiducia tra difensore e assistito, la spersonalizzazione del rapporto tra le parti – e tra il giudicante e il giudicato -, ed una progressiva, subliminale, disumanizzazione del processo e della pena”. E tanta è l’indifferenza per le sorti di tali distorsioni che abbiamo dato ampio risalto alla recente decisone del Consiglio costituzionale francese che ha dichiarato la incostituzionalità della disposizione processuale che prevede l’utilizzo della videoconferenza per la comparizione della parte sottoposta alla misura custodiale dinanzi alla “chambre de l’instruction”, allorquando deve essere assunta una decisione sulla libertà personale[8]. Non ci pare che questi temi siano stati ripresi e rilanciati dalla magistratura associata.
Sarebbe dunque meglio confrontarsi – ed eventualmente dividersi – sul merito delle nostre idee piuttosto che sull’inutile ripetizione di vecchi “luoghi comuni”.
[1] L. Vignale, Il processo degli “ultimi” è un giusto processo? Giudice monocratico e rito direttissimo. I processi di cui non si parla, gli unici che, nell’emergenza, si sono celebrati interamente da remoto, www.areadg.it, 31 maggio 2020.
[2] “Il dovere di difendere, ricordato anche ad alcuni avvocati”, Osservatorio Difesa d’ufficio e Giunta UCPI, 15.07.19.
[3] Osservatorio Difesa d’ufficio Paola Rebecchi, dell’Unione Camere Penali Italiane.
[4] Congresso UCPI, Bologna – 30 settembre 2016, Relazione del Segretario, dove si ricordava che “tutti noi ci dedichiamo alla difesa di cloro che siedono sul gradino più basso del riconoscimento sociale” (ricordando l’impegno della collega Paola Rebecchi, che alla tutela e alla difesa degli ultimi aveva dedicato la sua vita professionale ed associativa).
[5] E. Rosso, Io penalista dico al segretario di “Area”: nulla può ridurre il processo a una call conference dissestata, Il Dubbio, 19 aprile 2020.
[6] F. Petrelli, Garanzie a intermittenza in nome dell’emergenza, così si smantella il processo penale, Il Dubbio, 11 maggio 2020; cfr. V. Manes – L. Petrillo – G. Saccone, Processo penale da remoto. Prime riflessioni sulla violazione dei principi di legalità costituzionale e convenzionale, www.dirittodidifesa.eu, 6 maggio 2020.
[7] Cfr. V. Manes, Prime rilevazioni empiriche sugli effetti del processo penale, www.dirittodidifesa.eu, 11 maggio 2020.
[8] Cfr. A. Barletta, Consiglio costituzionale francese: no alla videoconferenza in materia di libertà, www.dirittodidifesa.eu, 19 maggio 2020.