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LA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA FRA SPINTE SECURITARIE  E DIRITTI DELL’INDIVIDUO – DI FRANCESCO PETRELLI

LA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA FRA SPINTE SECURITARIE E DIRITTI DELL’INDIVIDUO – DI FRANCESCO PETRELLI

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LA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA FRA SPINTE SECURITARIE E DIRITTI DELL’INDIVIDUO

di Francesco Petrelli

La recensione del Direttore Francesco Petrelli della monografia Legislazione Antimafia. “Doppio binario” e modello differenziato di giustizia penale di Veronica Manca. L’Autrice si muove lungo quell’ampio spettro che conduce dalla radice mitologica della pena ai suoi più ambigui sviluppi contemporanei – temi approfonditi nella sua precedente monografia su diritto penitenziario e regimi ostativi  – approdando alle ineludibili domande su di una possibile attuale legittimazione del punire, fra retribuzione, prevenzione generale e finalità rieducative proprie del nuovo affinato sguardo costituzionale (dove si affaccia inedito anche il confronto fra riparazione e reinserimento sociale), e giungendo infine alla ricostruzione analitica ed approfondita della lunga elaborazione degli strumenti propri della legislazione antimafia, fino ai suoi intrecci ultimi con la “Riforma Cartabia” e con la riforma delle ostatività.

La nuova monografia di Veronica Manca, Legislazione Antimafia – “doppio binario” e modello differenziato di giustizia penale[1], affonda la sua analisi critica in una materia che appare al tempo stesso come la più dinamica e la più spinosa nell’intero panorama della cd. materia penale, spingendo la sua indagine fino ai confini estremi in cui gli strumenti differenziati del processo penale si impegnano in una sorta di dissolvenza incrociata con quelli ancor più avanzati della prevenzione.

L’Autrice si muove lungo quell’ampio spettro che conduce dalla radice mitologica della pena ai suoi più ambigui sviluppi contemporanei – temi approfonditi nella sua precedente monografia su diritto penitenziario e regimi ostativi[2] – approdando alle ineludibili domande su di una possibile attuale legittimazione del punire, fra retribuzione, prevenzione generale e finalità rieducative proprie del nuovo affinato sguardo costituzionale (dove si affaccia inedito anche il confronto fra riparazione e reinserimento sociale), e giungendo infine alla ricostruzione analitica ed approfondita della lunga elaborazione degli strumenti propri della legislazione antimafia, fino ai suoi intrecci ultimi con la “Riforma Cartabia” e con la riforma delle ostatività.

Altrettanto puntuale la convergente analisi dell’incedere obliquo del “soggettivismo punitivo” nelle forme più attuali del cd. diritto penale del nemico che rischia di operare una vera e propria «inaccettabile decostruzione del garantismo costituzionale» volta alla «neutralizzazione di specifici soggetti portatori di pericolosità sociale (e a prescindere anche dalla commissione di un reato)». Una teorizzazione che affonda le sue radici in una visione simbolica del diritto penale e che appare fortemente influenzata dalla rappresentazione mediatica del reato, ponendo a rischio i fondamenti stessi del diritto penale liberale.

Inevitabile che lo scandaglio scientifico affondi anche nelle forme e nei modi (terribili) in cui si invera il processo cumulativo per fatti di mafia (mass trial), noto anche alle cronache, anche nella sua valenza simbolica, come maxiprocesso, con tutte le deformazioni processuali (e dunque sostanziali) che ne discendono. Soccombono i principi di immediatezza e di oralità e si espande in maniera abnorme il ricorso alla prova scritta (secondo le cadenze della cd. “circolarità della prova”) e della prova assunta a distanza il che trasforma spesso il dibattimento in un simulacro di processo.

Molte amare riflessioni discendono dallo studio dei condizionamenti che l’intero sistema subisce a causa dell’inserimento del modello del doppio binario e dell’affermarsi incondizionato di una cultura del problem solving indifferente al rispetto dei principi della legalità sostanziale e processuale che costituiscono i pilastri del sistema penale, e che si muove indisturbata in uno spazio privo di qualsiasi orizzonte valoriale.

La logica del contrasto ai fenomeni criminali impone di fatto quell’approccio pragmatico privo di ostacoli assiologici, finendo con l’instaurare una excalation che tende virtualmente all’infinito: ogni recrudescenza di tali fenomeni ed ogni incremento (presunto o reale) o espansione  (effettiva o percepita) degli stessi innesca una reazione degli anticorpi legislativi con conseguente adozione di nuovi strumenti investigativi e sanzionatori (ampliamento dello spettro autorizzativo dei sistemi di intercettazione, inclusione di nuovi reati nel catalogo delle misure di prevenzione, estensione del novero dei reati 4-bis, aumenti delle pene edittali, limiti di accesso alla giustizia negoziata, previsione di strumenti di confisca allargata, estesa o atipica…).

Ne è derivata da tempo anche una nuova organizzazione ordinamentale, che ha fatto dell’antimafia una struttura specializzata su base nazionale, innervata da strumenti investigativi sempre più sofisticati ed estesi, ai quali si affianca il contrafforte spesso parossistico del regime speciale differenziato del 41-bis, nato nella luce dell’emergenzialità, e poi di fatto stabilizzato nella penombra dei principi costituzionali e convenzionali (diritto alla salute, diritto di difesa, finalità rieducative della pena…), che soccombono ai criteri securitari propri della lotta al crimine organizzato.

Una deriva bellicistica che finisce con il compromettere inevitabilmente anche gli spazi propri della funzione difensiva, nella quale il rischio professionale connesso alla assistenza tecnica dell’imputato di mafia risulta impropriamente amplificato da quella stessa esigenza di contrasto che stenta a riconoscere il confine assai opinabile fra contributo tecnico e concorso eventuale.

In tal modo, attraverso questi progressivi slittamenti, il concetto stesso di devianza qualificata finisce con il perdere la sua vocazione di esclusività, ponendosi in verità come modello espansivo che trova nella emergenza mediatica, negli studi criminologici sul cyber-crime, sugli eco-reati, sul dark-web, sull’economia sommersa o sui flussi finanziari transazionali e globalizzati, continui spunti per possibili “inclusioni”.

È in questo quadro complessivo, fatto di deragliamenti del senso, di sfibramento dei principi liberali e di effettiva e diffusa richiesta di legalità e di sicurezza, che si inserisce la vecchia e nuova risposta al fenomeno della criminalità organizzata, formulata nei termini di una coerente e strutturata “legislazione antimafia”, che si viene a collocare, proprio per la sua coerenza emergenziale e la sua matrice eccezionale, fuori dal binario della ordinarietà processuale.

In un Paese che ha perso nel tempo ogni cultura del processo per abbracciare invece con entusiasmo la cultura della pena intesa come pura penalità e semplice afflizione, uno studio, come questo, volto alla riaffermazione dei limiti del sistema penale, risuona come eretico assieme alle parole del prefatore che, all’esito di una splendida citazione cechoviana, ci ricorda di come «siamo tutti qui, in questo spazio e in questo tempo: da un canto i pochi rimasti ad avere ancora il senso delle cose e a comprendere i limiti entro i quali l’autorità e la legge non possono sconfinare negli arbitrii e la giustizia nella vendetta».

Tutto ciò lascia intendere come la cultura del garantismo, sebbene minoritaria, possa trovare la strada per riaffermare quei valori come vero e proprio patrimonio della intera collettività. Un’idea, questa, che dimostra la necessità di investire energie nell’opera di comunicazione e di capillare diffusione della cultura del processo come unico veicolo di recupero della collettività a quei necessari valori del garantismo e del costituzionalismo che sono interamente ignorati e trasversalmente negati dal main-stream politico-mediatico votato ad una idea di giustizia, di legalità e di antimafia retoricamente declamata.

Queste considerazioni inducono a riflettere sul valore socialmente sempre più marginalizzato dei principi liberali e sul significato stesso di “cultura minoritaria” e sulle caratteristiche e sul destino che è impresso a questo tipo di idee che, pur numericamente recessive, sopravvivono indenni e testarde alle evoluzioni ed alle intemperie della storia sociale e politica del nostro Paese. Inducono, in particolare, ad approfondire quell’idea del come e del perché l’adesione ad una cultura minoritaria non possa e non debba mai rassegnarsi a restare una semplice testimonianza di fede, consegnandosi così a quel debole destino di irrilevanza politica e culturale, anche di fronte alla presa immediata ed istintiva che invece il populismo penale ottiene presso il grande pubblico.

E la ragione di quel differente destino, tutt’altro che segnato dalla inferiorità numerica, sta nel fatto che ogni vera cultura minoritaria è universale. Una cultura minoritaria o è universale, oppure non è una vera cultura. Il fatto stesso che possa essere vissuta, sperimentata, diffusa e che se ne possa sentire il respiro e si possa a volte percepire la forza che esercita, non solo su di noi, ma sui nostri stessi interlocutori, significa inevitabilmente che possiede in sé una capacità espansiva, una intrinseca qualità di accrescimento esponenziale. Che si tratta dunque di una realtà che si manifesta come fenomeno in potenza votato a una realizzazione e ad una pienezza futura.

Ma è proprio in quella riconosciuta necessaria universalità del pensiero minoritario che si risolve la sua potenzialità. Una capacità di espansione che sta proprio nell’avere nell’altro il suo alleato. Nel sapere che all’interno di ogni individuo i valori della vera cultura delle garanzie, sia pure confusi dalle false etichette, assopiti e coperti dagli slogan, sono al fondo inevitabilmente presenti e che il dialogo paziente, la comunicazione e l’informazione, intessute in modo che possano reinnervare l’intermediazione del pensiero – sostituendo i fatti alle narrazioni, la ragione all’emotività, il logos al pathos – possono costituire il veicolo per riportarli ad emersione e per ricondurre dentro l’intera collettività l’idea della efficienza e della utilità di quei valori.

Comunicare alla collettività il processo penale e i suoi valori è un compito difficile e impervio, che ci richiama non solo ad un impegno intellettuale e politico ma che impone a tutti noi l’esemplarità dentro e fuori il processo, perché anche i nostri comportamenti – così come lo studio e l’approfondimento della materia trattata – possono contribuire a rendere immediatamente comprensibile che il patrimonio della legalità che un avvocato difende nel giudizio è un patrimonio della intera collettività. Una esemplarità che è quindi anch’essa necessaria per costruire e diffondere l’idea che i valori delle garanzie non sono solo la forma che tutela il reo, ma la sostanza della libertà di tutti.

Ci piace, per questo, concludere con le parole dell’Autrice laddove ricorda che «solo il sapere del giurista, animato da buon senso, logicità, ragionevolezza, e una dose di coraggio, è in grado di cogliere l’essenza del sistema e di riportarlo sulla via della legalità e della dignità della persona umana, mai, per definizione, ostativa al cambiamento».

[1] Legislazione Antimafia. “Doppio binario” e modello differenziato di giustizia penale, di Veronica Manca, Giuffrè Francis Lefebvre 2023.

[2] Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del «doppio binario» e prassi applicative, di Veronica Manca, Giuffrè Francis Lefebvre 2020.