LA CORTE DI GIUSTIZIA INTERVIENE SULLA POSSIBILITÀ DI ACQUISIRE I TABULATI: CAMBIA LA NORMA INTERNA MA RIMANE IL PROBLEMA DEL DIRITTO INTERTEMPORALE – DI AMEDEO BARLETTA
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di Amedeo Barletta*
Note in prima lettura al Decreto Legge 30 settembre 2021 n. 132, con particolare riguardo alle modifiche alla disciplina di acquisizione dei tabulati telefonici.
1.
Grandi discussioni ha prodotto in giro per le aule giudiziarie italiane la vicenda dei tabulati telefonici acquisiti, almeno sino alla sentenza dello scorso 2 marzo 2021 della Corte di Giustizia UE, dai Pubblici ministeri italiani senza grosse limitazioni o particolari condizioni, sulla base del disposto dell’art. 132 del D.Lgs. n. 196/2003; disposizione quest’ultima oggetto di intervento d’urgenza mediante lo strumento del Decreto Legge, proprio per rimediare ad una patente infrazione del diritto UE cagionata dalle prassi seguite nelle aule giudiziarie italiane (ma il problema non è solo italiano).
Il riferimento è al D.L. n. 132/2021 recante “Misure urgenti in materia di giustizia e difesa, nonché proroghe in tema di referendum, assegno temporaneo e IRAP” che ha però deciso di non procedere a disciplinare le questioni di diritto intertemporale, nulla statuendo circa la sorte della documentazione probatoria acquista sulla base di una disciplina poi rivelatasi come incompatibile con il diritto UE e che il legislatore italiano ha provveduto a modificare provando a recepire (in maniera non immune da rilievi a parere di chi scrive) le sollecitazioni prodotte dal combinato disposto del diritto sovranazionale, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla interpretazione fornita del quadro del diritto unionale da parte della Corte di giustizia UE (e non solo nella sentenza del 2 marzo scorso ormai ben nota in Italia).
2.
Ma andiamo con ordine. Lo scorso 2 marzo la Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sua massima composizione (Grande camera), in causa C-746/18, ha emesso una decisione di rilevante impatto anche per il diritto interno e nel caso di specie per il processo penale.
Chiamata a pronunciarsi sulla base di un rinvio pregiudiziale della Corte suprema estone la Corte di giustizia ha ribadito la sua precedente giurisprudenza (Sentenza della Corte del 6 ottobre 2020, Privacy International, in causa C-623/17; sentenza della Corte del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net, cause riunite C-511/18, C-512/18, C-520/18) chiarendola ulteriormente per quanto riguarda gli effetti anche nell’ambito del processo penale.
La questione concerne la possibilità di acquisire nel processo penale tabulati relativi a dati idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente o sulla ubicazione delle apparecchiature terminali utilizzate allorquando tali informazioni consentano anche di trarre precise conclusioni sulla vita privata senza che tale possibilità sia circoscritta a forme gravi di criminalità.
Di conseguenza si è frapposto un limite oggettivo alla acquisibilità di tabulati relativi a comunicazioni elettroniche e si è provveduto anche a individuare un limite soggettivo quanto alla autorità alla quale un tale accesso alle informazioni è consentito.
Secondo la Corte: “L’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale consenta l’accesso di autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica o sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate e a permettere di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo”.
Ma non solo. La Corte ha avuto modo di pronunciarsi (ribadendo anche in questo caso una posizione consolidata) anche su quale sia l’Autorità nazionale abilitata ad autorizzare l’accesso alle banche dati dei gestori del traffico telefonico ed elettronico in senso lato; secondo la Corte:
“L’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, come modificata dalla direttiva 2009/136, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale”.
3.
La Corte, come detto, ha innescato un rilevante dibattito nella giurisprudenza interna sia di merito che di legittimità conducendo il Tribunale di Rieti (la sezione penale in composizione collegiale) a rimettere a sua volta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, una questione di interpretazione pregiudiziale alla Corte di Giustizia (Ordinanza del 26 maggio 2021).
Il ricorso, registrato a Lussemburgo con il numero di causa C-334/21, pone alla Corte dell’Unione le seguenti questioni:
“Se l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/581 , letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta di Nizza, in forza anche dei princìpi stabiliti dalla stessa [Corte di giustizia dell’Unione europea] nella sentenza del 2 marzo 2021 nella causa C-746/18, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, prevista dall’articolo 132, comma 3, del decreto legislativo n. 196/2003, la quale renda il pubblico ministero, organo dotato di piene e totali garanzie di indipendenza e autonomia come previsto dalle norme del Titolo IV della Costituzione italiana, competente a disporre, mediante decreto motivato, l’acquisizione dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale.
Nel caso in cui alla prima domanda sia data risposta negativa, se sia possibile fornire ulteriori chiarimenti interpretativi riguardanti una eventuale applicazione irretroattiva dei princìpi stabiliti nella sentenza del 2 marzo 2021, causa C-746/18, tenuto conto delle preminenti esigenze di certezza del diritto nell’ambito della prevenzione, accertamento e contrasto di gravi forme di criminalità o minacce alla sicurezza.
Se l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta di Nizza, in forza anche dei princìpi stabiliti dalla stessa [Corte di giustizia dell’Unione europea] nella sentenza del 2 marzo 2021 nella causa C-746/18, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, prevista dall’articolo 132, comma 3, del decreto legislativo n. 196/2003, letto alla luce dell’articolo 267, comma 2, Codice di procedura penale, la quale consenta al pubblico ministero, in casi di urgenza, l’immediata acquisizione dei dati del traffico telefonico con successivo vaglio e controllo del giudice procedente”.
Le domande poste dalla Corte laziale sono finalizzate ad una più chiara ed esplicita risoluzione di questioni e opzioni interpretative comunque abbastanza chiare sulla base della stabile giurisprudenza della Corte tanto che il Governo, come detto, si è presto determinato ad intervenire con la decretazione di urgenza, in sostanza recependo le sollecitazioni provenienti dalla interpretazione fornita dai giudici UE.
Ciò non impediva l’evoluzione di un dibattito assai consistente entro i confini nazionali che ha coinvolto corti di merito e di legittimità oltre a suscitare la predisposizione di autorevoli documenti comunque provenienti dall’ambito della Suprema Corte che si sono diffusi su questioni complesse ma antiche riguardanti la capacità del diritto UE, come interpretato dalla Corte di giustizia, di produrre effetti direttamente nell’ordinamento interno, da un lato imponendo una interpretazione conforme della disciplina nazionale e dall’altro giungendo sino a determinare la disapplicazione della disciplina nazionale incompatibile con il diritto UE.
L’intervento riformatore operato dal Governo, proprio perché manchevole di una disciplina transitoria, potrebbe comunque giovarsi di una nuova pronuncia da parte del giudice di Lussemburgo al fine di comprendere la piena portata degli obblighi derivanti dal diritto UE, proprio per quanto riguarda le situazioni sottoposte al dominio della previgente disciplina. Ma a non voler attendere la pronuncia che sarà auspicabilmente resa nel procedimento innescato dal Tribunale di Rieti (per il quale la Corte ha deciso di non seguire le regole della procedura d’urgenza) va richiamata una certa prudenza ed auspicata l’attesa di ulteriori sentenze della Corte di Lussemburgo che dovrebbero giungere a breve.
Sono infatti in programma per i prossimi mesi alcune ulteriori decisioni della Corte Ue che da un lato promettono di consentire di comprendere ancora meglio i confini degli obblighi eurounitari e dall’altro suggeriscono una certa cautela quanto a frettolose soluzioni che potrebbero risultare come pienamente incompatibili con gli obblighi di provenienza sovranazionale.
Va anche aggiunto come all’osservatore attento non sarà certamente sfuggito che già nelle precedenti decisioni alcune questioni siano state comunque affrontate e in una certa misura chiarite.
Sul punto degli effetti della normativa UE sul diritto interno incompatibile alcune coordinate interpretative sono infatti fornite dalla citata e fondamentale sentenza nota con il nome di una delle parti del ricorso: La Quadrature du net.
4.
La sentenza fornisce infatti interessanti spunti in tema di applicazione del principio del tempus regit actum oltre che offrire un punto di vista con riguardo alla utilizzabilità delle prove acquisite sulla base di una disciplina abrogata.
Va tenuto presente, con riferimento alla eventuale applicazione del canone interpretativo per cui tempus regit actum, che la disciplina pro tempore vigente è risultata illegittima dal punto di vista degli obblighi europei a partire dalla modifica intervenuta con la direttiva 2009/136 che riscriveva l’articolo 15 della direttiva 2002/58 relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.
Vale inoltre la pena ricordare come la stessa giurisprudenza di legittimità interna, con orientamento maturato in tema di intercettazioni, tenda a scindere la valutazione della legittimità con riferimento al momento di formazione della prova e con riferimento al momento della sua utilizzazione (vedi Cass. pen. Sez. III Sent., 29/01/2015, n. 21451).
Sempre con riferimento, inoltre, alla gestione delle situazioni riferibili alla vigenza della precedente disciplina interna, quella accertata come non rispettosa degli obblighi derivanti dal diritto UE, viepiù rafforzati da una incompatibilità accertata anche ai sensi della Carta dei diritti fondamentali UE (con rilievo dunque costituzionale), ci si è inoltre da più parti posti il problema di una possibile efficacia differita delle disposizioni europee o delle sentenze che hanno accertato l’incompatibilità del diritto nazionale pur in presenza di un decisum della Corte UE chiaro e incondizionato da cui dovrebbe conseguire la disapplicazione delle disposizioni interne che confliggono con un diritto (o un obbligo giuridico di tutela) immediatamente derivante dal diritto UE.
Tutte queste questioni potrebbero, come detto, ricevere un chiarimento dagli ulteriori procedimenti che riguardano la tematica della corretta interpretazione della disciplina in tema di data retention, con la formulazione all’indirizzo della Corte di similari questioni relative alla efficacia in diritto interno delle disposizioni UE.
È il caso dei procedimenti nelle cause riunite C-739/19 e C-749/19 Space Net e nella causa C-140/20 Dwyer, oltre che nelle cause riunite C-339/20 e C-397/20 VD e a.
Ma anche a non volere attendere i richiamati giudizi pendenti la giurisprudenza offre chiare indicazioni ai giudici nazionali su come procedere nella corretta applicazione delle diposizioni e degli obblighi derivati dal diritto UE.
Specificamente sulle questioni afferenti alle problematiche connesse alla conservazione ed acquisizione dei dati si è infatti pronunciata la Corte di Lussemburgo nell’ambito della citata e ben nota causa La Quadrature du net, originata da un rinvio del Consiglio di Stato francese e della Corte costituzionale belga.
Illuminanti sul punto sono i paragrafi 214-228 della sentenza che di seguito si riportano:
“214. Il principio del primato del diritto dell’Unione sancisce la preminenza del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri. Tale principio impone pertanto a tutte le istituzioni degli Stati membri di dare pieno effetto alle varie norme dell’Unione, dato che il diritto degli Stati membri non può sminuire l’efficacia riconosciuta a tali differenti norme nel territorio dei suddetti Stati [sentenze del 15 luglio 1964, Costa, 6/64, EU:C:1964:66, pagg. 1143 e 1144, e del 19 novembre 2019, A.K. e a. (Indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema), C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, EU:C:2019:982, punti 157 e 158 e giurisprudenza citata].
- In base al principio del primato, ove non sia possibile procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale [sentenze del 22 giugno 2010, Melki e Abdeli, C‑188/10 e C‑189/10, EU:C:2010:363, punto 43 e giurisprudenza citata; del 24 giugno 2019, Popławski, C‑573/17, EU:C:2019:530, punto 58, e del 19 novembre 2019, A.K. e a. (Indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema), C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, EU:C:2019:982, punto 160].
- Solo la Corte [UE] può, eccezionalmente e per considerazioni imperative di certezza del diritto, concedere una sospensione provvisoria dell’effetto di disapplicazione esercitato da una norma di diritto dell’Unione rispetto a norme di diritto interno con essa in contrasto. Una siffatta limitazione nel tempo degli effetti dell’interpretazione data dalla Corte a tale diritto può essere concessa solo nella stessa sentenza che statuisce sull’interpretazione richiesta [v., in tal senso, sentenze del 23 ottobre 2012, Nelson e a., C‑581/10 e C‑629/10, EU:C:2012:657, punti 89 e 91; del 23 aprile 2020, Herst, C‑401/18, EU:C:2020:295, punti 56 e 57, e del 25 giugno 2020, A e a. (Turbine eoliche di Aalter e Nevele), C‑24/19, EU:C:2020:503, punto 84 e giurisprudenza citata].
- Il primato e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione risulterebbero pregiudicati se i giudici nazionali avessero il potere di attribuire alle norme nazionali il primato, anche solo provvisoriamente, in caso di contrasto con il diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 29 luglio 2019, Inter‑Environnement Wallonie e Bond Beter Leefmilieu Vlaanderen, C‑411/17, EU:C:2019:622, punto 177 e giurisprudenza citata).
- Tuttavia, la Corte ha dichiarato, in una causa nella quale era in discussione la legittimità di misure adottate in violazione dell’obbligo sancito dal diritto dell’Unione di effettuare una valutazione preliminare delle incidenze di un progetto sull’ambiente e su un sito protetto, che un giudice nazionale può, se il diritto interno lo consente, eccezionalmente mantenere gli effetti di siffatte misure qualora tale mantenimento sia giustificato da considerazioni imperative connesse alla necessità di scongiurare una minaccia grave ed effettiva di interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica dello Stato membro interessato, cui non si potrebbe far fronte mediante altri mezzi e alternative, in particolare nell’ambito del mercato interno, e detto mantenimento può coprire soltanto il lasso di tempo strettamente necessario per porre rimedio a tale illegittimità (v., in tal senso, sentenza del 29 luglio 2019, Inter‑Environnement Wallonie e Bond Beter Leefmilieu Vlaanderen, C‑411/17, EU:C:2019:622, punti 175, 176, 179 e 181).
- Orbene, a differenza dell’omissione di un obbligo procedurale quale la valutazione preliminare delle incidenze di un progetto nell’ambito specifico della tutela dell’ambiente, una violazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, non può essere oggetto di regolarizzazione mediante una procedura analoga a quella menzionata al punto precedente. Infatti, il mantenimento degli effetti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nei procedimenti principali, implicherebbe che detta normativa continui ad imporre ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica obblighi che risultano contrari al diritto dell’Unione e comportano ingerenze gravi nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono stati conservati.
- Pertanto, il giudice del rinvio non può applicare una disposizione del suo diritto nazionale che lo autorizza a limitare nel tempo gli effetti di una dichiarazione di illegittimità ad esso incombente, in forza di tale diritto, della legislazione nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali.
- Ciò premesso, nelle loro osservazioni presentate alla Corte, VZ, WY e XX sostengono che la terza questione solleva, implicitamente ma necessariamente, il problema se il diritto dell’Unione osti all’utilizzo, nell’ambito di un procedimento penale, di informazioni ed elementi di prova che sono stati ottenuti mediante una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione incompatibile con tale diritto.
- A tal riguardo, e al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio, occorre ricordare che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, spetta, in linea di principio, esclusivamente al diritto nazionale determinare le norme relative all’ammissibilità e alla valutazione, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di persone sospettate della commissione di reati gravi, di informazioni ed elementi di prova ottenuti mediante una siffatta conservazione di dati contraria al diritto dell’Unione.
- Infatti, conformemente a una giurisprudenza costante, in assenza di una normativa dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, ai sensi del principio dell’autonomia procedurale, stabilire le modalità processuali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, a condizione tuttavia che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenze del 6 ottobre 2015, Târşia, C‑69/14, EU:C:2015:662, punti 26 e 27; del 24 ottobre 2018, XC e a., C‑234/17, EU:C:2018:853, punti 21 e 22 e giurisprudenza citata, e del 19 dicembre 2019, Deutsche Umwelthilfe, C‑752/18, EU:C:2019:1114, punto 33).
- Per quanto concerne il principio di equivalenza, spetta al giudice nazionale investito di un procedimento penale fondato su informazioni o elementi di prova ottenuti in violazione dei requisiti risultanti dalla direttiva 2002/58 verificare se il diritto nazionale che disciplina tale procedimento preveda norme meno favorevoli riguardo all’ammissibilità e all’uso di tali informazioni ed elementi di prova rispetto a quelle che disciplinano le informazioni e gli elementi di prova ottenuti in violazione del diritto interno.
- Quanto al principio di effettività, occorre rilevare che lo scopo delle norme nazionali relative all’ammissibilità e all’uso delle informazioni e degli elementi di prova consiste, in base alle scelte operate dal diritto nazionale, nell’evitare che informazioni ed elementi di prova ottenuti in modo illegittimo rechino indebitamente pregiudizio a una persona sospettata di avere commesso reati. Orbene, tale obiettivo può, secondo il diritto nazionale, essere raggiunto non solo con un divieto di utilizzare tali informazioni ed elementi di prova, ma altresì mediante norme e prassi nazionali che disciplinano la valutazione e la ponderazione delle informazioni e degli elementi di prova, o prendendo in considerazione il loro carattere illegittimo nell’ambito della determinazione della pena.
- Ciò premesso, dalla giurisprudenza della Corte risulta che la necessità di escludere informazioni ed elementi di prova ottenuti in violazione delle prescrizioni del diritto dell’Unione deve essere valutata alla luce, in particolare, del rischio che l’ammissibilità di tali informazioni ed elementi di prova comporta per il rispetto del principio del contraddittorio e, pertanto, del diritto a un processo equo (v., in tal senso, sentenza del 10 aprile 2003, Steffensen, C‑276/01, EU:C:2003:228, punti 76 e 77). Orbene, un giudice che ritenga che una parte non sia in grado di dedurre efficacemente in merito a un mezzo di prova che rientra in un settore che esula dalla competenza dei giudici e può influenzare in modo preponderante la valutazione dei fatti deve constatare una violazione del diritto a un processo equo ed escludere tale mezzo di prova al fine di evitare una violazione del genere (v., in tal senso, sentenza del 10 aprile 2003, Steffensen, C‑276/01, EU:C:2003:228, punti 78 e 79).
- Pertanto, il principio di effettività impone al giudice penale nazionale di non tenere conto degli elementi di prova ottenuti mediante una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione incompatibile con il diritto dell’Unione, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di persone sospettate di avere commesso atti di criminalità, qualora dette persone non siano in grado di prendere efficacemente posizione su tali informazioni ed elementi di prova, che provengono da un settore che esula dalla competenza dei giudici e possono influenzare in maniera preponderante la valutazione dei fatti.
- Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla terza questione nella causa C‑520/18 dichiarando che un giudice nazionale non può applicare una disposizione del suo diritto nazionale che lo autorizzi a limitare nel tempo gli effetti di una dichiarazione di illegittimità ad esso incombente, in forza di tale diritto, nei confronti di una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, a fini, in particolare, di salvaguardia della sicurezza nazionale e di lotta alla criminalità, una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione incompatibile con l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. Detto articolo 15, paragrafo 1, interpretato alla luce del principio di effettività, impone al giudice penale nazionale di non tenere conto delle informazioni e degli elementi di prova ottenuti mediante una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione incompatibile con il diritto dell’Unione, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di persone sospettate della commissione di reati, qualora dette persone non siano in grado di prendere efficacemente posizione su tali informazioni ed elementi di prova, che provengono da un settore che esula dalla competenza dei giudici e che possono influenzare in modo preponderante la valutazione dei fatti”.
5.
La Corte, dunque, sgombra il campo da molti degli equivoci sul tappeto, chiarendo quali siano i principi di diritto alla luce dei quali deve operare e decidere il giudice nazionale.
Non ha inoltre alcun senso la ricorrente obiezione circa una presunta indeterminatezza della disciplina UE come disegnata dall’intervento della Corte UE, non essendo affatto indeterminato il quadro delineato dalle pronunzie della Corte e lo è ancor meno oggi allorquando il legislatore interno ha altresì provveduto a regolare alcuni elementi che apparivano meno evidenti con riferimento innanzitutto al catalogo dei reati gravi, per cui è intervenuta una valutazione di proporzionalità da parte del legislatore nazionale (valutazione che in assenza dell’intervento del legislatore dello Stato membro puó invero essere assunta sulla base dello stesso diritto UE che all’art. 83 TFUE popone un catalogo di reati gravi che avrebbe potuto costituire valido ausilio del giudice nazionale anche prima della regolamentazione operata dal Governo con decreto legge).
È dunque difficilmente contestabile come, già all’esito dell’intervento giurisprudenziale dello scorso marzo, la Corte UE avesse fornito una chiara interpretazione del diritto UE, interpretazione capace di orientare il giudice nazionale, fornendo una soluzione immediatamente idonea a determinare la disapplicazione del diritto interno incompatibile con gli obblighi derivanti dal diritto UE, con conseguente applicazione dei principi enunciati in via pretoria.
Che una tale semplice assunzione sia rimasta e continui ad essere oggetto di dubbioso dibattito lascia in un certo senso interdetti anche in ragione del fatto che nel caso di specie la soluzione conforme al diritto sovranazionale cogente è in bonam partem e rispettosa dei canoni costituzionali, laddove, invece, nel dibattito interno, nel passato, è stata più volte proposta, in maniera in quei casi poco compatibile con gli stessi principi dell’Unione, la disapplicazione di norme con effetti in malam partem, soluzione questa mai praticabile sulla base della applicazione di disposizioni europee (in tal senso il leading case è la sentenza dell’8 ottobre 198, Kolpinghuis Nijmegen, C-80/86 ma anche la sentenza del 3 maggio 2005, Berlusconi, C-387/02).
*Avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere, responsabile Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane.