IL CONTROVERSO RAPPORTO FRA L’AZIONE CIVILE E IL PROCESSO PENALE. UN EQUILIBRIO TRA ESIGENZE DI FAVOR REI E RAGIONEVOLE DURATA – DI MARCO NOTARANGELO
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IL CONTROVERSO RAPPORTO FRA L’AZIONE CIVILE E IL PROCESSO PENALE. UN EQUILIBRIO TRA ESIGENZE DI FAVOR REI E RAGIONEVOLE DURATA.
THE CONTROVERSIAL RELATIONSHIP BETWEEN CIVIL ACTION AND CRIMINAL TRIAL. A BALANCE BETWEEN NEEDS OF FAVOR REI AND REASONABLE TIME.
di Marco Notarangelo*
Come noto, i poteri di impugnazione della parte civile rappresentano, allo status quo ordinamentale, un profilo processuale problematico e controverso. Pur riconoscendo l’impellente necessità di un intervento legislativo che ne circoscriva l’esercizio, deve ammettersi che le imperfezioni del testo normativo hanno, tuttavia, condotto la giurisprudenza a supplire la latitanza legislativa attraverso un iter ermeneutico tendente alla conformità dei dettami costituzionali e che l’autore si pregia di ripercorrere.
As is known, the powers of appeal of the civil party represent, in this period, a problematic and controversial procedural profile. However, while recognizing the urgent need for legislative intervention that circumscribes its exercise, it must be admitted that the imperfections of the legislative text have led the jurisprudence to make up for the legislative inaction through a hermeneutic process tending to the conformity of the constitutional dictates, that the author is pleased to retrace.
Sommario 1. Il potere di impugnazione della parte civile. – 2. L’esercizio della facoltà di appello della parte civile. – 3. Sulla condanna anche agli effetti civili ed estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione
1. Il potere di impugnazione della parte civile. La vexata quaestio in merito alla facoltà della parte civile di impugnare i provvedimenti di proscioglimento si deve, originariamente, all’intervenuta riforma della l. 20 febbraio 2006 n. 46, c.d. legge “Pecorella”, concepita con l’intento di eliminare l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere e di assoluzione da parte del pubblico ministero e dell’imputato, salvo i casi di sopravvenuta o scoperta prova decisiva[1]. La problematica sottesa alla riforma risiedeva nelle conseguenze pregiudizievoli per la parte civile la quale, stante la previgente disposizione di cui all’art. 576 c.p.p., poteva proporre impugnazione «con il mezzo previsto dal pubblico ministero». Pertanto, in virtù del rinvio ivi contenuto, l’esclusione del potere della pubblica accusa di promuovere l’appello nei confronti delle sentenze di proscioglimento riverberava i suoi effetti anche sulla parte civile.
A tale riflessione si deve l’omessa promulgazione del testo originario della legge approvata dalle Camere, la quale veniva sottoposta a nuovo esame ex art. 74 Cost., a seguito del quale il Parlamento decideva di eliminare l’inciso di cui all’art. 576 c.p.p. che provocava la connessione di poteri con l’organo inquirente[2].
Tanto si doveva premettere per argomentare che l’intenzione del legislatore, come peraltro risulta lapidaria dai lavori preparatori della legge[3], era quella di consentire alla parte civile l’impugnazione in via diretta delle sentenze di proscioglimento pronunciate in giudizio, sganciandola dal potere di impugnativa del pubblico ministero.
Di qui, il testo attualmente vigente dell’art. 576 c.p.p., che consente alla parte civile di impugnare i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, le sentenze di proscioglimento pronunciate in giudizio.
Seppure la norma in vigore possa dirsi scevra da dubbi interpretativi in merito alla facoltà di impugnazione della parte civile, volendo procedere nell’analisi delle disposizioni escludendo qualsivoglia incertezza conseguente alle lacune normative, si potrebbe astrattamente sostenere che la censura “maldestramente” operata all’art. 576 c.p.p. se, da una parte, ha aperto la strada al riconoscimento di un potere autonomo di impugnazione in capo alla parte civile, dall’altra, contestualmente, l’avrebbe spogliata dei mezzi per poter esercitare un tale diritto.
Invero, se il criterio normativo applicabile ante riforma del 2006 era l’equivalenza di poteri con il pubblico ministero ai sensi del previgente art. 576 c.p.p., giocoforza l’abrogazione della disposizione ha comportato l’insorgere di delicati problemi nell’interpretazione e nell’applicazione pratica della norma alla luce del principio di tassatività di cui all’art. 568 c. 1 c.p.p., vigente nel sistema delle impugnazioni[4].
Infatti, eliminando qualsiasi “aggancio” ai poteri del pubblico ministero, non esiste alcun’altra norma che conferisca al soggetto danneggiato dal reato il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento dell’imputato[5].
Tuttavia, l’interpretazione sistematica delle disposizioni non riterrebbe logico che il legislatore avesse consentito l’ingresso della parte civile nel processo penale per poi precluderle l’utilizzo dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge. Diversamente, oltretutto, rimarrebbero prive di efficacia alcune norme con le quali il legislatore ha inteso conferire il potere di appellare, seppur parzialmente, le sentenze di primo grado (artt. 600 c. 1. e 601 c. 1 c.p.p.).
Dello stesso senso appare l’orientamento intrapreso dalla Suprema Corte che, avvertendo l’esigenza di un’interpretazione meno rigida del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, tenendo conto dell’intentio legis desumibile dai lavori parlamentari e in linea con i principi costituzionali, riconosceva i poteri di appello della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, i quali sarebbero rimasti immutati dopo la riforma, giacché l’unico intento del legislatore sarebbe stato quello di “sganciare” il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero che la legge stava riducendo, così ritenendo la nuova formulazione dell’art. 576 c.p.p. «una mera imperfezione della tecnica legislativa[6]».
Valga altresì citare la statuizione dirimente delle Sezioni Unite, c.d. Sentenza “Lista[7]”, con la quale viene dichiarata l’illogicità di un Legislatore che, dopo aver consentito la costituzione di parte civile, precluda la possibilità di appello, pertanto conferendo alla parte civile il potere di impugnazione, in adesione all’interpretazione meno rigorosa del principio di tassatività.
Rebus sic stantibus, nonostante l’assenza di norme di coordinamento, le medesime riflessioni debbono ritenersi valide nel procedimento avanti al Giudice di Pace, per il quale si applica la disciplina dettata dall’art. 38 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274. Esso dispone che «Il ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell’imputato a norma dell’articolo 21 può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione da parte del pubblico ministero».
Orbene, posto che, come appare chiaro ex littera legis, il rinvio operato dalla norma ai poteri del pubblico ministero opera soltanto in capo alla parte civile che abbia dato impulso al procedimento mediante ricorso immediato al giudice ex art. 21 d.lgs. 274/2000, si dà atto che anche il regime processuale avanti al Giudice di Pace è stato profondamente innovato dalla l. 20 febbraio 2006 n. 46. Essa, modificando il previgente art. 36 d.lgs. 274/2000[8], precluse definitivamente al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento e, in virtù del richiamo operato dall’art. 38, identica contrazione ha subito, di riflesso, la persona offesa che agisce in veste di accusatore privato mediante ricorso immediato al giudice.
Pertanto, ai sensi della normativa vigente, occorre distinguere due ipotesi, a seconda che la persona offesa si sia avvalsa del ricorso immediato (ex art. 21 d.lgs. 274/2000) o della citazione in giudizio (art. 20 d.lgs. 274/2000). Nel primo caso, contro la sentenza di proscioglimento, potrà esperirsi soltanto il ricorso per cassazione, anche agli effetti penali.
Nessuna preclusione, invece, per la parte civile che abbia scelto la citazione a giudizio dell’imputato ai sensi dell’art. 20[9], la quale è legittimata a proporre appello contro la sentenza di proscioglimento, ai soli effetti civili[10].
Del resto tale facoltà deriva dalla regola generale dettata all’art. 576 c.p.p., in tema di impugnazione della parte civile, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso le sentenze di proscioglimento. Norma di certo applicabile al processo davanti al Giudice di Pace in forza del richiamo di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 274/2000.
2. L’esercizio della facoltà di appello della parte civile. Acclarata la titolarità dell’appello della parte civile, pare altresì utile affrontare il problema interpretativo registratosi in giurisprudenza e relativo al concreto esercizio dell’azione civile.
Invero se l’art. 576 c.p.p. circoscrive «ai soli effetti della responsabilità civile» le impugnazioni avverso le sentenze di proscioglimento, è legittimo chiedersi se nella stesura dell’atto di impugnazione contro i capi della sentenza di proscioglimento, la parte civile sia onerata, a pena di inammissibilità, ad avanzare un’esplicita richiesta di riforma della sentenza ai soli effetti civili.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha registrato un contrasto giurisprudenziale, analiticamente compendiato nella sentenza risolutiva delle Sezioni Unite, secondo cui «non è richiesto, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile contro una sentenza di proscioglimento, che l’atto di impugnazione contenga la espressa indicazione che viene proposto ai soli effetti civili[11]».
Del resto, ai sensi dell’art. 538 c.p.p. il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni o il risarcimento del danno solo quando pronunci sentenza di condanna. La decisione sulla responsabilità dell’imputato assurge necessariamente a presupposto incidentale per addivenire ad una statuizione civilistica.
Pertanto, la disposizione contenuta nell’art. 576 c.p.p. deve essere interpretata nel senso che «la parte civile può impugnare al fine di ottenere che il giudice effettui, in via incidentale e ai soli fini civilistici, il giudizio di responsabilità[12]».
È quindi superfluo che la parte civile specifichi nell’atto di impugnazione le finalità civilistiche che intende conseguire dal momento che è lo stesso art. 576 c.p.p. a circoscrivere i suoi poteri di impugnazione, non richiedendo ulteriori requisiti di forma per la redazione del ricorso, oltre a quelli ex art. 591 c.p.p.
Secondo la Corte, infatti «Da un lato la richiesta della parte civile di condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni implica l’accertamento (sia pure incidentale ed ai soli effetti civili) della responsabilità dell’imputato nei cui confronti la domanda è diretta; dall’altro lato la richiesta di affermazione della responsabilità dell’imputato non può avere, per espressa disposizione di legge, altro significato che quello di un accertamento incidentale ed ai soli effetti civili[13]».
3. Sulla condanna anche agli effetti civili ed estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione. Per quanto sino ad ora argomentato è facilmente desumibile il carattere di autonomia che il legislatore penale ha inteso attribuire all’azione civile. Del resto la natura “indipendente” della domanda risarcitoria, “attratta” nel processo penale per ragioni di opportunità, pare oggi cristallizzarsi nella recente pronuncia degli Ermellini, con la quale la cognizione viene demandata al giudice civile competente per valore in grado di appello allorquando, nei giudizi di cassazione, risulti che la sentenza di appello abbia illegittimamente dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione avverso la condanna di primo grado e si proceda contestualmente anche agli effetti civili. La Corte può infatti immediatamente dichiarare l’estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, ove sia esclusa, per mancata allegazione da parte dell’imputato di un concreto ed attuale interesse, la possibilità del proscioglimento nel merito ex art. 129 comma 2 c.p.p[14]. Ad onore del vero occorre considerare che la suesposta decisione segue un indirizzo interpretativo, in tema di accertamento dell’illecito civile, evocato dalla nota questione di legittimità sollevata dalla Corte d’Appello di Lecce[15]. Il Collegio salentino paventava il contrasto dell’art. 578 c.p.p. con l’art. 117 comma 1 Cost., in relazione all’art. 6 par. 2 CEDU, nonché con l’art. 11 Cost. in relazione agli artt. 3 e 4 direttiva UE 2016/343 e dell’art. 48 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui la norma stabilisce che il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili[16]. La disposizione sarebbe stata meritevole di censura laddove avrebbe imposto al giudice penale di formulare, seppur incidenter tantum, un giudizio di valutazione di matrice penale quale presupposto della decisione in merito agli interessi civili quando, al contrario, avrebbe dovuto accertare non già la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice bensì gli elementi identificativi di un illecito aquiliano.
In realtà, come statuito dalla Corte costituzionale[17], la valutazione del giudice dell’impugnazione penale impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell’imputato per il reato estinto, di talché non può ravvisarsi violazione alcuna al diritto alla presunzione di innocenza. La circostanza de quo non consente l’accertamento della causalità penalistica che lega la condotta all’evento in base alla regola dell’“alto grado di probabilità logica”, dovendo invece compiere un giudizio alla luce del criterio civilistico del “più probabile che non”. Nella sostanza, l’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile non è revocata ma si svolge attraverso l’applicazione delle regole processuali e probatorie del processo penale.
La suddetta pronunzia appare dirimente se non altro in quanto celebra una netta riaffermazione del principio di autonomia e separazione nelle relazioni tra processo civile e processo penale, in linea con l’assetto codicistico del 1930, elaborato sul solco dell’unitarietà della funzione giurisdizionale e della preminenza della giurisdizione penale. Non considera, però, il caso in cui il rinvio al giudice penale ad opera della Corte di Cassazione non sia destinato a realizzare un favor per l’imputato, in mancanza delle condizioni di un proscioglimento di merito che prevalga sulla declaratoria di estinzione del reato. Sul punto si rivelano esegetiche le note sentenze a Sezioni unite “Sciortino[18]” e “Cremonini[19]”, le quali evidenziano che una volta dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, non residua alcuno spazium deliberandi del giudice penale e non ha più ragion d’essere la sua competenza promiscua (penale e civile) assunta in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno l’interesse penalistico alla vicenda che giustifica la cognizione nel processo penale.
Proprio nel solco di tal ultimo filone interpretativo si inserisce la già enunciata pronuncia dei Giudici di piazza Cavour [20], con la quale trova piena applicazione il nuovo comma 1 bis dell’art. 578 c.p.p. introdotto dalla riforma “Cartabia”: esso, derogando al primo comma dell’art. 578 c.p.p., dispone il rinvio ex art. 622 c.p.p. al giudice civile competente in grado di appello nelle ipotesi in cui, previa condanna alle restituzioni o al risarcimento, si dichiari l’improcedibilità dell’azione penale per il superamento dei termini di cui al nuovo art. 344 bis c.p.p.
L’esegesi del nuovo dettato normativo si manifesta non poco problematica. È infatti lecito chiedersi se il Giudice civile d’appello decida ex novo ovvero come Giudice dell’impugnazione rispetto alle statuizioni civili contenute nella sentenza penale. Conseguentemente incerta è la disciplina delle prove applicabile, non essendo chiaro se debbano applicarsi quelle del processo penale o del processo civile.
Ebbene, considerando il recente intervento della Consulta di cui si è detto poc’anzi, che ha ritenuto legittima la formulazione dell’art. 578 comma 1 c.p.p., la scelta legislativa paga il “pegno” di una sospetta illegittimità costituzionale[21]. Invero la pronuncia di improcedibilità è dichiarata con sentenza di “non doversi procedere”, di talché l’accertamento successivo sulla domanda risarcitoria non incontrerebbe alcun preliminare giudizio di merito che possa porsi in conflitto.
Il legislatore della riforma, pertanto, in netto contrasto con la visione unitaria della giurisdizione prospettata dalla pronuncia della Consulta, ha privilegiato «l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione in tale sede[22]», rievocando piuttosto l’accessorietà dell’azione civile.
Alla luce del percorso che il legislatore ha inteso tracciare in tempi recenti e dello spettro giurisprudenziale sul tema dell’azione civile nel processo penale, ben si comprende che il tema oscilla tra l’esigenza garantista di definizione della materia penale e la ragionevole durata del processo per la domanda risarcitoria. Si auspica un intervento chiarificatore della Consulta che possa rinvenire un punto d’equilibrio costituzionale alla norma di nuova introduzione.
*Avvocato del Foro di Pesaro
[1] A. SCALFATI, Processo penale: diventa la regola l’inappellabilità dei procedimenti, in Guida dir., 10, 2006, p. 41 ss.
[2] E. RANDAZZO, Un testo in armonia con il giusto processo che ristabiliva i principi di civiltà giuridica, in Guida dir., 5, 2006, p. 14.
[3] Atti Camera, XIV leg., seduta 30 gennaio 2006, 5, 14.
[4] G. SPANGHER, La parte civile nella legge Pecorella. Potrà ricorrere, ma non appellare, in Dir. e Giust., 16, 2006, p. 38.
[5] A. SCELLA, Il vaglio di inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Giappichelli, 2006, p. 86 ss.; G. FRIGO, FRIGO, Un intervento coerente con il sistema, in Giuda dir., 10, 2006, p. 103; A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, in Giuda dir., 10, 2006, p. 59.
[6] Cass. pen,, Sez. III, 4 luglio 2006, n. 22924 in C.E.D. Cass. n. 234156.
[7] Cass. pen., Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, in C.E.D. Cass. n. 236537.
[8] Venne eliminato l’inciso «[…] e contro le sentenze di proscioglimento per i reati puniti con pena alternativa»
[9] D. CURTOTTI NAPPI, Sub art. 336 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in A. GIARDA – G. SPANGHER (a cura di), Codice di procedura penale commentato, vol. III, Ipsoa, 2010, p. 9357.
[10] Cass. pen, Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, in C.E.D. Cass., n. 236537 – Cass., Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 4695 in Arch. Nuova proc. pen., 2009, 3, p. 330.
[11] Cass. pen., Sez. Un., 20 dicembre 2012 n. 6509 in Arch. Nuova proc. pen., 2013, 3, p. 283.
[12] Cass. pen., Sez. Un., 20 dicembre 2012 n. 6509 in Arch. Nuova proc. pen., 2013, 3, p. 283.
[13] Cass. pen., Sez. Un., 20 dicembre 2012 n. 6509 in Arch. Nuova proc. pen., 2013, 3, p. 283.
[14] Cass. pen, Sez. V, 10 settembre 2021, n. 43690, Miccoli, n.m.
[15] Corte d’Appello di Lecce, 6 novembre 2020, o. n. 14, in Foro it., 2021, 10, p. 2949 – Corte d’Appello di Lecce, 11 dicembre 2020, o. n. 29, in Foro it., 2021, 10, p. 2949.
[16] F. ZACCHÈ, Davvero incostituzionale l’art. 578 c.p.p. per contrasto con l’art. 6 comma 2 Conv. Eur. Dir. Uomo?, in www.sistemapenale.it, 9 dicembre 2021.
[17] Corte cost., 30 luglio 2021, n. 182, in Cass. pen., 2021, 11, p. 3432.
[18] Cass. pen., Sez. Un., 18 luglio 2013, n. 40109, in Arch. Nuova proc. pen., 2013, 6, p. 637.
[19] Cass. pen., Sez. Un., 28 gennaio 2021 n. 22065, in Cass. pen., 2021, 12, p. 4012.
[20] Cass. pen, Sez. V, 10 settembre 2021, n. 43690, Miccoli, n.m.
[21] P. FERRUA, La Corte Costituzionale detta le regole per l’azione civile in caso di sopravvenuta estinzione del reato: la probabile illegittimità costituzionale dell’art. 578, comma 1-bis, c.p.p. introdotto dalla riforma “Cartabia”, in Cass. pen., 11, 2021, p. 3443.
[22] Cass. pen, Sez. V, 10 settembre 2021, n. 43690, Miccoli, n.m.