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IL CARCERE RIMOSSO – DI ALESSANDRO BARBANO

IL CARCERE RIMOSSO – DI ALESSANDRO BARBANO

di Alessandro Barbano

Articolo pubblicato su HuffingtonPost Italia qui e concesso dall’autore per la pubblicazione anche su questo sito

“Sesso in carcere, patteggia 6 mesi. Rapporto orale con la compagna nel parlatorio, celandosi dietro la borsa di lei, mentre il figlio attende nella stanza a fianco. Se non avete pietà di lui, mettetevi nei panni di questa donna”. Il tweet, postato da chi scrive, dopo un giorno vanta appena cinque “mi piace”. Praticamente ignorato. Mentre più di mille ne riceve nello stesso tempo un altro, che ammonisce Bianca Berlinguer a non invitare Mauro Corona a Carta Bianca. Il web si tuffa sul teatrino dello scrittore che offende in pubblico la giornalista, dandole della “gallina”, e resta indifferente alla scena del parlatorio, teatro di uno scambio affettivo sfuggito alla sorveglianza del carcere.

Non c’è da stupirsi: l’universo esistenziale della rete è sentimentale, non simpatetico. Pronto a indignarsi, fatica a immedesimarsi. Ci vorrebbero le immagini di Fuga di Mezzanotte, capolavoro di Alan Parker che ci riporta alla ferocia delle carceri turche negli anni Settanta. Susan e Billy nel parlatorio dopo cinque anni di detenzione, lei che si dispera per la sorte del fidanzato condannato all’ergastolo, lui che le chiede di scoprisi il seno e si masturba. Forse, molti tra i lettori che ricordano quella scena hanno pianto nel vederla.

Stavolta siamo nel carcere di Cremona, ma non è un film. Il protagonista, un quarantenne italiano, sconta un residuo di pena per reati contro il patrimonio. In un parlatorio disadorno incontra la compagna sotto gli occhi delle telecamere, che spiano quello spicchio di intimità. Nella stanza a fianco c’è il figlio della coppia. I due si abbracciano. Poi lei, cedendo a una richiesta dell’uomo, abbozza un improbabile schermo con la borsa e, nascondendosi dietro di questa, si piega su di lui. Come chiamereste questa scena? Sesso? Amore? Disperazione? Disgusto? Rabbia? Pietà?

Per la legge italiana si chiama ancora reato. La prova la fornisce un occhio elettronico, ignoto ai due amanti, che li sorprende dall’alto. Non resta loro che patteggiare una pena di sei mesi. Ma stavolta nessuno piange. Perché forse nessuno sa che in Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia, Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo. Nessuno sa che il diritto all’affettività in carcere era stato riconosciuto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, annunciata più volte dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e mai approvata. Nessuno sa che quella riforma il governo Conte uno, quello di Salvini e Di Maio, l’ha richiusa in un cassetto e ha riconfermato il vecchio regime.

Dovremmo stupirci? Siamo il Paese dell’ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e collaborare con la giustizia. E le sentenze con cui, prima la Corte europea dei diritti dell’uomo e poi la Consulta, hanno censurato l’irragionevole automatismo di questo istituto e la debole presunzione di pericolosità che lo sosteneva, sono state accolte da un coro di sdegno che, dai magistrati ai politici, dai giornalisti agli opinion leader più impegnati su mafia e terrorismo, è giunto fino alla gente comune. E siamo, ancora, il Paese dove la direttrice del carcere di Reggio Calabria è stata tenuta per oltre un mese agli arresti con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari giudicati inopportuni dal gip. O il Paese dove la conduttrice di un talk fa l’in bocca al lupo al pubblico ministero alla vigilia di un maxi processo con oltre 400 imputati, come se questi fosse un atleta chiamato a battere il record in una gara olimpica. E non dovesse, per legge, cercare tanto le prove a carico quanto quelle a discarico degli imputati.

Nel nostro universo civile il carcere è il luogo dove simbolicamente confiniamo tutto il male del mondo, proprio per non vederlo più. Perciò ci indigniamo se un magistrato di sorveglianza concede a un detenuto devastato dal cancro il diritto di morire a casa. Perciò, ancora, l’intercalare “chiudeteli dentro e gettate la chiave” ricorre come uno stereotipo nel lessico di molti politici e altrettanti cittadini comuni. “L’occultamento del delinquente – scrivono Luigi Manconi e Federica Graziani nel bel libro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” – corrisponde alla volontà di esorcizzare una duplice minaccia. Il presunto attentato alla propria sicurezza che il carcere come incubatore del crimine evoca, che muove dalle celle e si indirizza verso di noi. E la minaccia che da noi, dal nostro inconscio si proietta sul carcere per rimuoverlo e rimuovere con esso i nostri incubi. La prigione per una parte dei cittadini liberi è questo: la sede dove collocare le proprie ansie e le proprie fobie, il luogo dove sono reclusi coloro che saremmo potuti e che ancora potremmo essere noi”.

Figuratevi se in questo universo morale c’è spazio per la sessualità nei luoghi di pena. Se la compagna di un detenuto viene condannata, insieme con lui, per aver violato il divieto, nessuno storce il naso, perché nessuno riconosce più l’orrore di una giustizia che diventa la più potente e nello stesso tempo la più occulta macchina di dolore umano. È la terribile ambivalenza del vedere e non vedere. Il detenuto indagato nell’intimità, negli affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, e allo stesso tempo invisibile alla comunità dei cittadini liberi. A cui un tweet sulla condanna per un attimo d’amore rubato nel parlatorio fa lo stesso effetto degli alberi senza foglie in autunno.

Come le foglie d’autunno si sta in carcere, direbbe forse un grande poeta. Se ancora ci fosse. Perché la letteratura potrebbe salvarci. Potrebbe risvegliare l’immedesimazione perduta in questo dolore che ci sta attorno e non vediamo. O forse anche questa speranza “erra dal vero”. Forse anche gli scrittori, di questi tempi, rinunciano a vedere. I loro protagonisti, denuncia Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera, sono quasi sempre commissari. Anche per la letteratura chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero unico del nostro tempo?