IL VECCHIO DEL “NUOVO” E IL NUOVO DEL “VECCHIO” – A PROPOSITO DI LEGALITÀ PENALE – DI GIAN DOMENICO CAIAZZA
CAIAZZA – A PROPOSITO DI LEGALITÀ PENALE.PDF
di Gian Domenico Caiazza
Dibattito tra i difensori della legalità penale, ancorata al testo di legge, e i sostenitori del diritto giurisprudenziale e della funzione conformativa del precedente. Un intervento a margine del dibattito, per segnalare un elemento di novità.
Il dibattito tra i difensori della legalità penale, ancorata al testo di legge, e i sostenitori del diritto giurisprudenziale e della funzione conformativa del precedente, è da tempo al centro dell’attenzione. L’impressione che se ne potrebbe trarre è quella di una contrapposizione tra una aggiornata concezione della legalità, ossigenata dalla giurisprudenza CEDU, e le resistenze di illusi vetero-illuministi cui sfugge il senso di marcia della storia. In realtà, non è così: i due modelli di legalità, l’uno tipico della tradizione liberale e l’altro per così dire “nuovo”, di marca convenzionale, trovano la principale linea di distintiva nel livello delle rispettive ricadute garantistiche, certamente più elevato nella concezione dei rapporti tra giudice e legge penale improntata alla separazione dei poteri.
Prescindiamo pure dalle chiare indicazioni costituzionali, che vanno a favore dell’impostazione tradizionale, e puntiamo lo sguardo sul piano dei risultati. Com’è stato efficacemente osservato, da una parte della dottrina non sospettabile di conservatorismo culturale, il diritto giurisprudenziale ha visto la progressiva trasformazione del giudice, che da interprete di uno spartito è diventato libero compositore.
D’altro canto, nei due modelli cambia anche il ruolo della “prevedibilità del diritto”, che non è affatto assente nella impostazione tradizionale, nel cui contesto viene assicurata dal parametro del significato testuale, particolarmente stringente perché ritenuto insuperabile. La nuova legalità invece è, sotto questo profilo, ben più elastica, perché non dipende dalla formulazione dell’enunciato normativo, bensì dalla portata sostanziale del precedente.
Ma non è per ripetere cose note che intervengo a margine del dibattito, quanto per segnalare quello che a me pare un elemento di novità. Spero di non sbagliarmi nel dire che le due posizioni si stanno avvicinando, in ragione di alcune reciproche concessioni.
In verità, la concezione dell’attività interpretativa, fatta propria dall’impostazione tradizionale della legalità, non è più da tempo quella di Beccaria, che negava addirittura che le leggi dovessero interpretarsi. Nessuno – che io sappia – sostiene più questa tesi. È acquisito che ogni parola è portatrice di significati molteplici e differenti tra di loro, tra cui l’interprete sceglie. Questa consapevolezza va ben oltre l’asserita dimostrazione, per il vero banalizzante, dell’insopprimibile libertà ermeneutica che i sostenitori del nuovo corso conducono su una casistica di comodo alquanto stereotipata. Basta consultare il vocabolario per affermare che il concetto di uomo nell’art. 575 c.p. coincide con quello di persona umana, comprensiva della donna (il vocabolario parla chiaro: è uomo “ogni essere umano, senza riguardo al sesso”). Qui il problema ermeneutico, più che facilmente risolvibile, è semplicemente inesistente. Sembra un caso creato ad arte. Nessuno nega del resto che ci siano casi difficili che pongono problemi semantici nuovi (come la riconducibilità nel concetto di uomo del nascituro capace di vita autonoma e prossimo alla fine della gravidanza). Che qui il ragionamento non possa beneficiare di una codificazione linguistica, è fuori discussione.
Altri sono i casi in relazione ai quali vanno misurate le due impostazioni: mi riferisco alle interpretazioni che attualizzano il senso del precetto penale oltre i confini del suo inequivoco confine letterale. Allora sì che le due impostazioni divergono sensibilmente. Per fare un esempio, il diritto giurisprudenziale allarga la portata del delitto di cui all’art. 437 c.p. anche alle malattie professionali, là dove la norma fa riferimento solamente agli infortuni sul lavoro. L’art. 674 c.p. viene utilizzato per punire finanche gli inquinamenti olfattivi, dei quali non c’è traccia nella norma.
Ma come dicevo, i nuovi legalisti sembrano avere assunto da ultimo toni più concilianti, affermando che dopo tutto il diritto giurisprudenziale è chiamato a stabilizzare significati compatibili con l’enunciato normativo.
Se è così, abbiamo assistito alla classica tempesta in un bicchiere d’acqua.
In caso contrario, il contrasto – va detto chiaramente – non riguarda solo due metodiche di interpretazione, ma due diversi paradigmi penalistici, la cui scelta trascina con sé una necessaria riflessione sul reclutamento della magistratura.
L’avvocatura ha insistito e insiste tuttora sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudicanti, come complemento della scelta accusatoria sul terreno del processo penale, ma non ha mancato negli ultimi anni di sottolineare che, se dovesse mutare la legalità, la spinta riformistica dovrebbe estendersi inevitabilmente anche al posizionamento sociale della giurisdizione, in quanto competente a effettuare scelte politico-criminali.
Forse la prospettiva di uno sviluppo così impegnativo, ma necessario per evitare la rinascita del ceto dei liberi giusdicenti, è all’origine di un’attenuazione dell’enfasi sulla “nuova” legalità. Ben venga se le cose stanno così. Ciò confermerebbe il valore del confronto schietto e spassionato cui in molti stiamo partecipando.
*Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane