LA RAGIONE PIÙ LIQUIDA: IL FACILE NAUFRAGIO DEL RECLAMO EX ART. 410-BIS C.P.P. – DI SILVIA ROSSI VALENTI
di Silvia Rossi Valenti*
La vicenda qui commentata ha visto la persona offesa opporsi, indicando – come prescritto – l’oggetto dell’investigazione suppletiva ed i relativi elementi di prova, alla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero. Il GIP, ritenendo il supplemento investigativo incapace di modificare l’esito cui era pervenuto il pubblico ministero, rigettava de plano l’opposizione. Ricorreva avverso la decisione d’inammissibilità il difensore della persona offesa, avvalendosi del nuovo procedimento previsto dall’art. 410-bis, c.p.p. che codifica la dichiarata inammissibilità tra i motivi di impugnazione. All’esito dell’udienza camerale – non partecipata – fissata per la trattazione del ricorso, il GIP si pronunciava nuovamente nel senso dell’inammissibilità, stavolta sul rilievo, fondato su un’interpretazione strictu sensu testuale dell’art. 410-bis c.p.p., che il difensore della persona offesa non potesse ritenersi legittimato a proporre l’impugnazione[1]. Trattandosi quest’ultima, per espressa previsione normativa, di decisione non impugnabile, il difensore, ritenendo non condivisibile l’interpretazione fornita dal GIP, chiedeva la revoca dell’ordinanza, rimedio ipotizzato dalla giurisprudenza di legittimità per il diverso, ma affine, caso di intervenute violazioni del principio del contraddittorio. Anche tale istanza, con motivazione “circolare”, veniva rigettata.
La persona offesa ha esperito tutti i rimedi previsti avverso l’istanza di archiviazione, e anche più: ma, inflessibile, il bisturi giudiziario l’ha tagliata fuori dal giuoco delle parti (rectius: dei soggetti), recuperandole quel ruolo di “ospite inatteso e mal sopportato”[2] che le successive e recenti novelle in materia di assistenza e partecipazione avevano dimostrato di voler rivedere, a torto o a ragione, sulla scia d’una esortazione eteroindotta[3], in favore di un maggiore suo protagonismo nel procedimento. Ecco che, proprio ove i poteri ad essa attribuiti, in larga parte sollecitatori e, quindi, come tali, scarsamente incisivi, recupererebbero normativamente d’effettività, divenendo in limine[4] poteri “di controllo”, si assiste, con la vicenda qui commentata, ad un inatteso recupero di sacche di discrezionalità giudiziale: nel terreno, altrimenti arido, del reclamo avverso il decreto di archiviazione emesso de plano.
Non si tratta d’una narrazione “schierata”, in favore o contro le dinamiche della politica criminale in materia di inclusione od esclusione della persona offesa nel o dal procedimento; la riflessione che qui preme evocare attiene semmai all’emergente fragilità del dato normativo, cui sovente attenta la prassi d’una sua interpretazione «creativa, ossia da esso non derivabile razionalmente»[5]; e al conseguente rischio, qui concretizzato, che dall’innovazione creativa promani la rottura di quell’altrettanto fragile equilibrio di valori configurato dall’assetto normativo del procedimento. Contro il quale non è possibile armarsi; contro il quale, per giunta, non è possibile lagnarsi.
La vicenda vede la persona offesa opporsi alla richiesta di archiviazione, nel rispetto di tutte le condizioni di ammissibilità prescritte dall’art. 410 c.p.p.; ma, viene replicato, quei documenti offerti in deposito e quelle richieste istruttorie non spostano le conclusioni cui è giunto il pubblico ministero. Sono, in altri termini, irrilevanti. Replica il difensore che, per giurisprudenza ormai pacifica, i parametri della valutazione di ammissibilità dell’opposizione sono semmai quelli della pertinenza e della specificità degli atti di indagine richiesti, non potendo il GIP – in coerenza con la funzione stessa dell’opposizione, preordinata al solo scopo di sostituire al provvedimento emesso de plano quello da emettersi a contraddittorio esaurito – anticipare, col decreto, valutazioni sulla capacità probatoria dei mezzi oggetto dell’istanza. Per fortuna questo vizio (che civilisticamente – ed eufemisticamente – si direbbe di “ultrapetizione”) è stato oggi addirittura tipizzato – peraltro tramite novellazione ricognitiva dell’attività nomopoietica della giurisprudenza – dall’ultimo periodo dell’art. 410-bis, comma 1, c.p.p.
L’udienza camerale prevista nel contesto del nuovo procedimento di reclamo conduce alla genesi di un nuovo principio di diritto: la persona offesa non ha diritto alla difesa tecnica nel presentare reclamo. E ciò perché la legge individua «espressamente» nell’interessato «l’unico soggetto legittimato a proporre il mezzo di impugnazione previsto dall’art. 410-bis cod. proc. pen.». Ed è d’altronde ovvio che in detta espressione non possano che farsi rientrare, esclusivamente, la persona offesa ovvero l’indagato. Ma è qui che il sillogismo perde inspiegabilmente un passaggio, spiegando però, così, il paradosso: al principio di cui all’art. 568, comma 4, c.p.p. è attribuito l’inglorioso compito di sfornire del diritto alla difesa tecnica l’offeso: ed il reclamo è dichiarato inammissibile perché presentato dal difensore. Poco importa se, con reale e non apparente lettura di sistema sarebbe subito balzato all’occhio il dato, inopinabile, che il codice considera sacrosanto il diritto all’assistenza per la – seppur presunta – vittima del reato; altro significato non può ragionevolmente attribuirsi alle norme che le conferiscono il diritto ad essere informata quanto prima possibile della facoltà di nominare un difensore; che le conferiscono il diritto di farlo nelle medesime forme semplificate concesse all’indagato; che presumono il suo domicilio eletto presso il difensore nominato. Il decreto di archiviazione deve impugnarlo con le sue sole forze. Deve rimanere, in questa delicatissima fase, potenzialmente conclusiva, sfornita della mediazione e del supporto del difensore.
Non è dato intuirne il motivo.
Non è certamente nuova agli addetti ai lavori la “creatività della burocrazia”[6] giudicante; tuttavia, normalmente, ne è opposto il terreno elettivo, e tanto criticabile quanto almeno indagabile negli intenti. Così, è brusco il sospetto d’una intervenuta eterogenesi dei fini.
Una simile, riduttiva interpretazione del dato normativo si presta ad altrettante critiche laddove se ne apprezzino più latamente i risvolti: se oggetto di – più o meno volontario – travisamento è il termine “interessato”, da sterilizzarsi, in questo caso, nel significato minimo di “persona offesa”, se ne dovrà trarre la simmetrica conclusione anche per l’altro degli “interessati”, ovvero l’indagato; pena la violazione del principio d’eguaglianza. Ed allora, forse, la meno facile avversità a tale stretta interpretazione, avversità che la vicenda in esame comunque suggerisce, potrebbe trovare più numerosi argomenti, sol per la pericolosa incrinatura del ruolo cardine del difensore di cui costituirebbe ennesima avvisaglia.
Lo zelante difensore è ben consapevole che il provvedimento pronunciato a definizione del reclamo sia, per espressa disposizione di legge e per consolidata giurisprudenza di legittimità, non impugnabile. Tuttavia, ritenuta la totale ingiustizia sostanziale determinata dallo stesso, giudicabile errato sotto plurimi profili e violativo dei diritti fondamentali riconosciuti al soggetto persona offesa, si risolve nel chiederne la revoca, seguendo l’insegnamento della più recente giurisprudenza in materia.
Sostiene che, con quella decisione, la persona offesa è stata privata, contestualmente, del diritto alla difesa tecnica e del diritto al controllo del provvedimento di archiviazione riconosciutole dalla legge, dei quali è esplicazione il procedimento di reclamo oggi codificato dall’art. 410-bis, c.p.p. Nel contesto di tale procedimento, le cui cadenze ed i cui epiloghi sono “obbligati”, la declaratoria di inammissibilità, se fondata sull’erroneo presupposto della mancanza di legittimazione in capo al difensore nominato, produce due insostenibili effetti: a monte, priva ingiustificatamente la persona offesa del proprio diritto, insuscettibile di eccezioni, alla difesa tecnica, che il codice si premura di assicurarle mediante il cristallino disposto dell’art. 101 c.p.p.; a valle, distoglie il reclamo dalla funzione che gli è propria, determinando un controllo che è meramente apparente.
Ciò determina anche il terzo, pregiudizievole effetto: la condanna – frutto di automatismo – al pagamento di una somma alla cassa delle ammende, che, nell’ottica del legislatore, si giustifica sul presupposto della tassatività dei motivi di reclamo, con conseguente coincidenza tra pretestuosità dell’iniziativa (e quindi declaratoria di inammissibilità) e condanna al pagamento. Proprio la logica, coerente, di tale scelta legislativa fornisce un ulteriore motivo di lagnanza nei riguardi del provvedimento di reclamo, perché tale decisione ha – di fatto – ampliato ingiustificatamente il novero dei motivi tassativi di inammissibilità, che, proprio in quanto tassativi (e dunque conoscibili al momento della scelta di proporre impugnativa), giustificano l’automatismo della condanna.
Sulla scorta delle due, successive, declaratorie di inammissibilità (dell’opposizione e del reclamo), entrambe fondate su presupposti in diritto non condivisibili, la persona offesa non ha quindi potuto fruire del diritto al controllo che la legge, nel contesto del procedimento di archiviazione, le garantirebbe con particolare cura.
Il “rimedio” esperito dal difensore è ipotizzato dalla Cassazione[7]. Ribadita la non impugnabilità dell’ordinanza emessa in sede di reclamo, la Corte, in quella pronuncia, si sofferma nella ricerca di un possibile rimedio, la cui necessità discende dalla violazione, intervenuta nella fase del reclamo, di un diritto fondamentale, quello al contraddittorio (per omessa notificazione al reclamante dell’avviso della data di udienza camerale); individua quindi il rimedio nella revoca dell’ordinanza che decide il reclamo, osservando che il dato normativo di cui all’art. 410-bis, c.p.p. «non risulta testualmente ostativo ad una istanza di revoca». L’aspetto che maggiormente interessa e calza, ai fini dell’odierna vicenda, è costituito dalla motivazione per cui la Corte ipotizza in quel caso l’utilizzo di tale strumento. La ratio del rimedio è infatti costituita dalla «esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, e quindi, del diritto di difesa».
Una simile esigenza di riequilibrio dovrebbe trovare spazio anche nel caso in questione, stante la compressione delle medesime garanzie. L’esperibilità del rimedio è, poi, recentemente stata ribadita da Cass., sez. V, 26 settembre 2019, n. 44133 (in Cass. pen., 2020, p. 2065), a mente della quale «la fruizione del rimedio ex art. 410-bis c.p.p. deve essere effettiva, sicché, qualora la parte non sia stata posta in condizione di partecipare al procedimento instaurato per il controllo sulla decisione contestata, il sistema – benché il legislatore abbia espressamente escluso l’impugnabilità dell’ordinanza conclusiva – deve tuttavia prevedere un rimedio atto a ripianare il difetto di partecipazione; tale rimedio è stato individuato nella richiesta di revoca del provvedimento adottato dal giudice del reclamo».
Chiosa, infine, il difensore, il merito della dichiarata inammissibilità, ossia il difetto di legittimazione, rilevando che sono molte le pronunce che confermano la sufficienza, per l’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti alla persona offesa, della nomina ex art. 101 c.p.p.; tale norma, «evidentemente in considerazione delle attività e del ruolo riservati alla persona offesa nella fase delle indagini preliminari e prima di una sua eventuale costituzione come parte civile (e della difficoltà di individuare in questa fase atti che comportino per l’offeso disposizione del diritto in contesa) – parla di una nomina per l’esercizio di tutti indistintamente i diritti e facoltà attribuiti alla persona offesa, senza far riferimento ad atti a quest’ultima espressamente riservati che il difensore non può compiere o che può compiere solo previo conferimento di un mandato speciale. Appare dunque irrilevante la circostanza che la disposizione di cui all’art. 100 c.p.p., comma 4, non sia ripetuta dall’art. 101 c.p.p., comma 1, mentre la stessa formulazione letterale di quest’ultimo mostra che esso conferisce direttamente al difensore eventualmente nominato l’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti alla persona offesa. Se così non fosse, dovrebbe ritenersi che il difensore dell’offeso sia legittimato ad esercitare tali diritti e facoltà soltanto in quanto munito di procura speciale, il che si porrebbe in contrasto con la lettera e la ratio della disposizione, dal momento che è proprio l’art. 101 c.p.p., comma 1, a dichiarare sufficiente la nomina con le modalità dell’art. 96 c.p.p. e a non richiedere alcuna procura speciale per l’esercizio di quei diritti e facoltà»[8].
A ben vedere, tale impostazione discende, dunque, dalla tutela privilegiata (ragionevolmente accordata alla vittima del reato) che l’intera sistematica codicistica, insieme con la prassi, riconoscono alla persona offesa, il cui ruolo è determinante proprio nella fase di archiviazione. Non è dato, perciò, comprendere il motivo per cui, in assenza di diverse indicazioni provenienti dalla legge, il difensore dell’offeso, pacificamente legittimato a presentare opposizione alla richiesta di archiviazione[9], non sia egualmente legittimato a proporre reclamo avverso il provvedimento di archiviazione.
Lo scopo dichiarato della novella del 2017, introduttiva del procedimento ex art. 410-bis c.p.p. in sostituzione del vecchio ricorso in cassazione ex art. 409, c. 6, c.p.p. è essenzialmente uno scopo garantista e deflattivo; tale intento è stato perseguito attraverso un procedimento di reclamo le cui cadenze e i cui presupposti ricalcano pedissequamente quelli del vecchio ricorso in cassazione, per avvalersi del quale, per giurisprudenza pacifica della stessa Cassazione (di cui supra) il difensore gode di legittimazione senza alcuna necessità di procura speciale.
Così motivato il suo reclamo, l’avvocato si accomoda in attesa. E, insperatamente celere, vergato lesto a mezza pagina, ecco il responso: gli argomenti interpretativi circa l’effettività del rimedio di cui all’art. 410-bis c.p.p. e l’estensibilità al difensore dei diritti e delle facoltà conferiti alla persona offesa non «scalfiscono» (testuale) le ragioni addotte dal giudice a sostegno della decisione d’inammissibilità, dalla quale, stante la diversa natura del reclamo, vera e propria impugnazione, rispetto all’opposizione, non vi è «ragione alcuna di discostarsi» (testuale).
«Si quis autem huic Nostrae definitioni contradicere, quod Deus avertat, praesumpserit; anathema sit!»[10].
*Avvocato del Foro di Siena
[1]Si riporta qui la motivazione testuale: «Considerato che l’unico soggetto legittimato a proporre il mezzo di impugnazione previsto dall’art. 410-bis cod. proc. pen. è espressamente individuato, dalla legge, con il termine «l’interessato». Ritenuto che in detta espressione debbano farsi rientrare esclusivamente la persona offesa ovvero l’indagato […]; considerato altresì che, ai sensi dell’art. 568 cod. proc. pen., “il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce”. Ritenuta pertanto l’inammissibilità del reclamo proposto dall’Avv. […], in quanto presentato da soggetto non legittimato, non essendo stata conferita al predetto alcuna procura speciale né da parte di […] né da parte di […], entrambi persone offese dal reato e, dunque, unici legittimati a proporre il mezzo di impugnazione previsto dall’art. 410-bis cod. proc. pen.[…] dichiara inammissibile il reclamo».
[2] L’espressione è di S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 2013, p. 881.
[3] Si allude alla Direttiva 2012/29/UE.
[4] Il riferimento, come intuibile, è all’istituto dell’opposizione all’archiviazione.
[5] P. Ferrua, Soggezione del giudice alla sola legge e disfunzioni del legislatore: il corto circuito della riforma Orlando, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1265.
[6] Per riprendere l’efficace formula che intitolò il convegno tenutosi a Firenze nel settembre 2016: Il burocrate creativo – la crescente intraprendenza interpretativa della giurisprudenza penale, i cui atti sono reperibili in Criminalia 2016, ETS editore.
[7] Cass., Sez. VI, ord. 23 marzo 2018, n. 17535, in Cass. pen., 2018, p. 3321.
[8] Cass., Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 47473, in Cass. pen., 2008, p. 1762.
[9] La Cassazione da tempo riconosce il diritto di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione al difensore della persona offesa dal reato pur in mancanza di procura speciale, in virtù del potere di esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti all’offeso ex art. art. 101 c.p.p.: cfr. Cass. Sez. V, 20 maggio 2004, n. 42357, in C.E.D. Cass. n. 230106; Cass. Sez. V, 16 marzo 2004, n. 19121, in C.E.D. Cass. n. 227.750; Cass. Sez. V, 7 aprile 2003, n. 39208, in C.E.D. Cass. n. 226776; Cass. Sez. V, 10 luglio 2002, n. 35126, in C.E.D. Cass. n. 222628.
[10] Sacrosanctum Concilium Oecumenicum Vaticanum I, Const. dog. prima de ecclesia Christi, Pastor aeternus, 18.VII.1870, in DS, 3050- 3051.