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LA “CARATURA” COSTITUZIONALE DELL’AVVOCATO PENALISTA DINNANZI ALL’EMERGENZA – DI STELLA ROMANO

LA “CARATURA” COSTITUZIONALE DELL’AVVOCATO PENALISTA DINNANZI ALL’EMERGENZA – DI STELLA ROMANO

ROMANO – LA CARATURA COSTITUZIONALE DELL’AVVOCATO PENALISTA DINNANZI ALL’EMERGENZA.PDF

LA “CARATURA” COSTITUZIONALE DELL’AVVOCATO PENALISTA DINNANZI ALL’EMERGENZA[1]

di Stella Romano[2]

Ogni crisi fonda, anche etimologicamente parlando, la necessità di un maggiore discernimento umano, capace di operare gli opportuni distinguo, al di là delle facili vulgate o dei biechi particolarismi, che possa al contempo condurre all’assunzione di una più matura consapevolezza collettiva. Una consapevolezza che, nell’ambito di questo drammatico frangente storico, ci impone probabilmente il superamento della rarefazione di categorizzazioni astratte imposte troppo grossolanamente dalla politica, per assumere sulle nostre spalle la profonda e concreta vocazione costituzionale della funzione difensiva, in un’ottica altresì di rinnovata solidarietà intergenerazionale.

 

  1. Il “Tribunale” di Kafka ai tempi dell’emergenza sanitaria.

 

Nel celebre romanzo “Il Processo”, Kafka rappresenta il Mistero, ovvero l’enigma della vita, con il Tribunale, un sistema burocratico macchinoso ed imperscrutabile, che sorveglia, accusa, processa e condanna gli uomini che a suo parere commettono colpe. Il Tribunale, ovvero il mistero, è inspiegabile con la ragione umana. Il Tribunale ha i suoi uffici ed ingranaggi in luoghi nascosti perché rappresenta una giustizia parallela alla giustizia umana.

Orbene, appare con evidenza oggi che l’emergenza sanitaria non solo abbia disvelato con forza brutale il mistero della precarietà dell’esistenza umana, ma abbia al medesimo tempo portato alla luce la farraginosità degli ingranaggi dell’apparato della macchina giudiziaria che, nella sua complicata gestione amministrativa, rischia di compromettere l’effettività del valore dello sviluppo della giurisdizione, in un parallelismo altamente sintomatico con l’allegoria kafkiana.

È stata unanime la presa di posizione del Consiglio nazionale forense e dell’Organismo congressuale forense, che nelle rispettive prerogative ed ambiti di competenza, unitamente ai singoli Ordini territoriali, hanno profuso il proprio impegno ad assumere ogni iniziativa utile affinché anche per il comparto della giustizia fosse possibile ripartire concretamente nell’interesse dei diritti dei cittadini, all’evidenza del superamento del picco della grave crisi sanitaria. Significativo a tale riguardo proprio quanto espresso dai vertici rappresentativi dell’Avvocatura:  “L’amministrazione della giustizia – spiegano Cnf e Ocf – a prescindere dalle esigenze della magistratura, dell’avvocatura e degli addetti agli uffici giudiziari, è un presidio di democrazia che riguarda tutti i cittadini, perché il suo funzionamento incide sulle irrinunciabili aspettative di essere tutelati, di veder riconosciuti i propri diritti in tempi accettabili e secondo la legge, e rappresenta il livello stesso di civiltà del Paese”. [3] Altrettanto forte ed incessante è stato l’impegno dell’Unione delle Camere Penali di costante monitoraggio e sollecitazione di risposte politiche chiare ed univoche dinnanzi all’intricata nube della macchina giudiziaria, dimentica nel suo lento procedere burocratico dell’essenzialità della giurisdizione, al cui centro si innesta imprescindibile la funzione difensiva.

Ciò premesso, ogni forma di “crisi” fonda, anche etimologicamente[4] parlando, la necessità di un maggiore discernimento umano, capace di operare gli opportuni distinguo, al di là delle facili vulgate o dei biechi particolarismi, che possa al contempo condurre all’assunzione di una più matura consapevolezza collettiva. Una consapevolezza che, nell’ambito di questo drammatico frangente storico, ci impone probabilmente il superamento della rarefazione di categorizzazioni astratte imposte troppo grossolanamente dalla politica, per assumere sulle nostre spalle la profonda e concreta vocazione costituzionale della funzione difensiva, in un’ottica altresì di rinnovata solidarietà intergenerazionale.

  1. La forza di resistenza passiva del ruolo costituzionalmente necessario del difensore.

 In un articolo pubblicato su Il Foglio il 26 luglio 2018, il Prof. Fiandaca, dinnanzi ad una certa propaganda politica, in cui constatava un uso strumentale del diritto penale, si chiedeva: “Chi ha oggi la forza di difendere nel dibattito pubblico ed all’interno della discussione parlamentare, le ragioni del garantismo penale così come trasfusi in un insieme di noti principi costituzionali che dovrebbero in teoria fungere da barriere allo strapotere di una maggioranza legiferante?”[5].

Una domanda che ricorre spesso nella riflessione sviluppata dagli studiosi di diritto penale nel corso degli ultimi decenni; una riflessione che si è incentrata proprio sui vincoli e limiti, che la Costituzione oppone alla discrezionalità del legislatore parlamentare al momento di decidere che cosa punire e come punire.

Sin dalla sua genesi, infatti, la Costituzione ha avuto il ruolo storico, politico e giuridico di tutela delle libertà. Uno strumento, quindi, a presidio di rigurgiti antidemocratici; pericolo che, soprattutto nel settore giuridico, veniva particolarmente avvertito in ragione dell’ultrattività dei codici i quali, ancorché di pregevole fattura tecnica, certamente non rappresentavano il “nuovo stato di cose”.

E l’esperienza storica, anche recente, dimostra quanto sia intenso il dibattito ideologico e politico sui principi fondamentali della giustizia penale, proprio perché si tratta di una funzione imprescindibile dello Stato (quella, forse, nella quale si manifesta in maniera più visibile la sua sovranità) necessariamente destinata ad incidere su beni di primaria importanza quali la libertà e l’onore delle persone.

Non vi è dubbio che l’emergenza sanitaria, con il portato alluvionale della sua produzione legislativa ed il precipitato altrettanto disorganico di tale legislazione sulla concreta operatività dell’amministrazione della giustizia, abbia maggiormente messo in risalto la necessità di tale dibattito pubblico ed il ruolo indispensabile del suo principale protagonista: l’Avvocatura.

Ed è proprio prendendo le mosse dalla valenza che la figura dell’avvocato assume nel nostro quadro costituzionale, ossia valorizzando le radici profonde della funzione difensiva che, a mio modesto avviso, una risposta chiara e definita può essere data al richiamato interrogativo di Giovanni Fiandaca, oggi più che mai divenuto decisivo.

Volgendo lo sguardo proprio alle profonde radici storiche che la funzione giurisdizionale assumeva nel dibattito costituente, si forgia in maniera plastica l’alta valenza costituzionale attribuita all’avvocato.

Il dibattito in Assemblea Costituente – tanto nel Plenum quanto nelle Sottocommissioni – mostra, infatti, bene l’indubbia pregnanza dell’attività esercitata dall’avvocato che emerse soprattutto in due momenti del dibattito: quando si discusse del diritto di difesa in giudizio nonché della composizione di alcuni organi costituzionali e di rilievo costituzionale.

Mi limiterò alla citazione di due passaggi significativi.

 L’Onorevole La Rocca, avvocato penalista, in Assemblea, il 26 novembre 1947[6] quando si trattò del diritto di difesa dei non abbienti, osservò che “Il povero, in giudizio, deve avere qualcuno che lo sostenga, con calore, con fede. E questo bisogno è stato sentito e tradotto in formule giuridiche, in tutte le legislazioni […] Per la legislazione romana, una favola triste suona, secondo la quale l’esercizio forense sarebbe stato una spoliazione e una rapina: esso era honorificum munus; e sorse come insegna e come scudo del diritto, finché, per abusi intervenuti, la famosa legge Cinzia proibì il compenso e impose il gratuito. L’avvocato (vir bonus, dicendi peritus) era chiamato dalla voce dell’affetto o del sangue, accanto al reo, nell’ora della sciagura. E il rostro, da cui si dilatava la musica verbale dei grandi oratori, era un po’ la casa sicura dei più deboli”. Le profonde radici storico – umanistiche citate nell’intervento del Costituente ci mostrano il congenito bisogno presente in ogni civiltà dell’avvocatura quale “casa sicura dei più deboli”.

 Anche quanto al secondo profilo (nel quale il rilievo costituzionale dell’avvocato emerge quando l’appartenenza alla categoria, specie se per un periodo prolungato, assurge – non a caso – a requisito per la nomina a membro di organi costituzionali o di rilievo costituzionale) ci si può limitare ad una breve quanto pregnante citazione. Interessa, qui, infatti, un intervento a proposito di quello che sarebbe poi divenuto l’art. 106, comma 3, Cost. (in cui si prevede che possono essere nominati all’ufficio di consigliere di cassazione avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli Albi speciali per le giurisdizioni superiori). Si tratta dell’intervento dell’On. Conti alla seduta del 26 novembre 1947: “Non si può vietare che avvocati insigni, che uomini di grande altezza intellettuale, passino alla Magistratura dalla professione. Sono convinto della importanza di questo principio: che nella Magistratura dovrebbero avere ingresso elementi che escano anche dalla professione di avvocati, perché la Magistratura ha bisogno di elementi esperti, preparati con l’esercizio dell’avvocatura. Disse un giorno qui un grande avvocato della parte politica alla quale io appartengo, Antonio Pellegrino: «il giudice prendetelo fatto», cioè formato, cioè preparato alla grande funzione del giudicare. La classe degli avvocati può dare alla Magistratura ottimi elementi[7].

Orbene, tale intervento testimonia che alla Costituente si era consapevoli dell’essenzialità dell’opera dell’avvocato per il funzionamento del sistema-giustizia nonché del suo valore anche pubblicistico, che è sempre presente nonostante la natura privata e pienamente libera (in quanto assistita dalle garanzie dell’art. 33 Cost.) della professione forense[8]. Un intervento che propizia certamente, afferrandone le comuni radici, quel confronto dialogico tra avvocatura e magistratura, che, forse, oggi ancor più che ieri, allorquando nubi si addensano sul connotato dell’indipendenza dell’ordine della magistratura, si rende più necessario proprio nella difesa dei principi costituzionali legati all’indefettibilità della funzione giurisdizionale.

Si tratta di passi significativi, che dimostrano la considerazione che i Costituenti (molti dei quali, del resto, erano anch’essi avvocati) ebbero per l’avvocatura. Quel che più conta, però, è l’attenzione implicita che all’avvocatura la Costituzione ha riservato, quando, all’art. 24, ha disposto che “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (comma 2) e che “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione” (comma 3).

Nell’interpretazione datane dalla Corte costituzionale nell’importante pronuncia n. 125 del 1979, particolarmente delicata, perché resa in una fattispecie in cui un imputato aveva rifiutato non solo la difesa, ma l’intero processo, contestando la “giustizia di regime”, si afferma che l’art. 24 Cost. ha come finalità “essenziale” quella di “garantire a tutti la possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni”. È proprio in forza di questa essenzialità che “Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante l’attività o con l’assistenza del difensore, dotato di specifica qualificazione professionale, essendo limitata a controversie ritenute di minore importanza ovvero a procedimenti penali per reati cosiddetti bagatellari la possibilità che la difesa venga esercitata esclusivamente dalla parte”.

Come si vede, da questa pronuncia si desume che la Costituzione, per il solo fatto di aver riconosciuto il diritto di difesa, al medesimo tempo ha esaltato anche l’essenzialità del ruolo della difesa tecnica, sebbene (ovviamente nei limiti della ragionevolezza) al legislatore sia consentito prescinderne in determinate fattispecie. Tale sentenza si inserisce in un più ampio filone nel quale si incontrano numerose altre pronunce, nelle quali la “caratura” costituzionale della funzione difensiva emerge con palpabile evidenza. Limitandosi alle più significative, si possono ricordare:

  1. a) la sent. n. 46 del 1957, nella quale si è affermato che “il diritto della difesa […], intimamente legato alla esplicazione del potere giurisdizionale e alla possibilità di rimuovere le difficoltà di carattere economico che possono opporsi […] al concreto esercizio del diritto medesimo, deve essere inteso come potestà effettiva della assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi processo, in modo che venga assicurato il contraddittorio e venga rimosso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti. Così il compito della difesa assume una importanza essenziale nel dinamismo della funzione giurisdizionale, tanto da poter essere considerato come esercizio di funzione pubblica […]”;
  2. b) la sent. n. 120 del 1972, nella quale si è detto, addirittura, che “le prestazioni del procuratore legale sono dall’ordinamento considerate servizio di pubblica necessità e costituiscono, normalmente, strumento necessario per l’esercizio del diritto di difesa garantito dalla Costituzione (art. 24)”;
  3. c) la sent. n. 498 del 1989, ove si dice che l’esigenza del difensore nel processo è “assoluta ed inderogabile perché introduce un protagonista senza il quale, specie e tanto più nel nuovo processo, esso non può, da un certo momento in poi, nemmeno proseguire. In realtà, l’imposizione all’imputato di un difensore, persino suo malgrado, mira ad assicurargli quelle cognizioni tecnico-giuridiche, quell’esperienza processuale e quella distaccata serenità, che gli consentono di valutare adeguatamente le situazioni di causa, in guisa da tutelare la sua più ampia libertà di determinazione nella scelta delle iniziative e dei comportamenti processuali”;
  4. d) nella sent. n. 171 del 1996, poi, sono stati riconosciuti “l’impegno e lo scrupolo deontologico con cui avvocati e procuratori assolvono quotidianamente una funzione insostituibile per il corretto svolgimento della dinamica processuale”, nonché i “meriti storici che l’avvocatura ha acquisito anche fuori delle aule di giustizia, contribuendo alla crescita culturale e civile del Paese e, soprattutto, alla difesa delle libertà[9].

 

  1. Brevi conclusioni.

 

Ora, se il dato formale e giurisprudenziale, di tenuta costituzionale, può certamente fornire una legittimazione più forte del ruolo dell’avvocato, tuttavia, si ritiene che la sua alta funzione sociale non può che essere rinvigorita e rafforzata da una ricca formazione umana e culturale prima che giuridica, che faccia dell’avvocato “un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé; assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce” (P. Calamandrei).

Una formazione culturale che gli conceda anche quella forza di ergersi a voce critica di scelte politiche spesso dissennate ed incuranti di quel bagaglio di civiltà che invece emerge dal percorso storico appena tracciato[10]. Scelte politiche che, proprio in tale momento di crisi sanitaria, hanno completamente obliterato l’alta valenza costituzionale della figura del difensore, tentando, da un lato di ridurlo, attraverso il processo da remoto, ad una mera figurina in uno schermo di qualsivoglia piattaforma commerciale e, dall’altro delegando alla discrezionalità dell’autorità amministrativa l’effettività del nocciolo duro dell’estrinsecazione del diritto di difesa.

In questo senso, l’Unione delle Camere penali non possono che svolgere un ruolo primario, assumendo su di sé l’ascolto, la formazione, l’aiuto ed il sostegno concreto soprattutto delle nuove generazioni, oggi più che mai paralizzate, per i lacciuoli economici imposti dalla stasi del sistema, nel pieno sviluppo delle loro potenzialità di futuro[11], rendendole sempre più adatte ed inclini a riconoscere il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza e dell’ingiustizia e soprattutto a sperimentare il fresco profumo di libertà, vero e genuino momento essenziale di questa professione.

In una democrazia rispettosa dei principi garantistici, la risposta alla domanda di Fiandaca, non può che ricadere sull’avvocato penalista, un avvocato debitamente formato ed intriso di valori essenziali. Una risposta che si giustifica, eticamente e politicamente, nell’affermazione più piena e realizzata del sommo principio personalista, che esprime una priorità di valore: non è la persona per lo Stato, ma lo Stato è per la persona.

[1] Rivisitazione ed attualizzazione della relazione tenuta a Verona il 22 febbraio 2019 alla Tavola Rotonda: “L’avvocato penalista per la Costituzione”.

[2] Avvocato penalista, Dottore europeo di ricerca in diritto costituzionale, Componente Osservatorio Corte Costituzionale Ucpi.

[3] “Giustizia ferma, a rischio la tenuta sociale del Paese”, in Il Dubbio, 6 giugno 2020.

[4]  Dal greco: krísis: ‘scelta, decisione’; derivazione di krínein: ‘distinguere, decidere’.

[5] G. Fiandaca, Quando la giustizia è in ostaggio, il Foglio, 26 luglio 2018.

[6] Atti Ass. Cost., vol. IX, pp. 2515 sgg.

[7] Atti Ass. Cost., vol. IX, pp. 2510 sg.

[8] G. Zagrebelsky, L’autodifesa di fronte alla Corte costituzionale, in Giur. cost., 1979, I, 858.

[9]  Per una completa ed esaustiva ricostruzione dell’avvocatura nella Costituzione, si confronti il documento prodotto dal CNF “L’avvocatura e la Costituzione”.

[10] Sulla necessità della costante formazione dei più giovani si veda anche: F. Petrelli, Al fianco degli ultimi da sempre, in Diritto di difesa on-line, Editoriale, 2 giugno 2020.

[11] Cfr. sul tema economico decisivo per il futuro dell’avvocatura G. Varano, Whatever it takes, in Diritto di difesa on -line, 29 marzo 2020.