ARGUMENTA – DI MICHELE PASSIONE
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ARGUMENTA
di Michele Passione*
Riflessioni sulla giustizia riparativa.
Il tema del conoscere giudiziale è prepotente, deve esserlo. Uno strato di regole distintive lo contrassegna. Torna però sempre qualcuno che s’abbandona al fascino (innegabile) dell’idea opposta: la libertà nell’accertare (M. Nobili)
Ho raccolto con grande entusiasmo, e non meno timore, l’invito della Prof.ssa Lalatta Costerbosa a discutere dei temi indicati nel titolo del nostro incontro (verità, pena, Stato di Diritto, confessione) che all’evidenza si incrociano disegnando una trama che non è priva di bias cognitivi, pietre d’inciampo.
Per ragionare di verità (processuale) occorre tener conto del suo rovescio, il dubbio, che oltre a fondare l’epistemologia probatoria fa da compagno di strada al tramontato sintagma della certezza del diritto, messo in crisi dal network multilivello delle fonti e dei formanti, dall’inesauribile ingresso delle scienze nel processo penale, dal libero convincimento del giudice, dalle ragioni mondane che ne condizionano le decisioni, dalla complessità del reale e dalla cedevolezza del giudicato. Un compito arduo per un pratico(ne) del diritto quale sono; mi limiterò dunque a seminare dubbi, tratti da qualche lettura, attingendo anche ad esperienze professionali e a vicende note, sulle quali sembra essersi posata la polvere del tempo.
Come non bastasse, oltre all’immane concretezza dei temi che ci occupano, ad essi si aggiungono ulteriori interrogativi; quale il senso e il valore del limite? Quale il significato della parola, del ricordo? Come si trasforma un’imputazione in una storia? Come si compone una storia processuale, attraverso quali inferenze si passa dal fatto al diritto? Come si deve procedere alla organizzazione delle prove? Perché, piuttosto che dar rilevanza allo sguardo falsificatorio, strumento di elezione per dimostrare la bontà di un’ipotesi, ci si affanna a cercare prove a sostegno, ciò che impedisce un vero confronto e protegge (spesso inutilmente) dal dubbio? (Giusberti).
Credo possa dirsi in premessa che proprio il senso del limite (insuperabile) aiuti a rifuggire dal dogmatismo dell’assolutezza della verità, e per converso dal nichilismo; è forse questo lo spazio nel quale si fa strada la giustizia riparativa, che lungi dal ricreare le aporie del sistema penale tradizionale (condizionato da sempre dal ruolo e dal significato della sanzione, molto più che dal precetto), scommette su dinamiche relazionali ove i protagonisti del conflitto possono usare “il pronome del riguardo, tu” (Mannozzi – Mancini), sfuggire alla statuale “meccanica del potere” (Foucault), ricercando un reciproco riconoscimento attraverso una epistemologia relazionale.
Con grande efficacia, si è infatti osservato come (Curi) “per evitare di essere coinvolta e travolta da quelle stesse aporie che minano la plausibilità dei modelli tradizionali, la giustizia riparativa dovrebbe puntare a proporsi eminentemente come un pratica che non ambisce contraddittoriamente a fondazioni incrollabili, ma che agisce nella presa di coscienza del limite […] insuperabile insito nel diritto in quanto tale, come imitazione intrinsecamente e irreparabilmente imperfetta della giustizia”.
“L’etica del dubbio, sottesa al paradigma cognitivo del garantismo, non è contro l’etica della verità: ne è la dimensione critica” (Pulitanò).
La regola dell’”oltre ogni ragionevole dubbio” non è dunque solo un principio processuale, ma sottende e richiama, costituendone un risvolto, un principio sostanziale di legalità, che non può accontentarsi delle palafitte di Popper.
Come vedremo, tuttavia, è proprio quando al dubbio si sostituiscono il comodo (pre)giudizio, la preclusione, le ostatività, le prevenzioni, che l’Uomo è esposto a valutazioni non per quel che si suppone abbia fatto, ma che potrebbe fare, perfino oltre il ne peccetur. Non si sfugge in quei casi neanche alla tentazione di estorcere una verità, pretendere la parola, come nell’emendamento presentato in Commissione Giustizia Senato per la conversione in Legge del dl n.162/2022, con il quale si imporrebbe al detenuto non collaborante che aspiri alla liberazione condizionale per reati ostativi di motivare “le ragioni della mancata collaborazione”, di ammettere “l’attività criminale svolta” e di compiere “una valutazione critica del vissuto in relazione al ravvedimento”.
La verità, nel mondo in cui viviamo, si compone di tante versioni; basti pensare alla cultura di massa, alla circolazione delle idee, al relativismo della società liquida che consente di trasformare fake news in informazioni che minano la democrazia, sottraendosi al falsificazionismo e ai dubbi. Possiamo convenire con chi (Zagrebelsky) è contro l’etica della verità, a favore dell’etica del dubbio, ma occorre per l’appunto tener conto del contesto in cui oggi ci si muove, molto distante dall’assoluto cartesiano.
Torneremo sul concetto di verità, ma possiamo sin d’ora volger lo sguardo alla pena, che pure ci interroga e ci riguarda nel dibattito odierno.
Quando il reato si sottrae al peccato e si fa strada una certa idea della pena sulla quale poter fondare l’obbligo del contratto sociale (Beccaria) la Legge diventa la nuova Divinità (Lacchè), rischiando di non avere limiti. E’ un tema che si ripropone, e che mette a dura prova l’idea di Giustizia (Bobbio), rischiando di sanzionare la disobbedienza. E tuttavia, di fronte alle disarticolazioni del presente non ci aiuta a liberarci dal che fare ? la via seguita da Antigone o Creonte, potendoci trovare (tutti) nella più umana condizione di Javert (Hugo), che deraglia dalla sua coscienza rettilinea quando si apre una crepa nelle sue certezze di sempre (Palazzo). E’ con la Costituzione, piuttosto, e poi con l’avvento della Corte costituzionale, che si invera la possibilità di creare gradualmente una nuova legalità (Calamandrei).
Ne è un esempio, così anticipando un tema di discussione che si è sin ora appena abbozzato, la sentenza n.190 del 1970, con la quale il Giudice delle leggi dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 304 bis, primo comma, c.p.p. (allora vigente), limitatamente alla parte in cui escludeva il diritto del difensore dell’imputato di assistere all’interrogatorio.
Forse proprio per porre “la legislazione e la giurisdizione l’una a fianco dell’altra, ed entrambe di fronte alla Costituzione” (Fioravanti), nell’occorso la Corte intervenne malgrado la norma sospetta di illegittimità costituzionale fosse stata ritenuta inconferente, affermando come (in contrasto con la sua monolitica giurisprudenza, che lega il suo dire al petitum ed ai parametri indicati dal giudice a quo) “la scelta fra l’una e l’altra soluzione non può dipendere dal modo in cui la questione viene fissata dall’ordinanza di rimessione, ma deve essere operata tenendo conto sia dei principi generali ai quali risulta ispirata la struttura del processo penale sia dalle direttive desumibili dalla norma costituzionale di raffronto” (§ 5 Ritenuto in fatto).
Vi è da ricordare come la legislazione previgente prevedesse l’interrogatorio quale mezzo di prova ed al contempo di difesa, pur singolarmente ritenendo quest’ultimo reso evidente dal fatto che il Giudice doveva invitare l’imputato “a discolparsi e a indicare le prove in suo favore” (e non, come oggi previsto dall’art.65, comma 2, c.p.p., “ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa”).
Respingendo la tesi proposta dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale sarebbe stato sufficiente il deposito in cancelleria del verbale dell’interrogatorio per mettere in condizione il difensore di “spiegare gli opportuni interventi” (§ 3 Ritenuto in fatto), la Corte richiamò la relazione governativa alla riforma del 1955, dalla quale risultava che l’esclusione del difensore dall’interrogatorio fu mantenuta “al fine di permettere che l’imputato si regoli nel rispondere con la maggiore franchezza possibile alle contestazioni che gli vengono mosse, al di fuori di ogni preoccupazione e suggestione derivanti dalla presenza di terzi”. Per fortuna, con parole chiare la Corte rilevò come (§ 5 Considerato in diritto) “è facile constatare che queste ragioni, in quanto implicano una piena sfiducia nell’opera del difensore, si pongono in netto contrasto con il precetto costituzionale, che presuppone chiaramente che il diritto di difesa, lungi dal contrastare, si armonizza perfettamente con i fini di giustizia ai quali il processo è rivolto”.
Prima di allora, messo in disparte il modello medioevale di giustizia negoziata, a partire dalla fine dell’Ottocento si impose un modello processuale che esaltava il ruolo del Giudice come bouche de la loi, être inanimé, che “per meglio riuscire nell’accertamento del vero” (Carnevale), essendo suo compito la repressione dei reati e la difesa sociale, rifuggiva dal contraddittorio e dal cognitivismo, utilizzando il sillogismo e la confessione (anche attraverso la tortura, ad eruendam veritatem, strumento di elezione – regina probationum – nel diritto comune) quale regola aurea della sua epistemologia.
Come si vede, il diritto e la giurisdizione hanno a che fare con il potere che costruisce regole di giudizio rivolte ai consociati, che debbono poter comprendere l’illiceità di quanto il precetto descrive, e la minaccia prevista con la pena.
Ma c’è di più; posta la regola secondo la quale il dubbio è incompatibile con l’attribuzione di responsabilità (dove c’è dubbio non si può punire), occorre riconoscere che il processo implica e comporta sempre una valutazione da parte del Giudice (Bartoli), che nell’ambito del suo motivato libero convincimento può selezionare e valorizzare il materiale di prova (anche scientifica). Al dunque, l’in dubio pro reo costituisce la premessa e l’approdo del ragionamento, ma non conferisce al processo penale la solidità del diritto penale sostanziale, le cui premesse nomologiche sono certamente più stringenti, pur non prive di tensioni con istanze di altro tipo.
Ed ancora; nella crisi delle certezze giuridiche gioca un ruolo il fattore tempo. Il Giudice della cognizione è ontologicamente un uomo del passato (guarda a ciò che accaduto), a differenza del giudice di sorveglianza (che guarda – dovrebbe – guardare l’Uomo, non il reato commesso). La distanza (spesse volte siderale) tra il tempus commissi delicti e il momento del giudizio non può dirsi neutra, sia perché determina di per sé il rischio che le prove dichiarative si disperdano, o sfumino, sia perché lo stesso precetto può mutare di senso col passare del tempo. Manco a dirlo, anche in executivis non può certo dirsi che il tempo non abbia rilievo, sol che si pensi al (non)senso di una pena (anche detentiva) da espiare a distanza di anni e anni dal fatto, né può trascurarsi il tema delle pene (principali e accessorie) perpetue, che in questa sede non può che essere soltanto accennato.
Per ragioni di tempo, possiamo appena accennare a fenomeni che possono mettere in crisi (o si suppone che) la coerenza di un sistema che esige certezza nell’affermazione della responsabilità, ma non sempre richiede la prova della colpevolezza dell’imputato. Si allude, all’evidenza, al patteggiamento, alla messa alla prova, ai LLPPUU, ed oggi (in forma diversa), alla giustizia riparativa. Del resto in altri Paesi (su tutti, gli USA) non sempre la pena negoziata presuppone un irrevocabile guilty plea, essendo sufficiente il nolo contendere o il plea bargaining, come dimostra il leading case del 1970, c.d. Alford Plea.
Infine, la confessione.
Rimasta sullo sfondo di queste riflessioni, non può che misurarsi (e dipendere) dal sistema di regole che si applicano (mutate con l’avvento del “nuovo codice”, per ciò che concerne le condizioni e i presupposti dell’interrogatorio di polizia della persona in stato di libertà); com’è evidente, l’interrogatorio è uno dei momenti procedurali che più connotano il rapporto Autorità – Individuo, e le maniere di intenderlo (Nobili), e non è affatto vero che sia “il colpevole” a doverlo temere (e qui si sprecano gli esempi che la letteratura ci offre, da Sciascia a Kafka).
Del resto, la confessione cattolica ad aures per lunghi periodi fu marchingegno della procedura penale; non solo lo strumento per entrare in raccordo con Dio, la Verità che esprime e la ricerca del perdono, per ottenere il quale bisognava recarsi prima dall’Inquisitore (Prosperi).
In Italia si è fatto anche questo (Passione): “il 28 febbraio 1982 su l’Espresso venne pubblicato l’articolo di Pier Vittorio Buffa, il rullo compressore, nel quale il giornalista dava conto di quanto posto in essere durante gli interrogatori nei confronti di persone arrestate nell’ambito di indagini sul terrorismo. Era stato nominato l’indicibile. A seguito della pubblicazione il giornalista fu arrestato il 9 marzo 1982, su ordinanza emessa per il delitto di cui all’art.372 c.p. I fatti riferiti vennero poi confermati dal Capitano Riccardo Ambrosini e dall’Agente Giovanni Trifirò, e il giornalista venne assolto. Il 17 marzo 1983 il Giudice istruttore di Padova, Mario Fabiani, dispose il rinvio a giudizio di cinque imputati per fatti di reato commessi nei confronti di alcuni brigatisti – Di Lenardo, Libera, Savasta, Ciucci, Frascella – arrestati durante le operazioni che condussero alla liberazione del generale Dozier, sequestrato nell’appartamento di Via Pindemonte. Tra i delitti contestati vi era anche “l’aver compiuto violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo […] e nella somministrazione di scariche elettriche, mediante applicazione di strumenti idonei agli organi genitali e nella zona addominale […] e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco, e successivamente violenza, consistita nel legarlo (il Di Lenardo) su un tavolo, sul quale era stato steso, facendogli inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca, e, permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare col naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva versata nella sua bocca.”
La posizione processuale di Salvatore Genova, all’epoca dei fatti Commissario della D.I.G.O.S., fu stralciata grazie alla sopravvenuta elezione a deputato (e alla negata autorizzazione a procedere opposta dalla Camera); molto più tardi, nel 2012, questi raccontò gli episodi facendo un esplicito riferimento agli abusi commessi in quegli anni. Il suo racconto lo vedremo a breve; incidentalmente, Cesare di Lenardo è sempre in galera. In quegli anni bastò evocare la coscienza democratica del Paese a giustificazione di veri e propri atti di tortura (nella sentenza di condanna emessa il 15 luglio 1983 dal Tribunale di Padova agli imputati fu riconosciuta l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale), sebbene l’allora Ministro degli Interni Rognoni citasse la coerenza democratica (Galfrè), e non l’acqua e il sale, quale strumento di contrasto alla lotta armata”.
Prima ancora, era il 1976, c’erano stati l’arresto e le torture subite da Giuseppe Gullotta, poi condannato e detenuto in carcere per ventidue anni, prima di ottenere la revisione e l’assoluzione. Altri nomi, altre storie: Enrico Triaca (1978), Benedetto Labita (1992), Lionello Egidi (1950).
Tanti altri, purtroppo.
*Avvocato del Foro di Firenze