IL PAESE E LA LUNA – DI ALESSANDRO BARBANO
di Alessandro Barbano*
La prescrizione è il dito del populismo frapposto tra gli occhi di un Paese e la Luna. Tutti lo guardano, e si dividono sul giudizio. E tutti ignorano la Luna, la madre di tutte le emergenze, il buco nero della nostra democrazia. C’è chi, come il movimento Cinquestelle, che quel dito lo ha alzato per primo, si contenta di sapere che la prescrizione interrotta sine die non consentirà a nessun corrotto di farla franca. Chi, come il Pd e i suoi magistrati militanti di riferimento, sostiene che la riforma Bonafede è sbagliata ma è anche un’occasione di riflettere sui tempi lunghi della giustizia e di porvi rimedio. Chi, come Renzi, la riforma avrebbe voluto rinviarla di un anno o sei mesi, perché, perduto nel suo straniante tatticismo, si convince che quella vittoria parlamentare vale un recuperato protagonismo politico. Chi, da ultimo, come Forza Italia, la riforma vorrebbe cancellare con il colpo di scena di un voto bipartisan, che spacchi la maggioranza e il Pd. Ma tutti stanno dietro quel dito e nient’altro vedono. Compito del riformismo è aggirarlo e portare più cittadini possibile a guardare la Luna.
La Luna è un sistema malato. Che fa male al Paese. Perché troppe cose sono andate fuori posto. Il ruolo del pm è senza dubbio la prima, ma non l’unica, ad aver scarrocciato dai binari di una fisiologia sana, per diventare un fattore di turbativa del sistema giudiziario e di quello democratico, in cui il primo è iscritto. Nel nostro sistema l’indipendenza del pm coincide con la sua irresponsabilità. Non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche rispetto al suo stesso ufficio, dove opera esercitando un pieno controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle sue indagini. In un sistema accusatorio incompiuto, dove il ruolo dell’accusa è andato via via crescendo rispetto a quello della difesa, il pm si muove per tutta la lunga fase delle indagini preliminari come un poliziotto totalmente indipendente. Ciò rappresenta un unicum rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, dove non esiste una figura processuale dotata di poteri di polizia tanto ampi quanto non soggetti a controllo. Manca anzitutto un controllo gerarchico, perché l’azione di ogni singolo magistrato inquirente è ancora sottratta, in nome dell’indipendenza, a un vaglio di merito da parte del capo dell’ufficio. Non è un caso che quando il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, chiede di essere preventivamente informato dell’iscrizione nel registro degli indagati di persone coinvolte nelle indagini, si scateni la protesta dei suoi sostituti. E manca un controllo giurisdizionale connesso a una effettiva responsabilità rispetto all’appropriatezza dell’azione penale. Perché, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che questa è stata avviata per motivi irrilevanti penalmente o addirittura inesistenti, nessuna responsabilità concreta sarà mai imputata al pubblico ministero, né sotto il profilo disciplinare né ai fini di una valutazione della sua professionalità. Ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale, in nome della quale è sempre possibile invocare l’esistenza di indizi di reato che il pm era tenuto a verificare. Così questo principio costituzionale compie il miracolo di trasformare la più spregiudicata discrezionalità in un atto dovuto per legge.
Come ci ricorda uno dei più autorevoli studiosi dei sistemi penali, Giuseppe Di Federico, il pericolo dell’arbitrarietà è tanto più grande in un Paese dove i reati commessi sono molto più numerosi di quelli che concretamente possono essere perseguiti. Ciò significa lasciare al pm, attraverso la sua insindacabile scelta, l’esercizio della politica criminale. Ma in nessuno dei paesi a consolidata tradizione democratica la politica criminale è sottratta alla responsabilità di organi che rispondono politicamente ai cittadini. Questo sconfinamento in un ambito propriamente politico si specchia in quel fenomeno di irrituale investitura popolare che la magistratura in Italia ha ricevuto in alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e che rappresenta una prima turbativa rispetto alla separazione dei poteri su cui si fonda la democrazia rappresentativa.
Il Consiglio superiore della magistratura riflette tutte le contraddizioni qui raccontate. È un organo politico-corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una gerarchia dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. La politica ha perso molte occasioni per depoliticizzare il CSM, mettendo mano a una riforma dell’ordinamento giudiziario, più volte annunciata e mai compiuta, e ridefinendo i confini di un’indipendenza che ha fin qui impedito l’adozione di regole e principi di efficienza organizzativa.
La seconda asimmetria della giustizia italiana è l’ampiezza della custodia cautelare. Più di un detenuto su tre, cioè il 34,5 per cento contro una media europea del 22,4, è in carcere in attesa di giudizio, cioè in assenza di una sentenza definitiva che ne certifichi la colpevolezza. Ed è sintomatico che questa percentuale sia rimasta altissima nonostante i presupposti per l’adozione delle misure cautelari siano stati modificati in maniera più stringente, incentivando anche il ricorso alla detenzione domiciliare. Ciò vuol dire che le riforme garantiste scivolano sul corpo di un sistema dove sono i rapporti di forza tra i vari attori a fare in concreto la legge.
Il terzo fattore di squilibrio del sistema è il più grave ma anche il più sottovalutato, perché più tecnico e più difficilmente comprensibile dai cittadini. Riguarda lo slittamento da un diritto penale fondato sul reato a un diritto penale centrato sulla figura del reo. Un diritto penale di marca liberale mette al centro il fatto tassativamente descritto dalla norma, in quanto lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Il reato di omicidio persegue l’atto di uccidere che attenta al bene, massimamente protetto, della vita umana. Ciò implica due conseguenze: la prima è che la gravità del reato si collega alla sua offensività, cioè alla sua capacità di danneggiare il bene, oggetto di tutela. Non a caso i reati di pericolo, dove la lesione del bene è solo potenziale, e i reati di opinione, dove il bene si fa fatica a individuarlo senza sconfinare in una valutazione morale, trovano in un diritto penale liberale un’applicazione molto limitata, a tutela della libertà individuale. La seconda conseguenza riguarda il rapporto dell’azione penale con il reo: se persegue l’assassino, lo fa in quanto colpevole, cioè autore del fatto che costituisce il reato. Il comportamento o, addirittura, la personalità dell’omicida valgono per valutare la gravità del reato nel contesto in cui si compone il fatto, non come elementi penalmente rilevanti in sé. In un diritto liberale è la colpevolezza non la pericolosità il presupposto dell’azione punitiva dello Stato.
Perché la pericolosità è potenzialmente pericolosa. Implica un giudizio dell’autorità sul presunto reo che non rispetta i confini di tassatività della norma penale e il più delle volte sconfina nel soggettivismo. Il diritto penale in Italia sta sposando pericolosamente la pericolosità. Anzitutto con una serie di fattispecie penali inoffensive in sé, cioè prive di una lesione del bene giuridico. Pensate per esempio al traffico di influenze, un reato introdotto dalla legge Severino il cui confine con l’attività lecita del lobbismo è del tutto indeterminato e, quindi, soggettivamente determinabile.
La tendenza a fare della pericolosità – o anche del semplice pericolo di un pericolo – il fondamento dell’accertamento penale e della sanzione è specchio dell’influenza che ha il processo mediatico nel processo penale e della confusione che tra i due livelli si determina. Con l’effetto che l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. È in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni personali.
Ma la raccolta e l’esibizione indiscriminate di reperti umani si rivelano invasive oltre ogni limite. Non solo perché ignorano qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iper-pubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riducono la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolgono la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione.
Il processo mediatico prevale sul processo penale, e un metodo, che non fa onore a chi scrive definire “giornalistico”, tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. Così si realizza quello slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni.
La confusione non opera solo sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. Ci sono casi in cui il fenomeno è più ampio, integra uno scambio di paradigmi, per cui i criteri operativi con cui il giornalismo interpreta la notiziabilità e il senso della sua contrapposizione ai poteri sembrano riflettersi sul processo. È la sostituzione dell’illiceità penale con una generica ingiustizia. L’effetto è una dilatazione di alcune fattispecie, come la corruzione, oltre i confini di una patrimonialità in cui tradizionalmente si esprimeva la concreta lesione di un bene giuridico tutelato dalla norma penale. La nuova forma che la corruzione assume è giuridicamente inoffensiva, anche se moralmente riprovevole.
In un processo aperto a Firenze sul concorso nazionale di idoneità per i professori di diritto tributario, l’ipotesi di corruzione si fonda sul presunto scambio transattivo tra le aspettative di candidati che si riconoscono in due scuole accademiche culturalmente alternative, i cui rappresentanti sedevano nella commissione giudicatrice. È evidente che ciascuna delle due scuole è custode di un patrimonio di saperi e di idee diversamente orientati, e perciò tende a promuovere il proprio profilo ideologico. Possiamo anche definire questi processi corporativi e vischiosi, come effetto di un’angustia accademica. Ma scambiare la mazzetta con l’orgoglio di un docente per aver fatto avanzare un proprio allievo significa criminalizzare il funzionamento delle istituzioni civili. È quanto sta accadendo in Italia nell’inconsapevolezza pubblica.
Ma c’è ancora uno spazio ampissimo in cui la democrazia italiana ha sdoganato la pericolosità come il fondamento della pretesa punitiva dello Stato: è la legislazione speciale antimafia, interamente fondata sul sospetto, e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische. Il suo Corano è il codice per l’applicazione delle cosiddette misure di prevenzione, che consente allo Stato di acquisire patrimoni finanziari, immobili e aziende in assenza di un giudicato penale, cioè prima che sia intervenuta una sentenza di condanna. La sottrazione della proprietà avviene con un procedimento in camera di consiglio, che valuta la pericolosità sociale dei titolari dei beni e l’inspiegabile sproporzione tra la ricchezza conseguita e i mezzi professionali e finanziari diretti a produrla.
Le misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Sono figlie di un diritto cosiddetto del doppio binario, un diritto autoritario adottato dopo l’Unità d’Italia dalla destra storica per debellare i briganti, usato dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, fatto proprio dal Fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È la legge dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro evidenza e ogni censura, come quella della Corte di Giustizia Europea, che ha invano esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da qualche anno il diritto del doppio binario si è esteso a una enorme serie di ipotesi accusatorie, che vanno dalla mafia al peculato semplice, passando per la corruzione e l’abuso d’ufficio. Così la giustizia somiglia a un luogo dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti ed uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché.
Se quello fin qui compiuto è, a grandi linee, il racconto della Luna, da questa complessità il riformismo deve partire. Con un disegno organico, capace di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, di rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, di riformare il Csm, ridefinendo i confini di un’indipendenza a vantaggio di principi di efficienza organizzativa, di limitare l’abuso della custodia cautelare, di riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, di cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia, di ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando e riducendo i tempi dei processi, e da ultimo di restituire concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici. Questo progetto riformatore non ha nessuna possibilità di superare le resistenze corporative di un sistema refrattario a qualunque modifica, se non è sostenuto da una retorica autenticamente liberale, alternativa e opposta a quella del giustizialismo. Contro questa trincea difensiva si sono infranti tutti i tentativi di rimetterlo in discussione negli ultimi tre decenni.
Ma prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una “democrazia penale”. Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un idea nel corpo sociale: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in ipersorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica le ragioni dello Stato di diritto.
*Giornalista, Co-Responsabile dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane