LA SOTTOSCRIZIONE DA PARTE DELL’INDAGATO DEL VERBALE DI DICHIARAZIONI AUTOACCUSATORIE RESE ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA: UNA TIEPIDA GARANZIA DELLA LORO SPONTANEITÀ – DI RAFFAELE PICCIRILLO
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LA SOTTOSCRIZIONE DA PARTE DELL’INDAGATO DEL VERBALE DI DICHIARAZIONI AUTOACCUSATORIE RESE ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA: UNA TIEPIDA GARANZIA DELLA LORO SPONTANEITÀ.
THE SUSPECT’S SUBSCRIPTION OF THE REPORT OF SELF-ACCUSATIONS GRANTED TO THE JUDICIAL POLICE: A TEPID GUARANTEE OF THEIR SPONTANEITY.
di Raffaele Piccirillo*
Cass. pen., Sez. V, 17 giugno 2021, n. 31528, Pres. Sabeone – Est. e Rel. Riccardi – P.M. Lori (diff.)
Attività della polizia giudiziaria e sua documentazione – Dichiarazioni spontanee dell’indagato – Documentazione – Sottoscrizione dell’indagato – Utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee anche autoaccusatorie – Giudizio abbreviato.
(Artt. 350, co. 7, c.p.p., 357, cpv., lett. b), c.p.p., 63 c.p.p., 64 c.p.p.)
Quando si proceda nelle forme del giudizio abbreviato, sono inutilizzabili le dichiarazioni spontanee anche autoincriminanti fornite alla polizia giudiziaria dall’indagato, qualora esse non siano riportate in un verbale da questi sottoscritto.
(massima a cura dell’Autore)
Con la sentenza annotata, la Corte suprema, nel ribadire un prevalente e generale orientamento nomofilattico sulla inutilizzabilità fisiologica e relativa delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria alla stregua dell’art. 350, co. 7, c.p.p. e sulla loro piena utilizzabilità, invece, nella fase procedimentale, come nell’incidente cautelare e nei riti cc.dd. “a prova contratta”, aderisce poi a una sua recente e rigorosa declinazione garantista, che sanziona con l’inutilizzabilità quella narrazione, qualora sia soltanto richiamate in un’annotazione di polizia giudiziaria e non anche riportata in un verbale sottoscritto dal dichiarante a norma dell’art. 357, cpv., lett. b), c.p.p. o non siano comunque versate in un atto da questi firmato.
With the noted sentence the Supreme Court, in reaffirming a highly prevalent and general nomophilactic orientation on the purely physiologic and limited unusability of the spontaneous declarations granted to the Criminal Investigatio Department by the person subjected to preliminary investigations in accordance with Art. 350, § 7, of the Italian Code of Criminal Procedure, but their full usability in the procedural phase, and therefore in the provisional accident and in the so-called “contracted evidence” rites, adheres to its recent and strict granting declination, which wants those spontaneous declarations to be unusable if they are only referred to in an annotation of the Criminal Investigation Department and not provided in a report signed by the declarant in accordance with Art . 357, § 2, letter b), of the Italian Code of Criminal Procedure or in any case added in a report signed by the suspect.
Sommario: 1. L’oggetto del vaglio di legittimità e il dictum. 2. I recenti approdi formalisti della giurisprudenza nomofilattica a garanzia della spontaneità degli apporti autodifensivi dell’indagato e della loro utilizzabilità nel giudizio abbreviato. 3. La perduranza patologica di una aporia logico-sistematica e il rischio di ibride trasfigurazioni dei contributi dialettici dell’indagato. 4. Osservazioni conclusive.
- L’oggetto del vaglio di legittimità e il dictum.
La Corte d’appello di Roma confermava la sentenza di condanna inflitta in primo grado, nelle forme del giudizio abbreviato, a un imputato di furto aggravato consistito nell’essersi egli impossessato, in concorso con altri e con violenza sulle cose sostanziatasi nella rimozione delle placche antitaccheggio, di merce esposta in vendita all’interno di un esercizio commerciale.
Avverso la pronuncia giudiziale di seconde cure interponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo, fra i vari motivi estesi nel proprio gravame, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla eccepita inutilizzabilità delle dichiarazioni autoaccusatorie dell’imputato riportate nel verbale di arresto in assenza delle formalità imposte dall’art. 357 c.p.p. – all’uopo lamentando un omesso supporto motivo al rigetto dell’eccezione difensiva proposta con l’atto di appello – e che la mancanza di un verbale non consentiva un accertamento sull’effettiva spontaneità del narrato, d’altronde smentito in sede di susseguente interrogatorio.
Con l’annotata sentenza, la Corte suprema di cassazione, nel ribadire che sono utilizzabili nella fase procedimentale, come nell’incidente cautelare e negli eventuali riti a c.d. “prova contratta” (quale, nella specie, il rito abbreviato), le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini in forza dell’art. 350, co. 7, c.p.p. – senza l’assistenza tecnica del difensore e in mancanza degli avvisi imposti dall’art. 64 c.p.p. -, purché emerga con chiarezza che questa abbia scelto di renderle liberamente (i.e.: senza alcuna coercizione o sollecitazione)[1], cionondimeno sottolineava che, secondo un principio già affermato in giurisprudenza di legittimità, in tema di giudizio abbreviato, le dichiarazioni spontanee fornite alla polizia giudiziaria dall’indagato non sono utilizzabili ove non inserite in un atto sottoscritto dal dichiarante[2].
Nel caso in esame, le affermazioni confessorie erano state richiamate soltanto nel verbale di arresto, senza essere state in alcun modo documentate in un atto sottoscritto dall’imputato ricorrente.
Ne conseguiva l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma per nuovo esame.
- I recenti approdi formalisti della giurisprudenza nomofilattica a garanzia della spontaneità degli apporti autodifensivi dell’indagato e della loro utilizzabilità nel giudizio abbreviato.
La decisione in glossa si inscrive nell’ampio perimetro antologico della prevalente giurisprudenza nomofilattica in tema di fisio-patologia probatoria dei contributi autodifensivi dell’indagato forniti alla stregua dell’art. 350, co. 7, c.p.p. e ne lumeggia il peculiare l’ambito operativo dell’utilizzabilità dei medesimi nel giudizio abbreviato.
In estrema sintesi, è indirizzo giurisprudenziale maggioritario – come già sopra richiamato – che le dichiarazioni spontanee rese ex art. 350, co. 7, c.p.p. dalla persona sottoposta alle indagini preliminari alla polizia giudiziaria in assenza di difensore e in difetto degli avvisi contemplati dall’art. 64 c.p.p. siano utilizzabili nella fase procedimentale e nei riti a prova contratta, qualora emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle senza alcuna coercizione o sollecitazione[3].
Tale approdo esegetico «muove dal presupposto che l’art. 350, comma 7, cod. proc. pen. consente alla polizia giudiziaria di ricevere le dichiarazioni spontanee rese dall’incriminato anche in assenza di difensore e senza la somministrazione degli avvisi previsti dall’art. 64 cod. proc. pen.» e «alle stesse, proprio perché sottoposte ad una disciplina speciale, non è applicabile la regola fissata dall’articolo 63, comma 2, cod. proc. pen.»[4].
Tale assetto interpretativo invale pacifico in nomofilachia[5] ed è stato ribadito in un noto e didascalico arresto di legittimità[6], che ha motivato funditus l’asserto in premessa, circoscrivendo in termini fisiologici e relativi l’utilizzabilità degli apporti dichiarativi spontanei dell’indiziato soltanto alla fase procedimentale, all’incidente cautelare e ai riti a prova contratta, obiettando alle sparute opzioni ermeneutiche contrastanti[7] e ravvisando nella esplicita previsione sanzionatoria della inutilizzabilità appunto solo relativa e fisiologica (i.e.: in fase dibattimentale, eccettuato quanto previsto dall’art. 503, co. 3, c.p.p.) delle dichiarazioni spontanee rese ex art. 350, co. 7, c.p.p. una espressa natura eccezionale derogante alla sanzione generale della inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni non garantite dell’inquisito, giacché espressione legittima di una sua libera iniziativa autodifensiva, d’altronde ben compatibile con la normazione e la giurisprudenza eurounitarie invalse sul tema.
Nondimeno, si è di recente sottolineato nella più attuale giurisprudenza di legittimità (e nel novero de quo rientra, dunque, la pronuncia in postilla), con pregevole – ancorché non satisfattivo sotto il profilo logico-sistematico codicistico (vd. infra) – sforzo formalista a (pretesa) garanzia della spontaneità dell’intervento orale dell’inquisito ex art. 350, co. 7, c.p.p., che, qualora si proceda nelle forme del giudizio abbreviato, il medesimo non sia utilizzabile ove soltanto richiamato in un’annotazione di polizia giudiziaria e non anche riportato – come sancito dall’art. 357, cpv., lett. b), c.p.p. – in uno specifico verbale sottoscritto dal dichiarante o comunque in un altro, quale quello di perquisizione o sequestro[8], purché firmato dall’indiziato.
In ossequio a tale impostazione ermeneutica, invero, si ritiene che, pur non essendo richiesto expressis verbis che la polizia giudiziaria rediga un autonomo verbale per ciascuna delle attività investigative svolte – specie se in un ambito di contestualità spazio-temporale – tuttavia, le spontanee dichiarazioni dell’indagato, proprio perché al medesimo riconducibili quale espressione della sua volontà di renderle, debbano trovare collocazione formale in un verbale da quello firmato, non potendo esso venir sostituito dall’annotazione di polizia giudiziaria, che di quella narrazione autodifensiva dell’incriminato fornisca contezza o riassunto. Invero, come sopra anticipato e proprio in relazione alla necessità che la contribuzione dialogica dell’indiziato sia riversata in un verbale, si è anche precisato che, ove mai resa alla polizia giudiziaria durante una perquisizione o un sequestro, la stessa ben possa essere inserita nel verbale di relativa operazione senza la necessità di redigere distinto e autonomo verbale[9], ma ciò, ovviamente, in virtù della sua sottoscrizione da parte dall’indiziato.
Sul punto si sono avvicendati altresì pronunciamenti confliggenti[10], i quali hanno statuito che è utilizzabile, ai fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’applicazione di misure cautelari, il dichiarato spontaneo offerto da un co-indagato alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore, non verbalizzato, ma raccolto in un’annotazione di servizio o in un’informativa di reato, sempre che sia possibile accertare la libertà del dichiarante nella decisione di rendere lo stesso. Ciò nonostante, anche secondo quest’ultimo indirizzo, ai fini della validità e della utilizzabilità delle dichiarazioni in questione, è pur sempre necessario che sia precisamente individuato il pubblico ufficiale responsabile della formazione dell’atto contenente tali interventi cognitivi dell’indiziato, giacché la sua omessa individuazione ingenererebbe l’inesistenza dello stesso per indeterminabilità dell’autore, e inoltre che sia possibile accertare la libertà del dichiarante nel decidere se rendere le stesse. Su tale solco esegetico di calibro sostanzialistico e proprio con riferimento al giudizio abbreviato si innesta altresì un recente arresto giurisprudenziale di legittimità, secondo cui le dichiarazioni spontanee fornite ex art. 350, co. 7, c.p.p. sono utilizzabili nel giudizio abbreviato anche qualora egli si rifiuti di sottoscrivere il verbale in cui sono contenute, non potendosi da ciò solo escludere la loro spontaneità ed essendo invece necessario che, a sostegno di tale assunto, siano dedotti dalla difesa elementi concreti[11].
Questa pur breve antologia di pronunciamenti di legittimità svela un ancora insanato stallo euristico, tuttora inibente una condivisa chiusa interpretativa circa i contorni giuridico-semantici certi del modello legale in esame, che continua a costituire impervio terreno di discussione dottrinale.
- La patologica perduranza di una aporia logico-sistematica e il rischio di ibride trasfigurazioni dei contributi dialettici dell’indagato.
Orbene, una lettura sinottica di tali dicta tradisce una stagnante impraticabilità di una operazione sintetica di estrazione di un omogeneo “protocollo” ermeneutico funzionale allo scrutinio della intima spontaneità dichiarativa connotante la “nuda difesa” esercitata dall’indagato in forza dell’art. 350, co. 7, c.p.p.
A oggi, invero, come si è visto, persino nella avanguardia più garantista della succitata giurisprudenza di legittimità esso pare al più limitato a una timida rassicurazione autografica dell’inquisito sul verbale recipiente le dichiarazioni spontanee finanche a declinazione autoincriminante.
Su tale flebilità probatoria[12], allora, grava ancora e sempre più poderosa la vexata quaestio della conciliabilità logico-sistematica di tale, pur rigorosa, opzione esegetica con un assetto ordinamentale processual-penalistico improntato, per genetico imprimatur costituzionale, alle più ampie e fitte garanzie difensive per l’indiziato sin dalle embrionali fasi del procedimento penale.
Permane, dunque, intonso l’interrogativo (dal pleonastico responso negativo, ad avviso di chi scrive) sulla sostenibilità assiomatica dell’assenza di guarentigie tecniche e degli avvertimenti di rito (come in epigrafe a tale paragrafo si è premesso) con l’ontologico requisito della spontaneità del contributo narrativo dell’indagato, sguarnito di difensore e privato degli avvisi procedurali ex art. 64 c.p.p. proprio ai primordi della vicenda giudiziaria, quando si realizza l’archetipico stadio di massima fragilità difensiva[13] per l’accusato.
Da tempo, invero, l’asse speculativo della critica dogmatica sull’istituto[14] normato all’art. 350, co. 7, c.p.p. si è incentrato sul duplice punctum dolens, da un lato, della asserita (in giurisprudenza nomofilattica) irriferibilità, a tale modulo dichiarativo, delle custodie difensive tipiche invece accordate alle altre analoghe forme codicizzate (e di meno oscura formulazione testuale e più agevole sinossi logico-sistematica)[15] di contribuzione autodifensiva dell’indiziato e, dall’altro, della conseguente impraticabilità sostanziale (derivata da tale scelta esegetica di conio giurisprudenziale) di una verifica della effettiva spontaneità dei medesimi, se non sulla sola scorta, al più, della autografia del verbale di loro recepimento.
La condicio della sottoscrizione, da parte dell’indagato, del verbale redatto ex art. 350, co. 7, c.p.p. a pena di sua inutilizzabilità pare, invero, atteggiarsi a mero e sterile formalismo procedurale, affatto incapace – e, anzi, insidioso, se non accompagnato da un concreto addendum minimo di effettiva cognizione, da parte dell’inquisito, delle connotazioni e conseguenze giuridico-processuali di tale suo status e delle scelte in questa veste operate –[16] di assicurare appunto quel sondaggio ineludibile della volontaria e libera iniziativa dell’indiziato di fornire la propria collaborazione dialogica[17] alla polizia giudiziaria.
In ciò pare consumarsi un paradossale[18] vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa per l’indagato, che si vede sguarnito dell’assistenza tecnica defensionale e degli avvertimenti presidiari di rito sub art. 64 c.p.p. proprio, e come di consueto avviene, nella fase di abbrivio investigativo della vicenda penale, paradigma cronologico di minima tutela e strategia difensiva, nonché frangibilità psico-emotiva, dell’accusato[19]: ciò, alla stregua di un irricevibile principio di indiretta proporzionalità fra maggiore esposizione dell’indiziato a potenziali rischi di pressioni inquisitorie[20] e di trasfigurazioni dei suoi contributi conoscitivi in ibride forme di “spontaneità sollecitata”, da una parte, e consistenza qualitativa e quantitativa delle guarentigie rituali a suo appannaggio, dall’altra.
- Osservazioni conclusive.
Ancorché rimarchevole per il suo rigoroso (accenno di) slancio garantista, la pronuncia in commento, come gli arresti antecedenti a essa affini per species ermeneutica, patisce una altrettanto analoga refrattarietà epistemologica all’adozione di criteri esegetici conformati alla piena sussunzione giuridico-concettuale dei primordi investigativi della vicenda penale nell’alveo dei principi accusatori del giusto processo[21].
Si presenta allora inappagante l’affidamento alla sola autografia del verbale recipiente le dichiarazioni dell’indiziato – anche quando a contenuto addirittura autoincriminante – ai fini dello scrutinio giurisdizionale della sua genuina autodeterminazione alla contribuzione dialettica con la polizia giudiziaria.
Invero, tale e tanto avvertita è, in dogmatica, l’esigenza di una robusta serenità di vaglio giurisdizionale della spontaneità della narrazione resa alla stregua dell’art. 350, co. 7, c.p.p., nonché la convinzione della marcata debolezza probatoria, a tal uopo, del semplice ricorso alla mera sottoscrizione del relativo verbale da parte dell’indagato, che si è suggerito[22] di adottare la redazione in forma integrale di esso ovvero di estendere a questo l’operatività delle forme di registrazione sub art. 141-bis disp. att. c.p.p.
Perdura soprattutto la percezione dottrinale di ingiustificabilità logica della mancata estensione, al modello dichiarativo in questione, delle guarentigie di rito accordate all’incriminato in situazioni giudiziarie avvinte dalla medesima ratio (autodifesa[23]): esse assicurerebbero, invero, la piena coscienza, nell’indagato, delle conseguenze della propria scelta appunto autodifensiva[24]. Depone in tal senso una communis opinio sulla destinazione generale dei presidi difensivi e rituali sub artt. 63 e 64 c.p.p.[25] e sulla necessità di un coordinamento appunto logico-sistematico della disposizione normativa in parola con le altre di comune allocazione (anche) testuale[26]; si è inoltre ipotizzato, quale extrema ratio, anche l’intervento risolutore della Consulta[27].
Restano dunque irrisolti, ancora una volta, i poderosi e radicati interrogativi epistemici sulla tenuta inferenziale delle architetture argomentative delineate nella scrutinata giurisprudenza di legittimità su di un tema, quello appunto in esame, ancora spinosissimo e, anzi, opacizzato dalla adozione di un approccio formalista solo in apparenza proteso alla affermazione garantista della libera autodifesa dell’indagato, ma a contrario divergente da quell’ormai ineludibile e sostenutamente auspicabile epilogo ermeneutico di impronta sostanzialista[28], di intima ricezione della sinonimia concettuale fra giusto processo e processo accusatorio.
*Avvocato del Foro di Napoli, Cultore di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e componente del Comitato Scientifico della Camera Penale di Napoli Nord.
[1] Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. I, 8 novembre 2019, n. 15197 in C.E.D. Cass. n. 279125 (altresì citata nella pronuncia in rassegna), la quale, in motivazione, ha precisato che, invece, le dichiarazioni che tale persona abbia reso su sollecitazione della polizia giudiziaria nell’immediatezza dei fatti in assenza di difensore non sono in alcun modo utilizzabili, neanche a suo favore.
[2] Sull’argomento, meritano menzione (d’altronde operata nella sentenza in commento) i seguenti arresti di legittimità: Cass. pen., Sez. VI, 17 febbraio 2021, n. 14843, in C.E.D. Cass.. n. 280880, con cui la Corte ha annullato con rinvio la condanna basata sulle dichiarazioni autoaccusatorie dell’imputato riportate soltanto nel verbale di arresto, non sottoscritto dal predetto; Cass. pen., Sez. I, 27 febbraio 2019, n. 12752, ivi, n. 276176, secondo cui non sono utilizzabili, ancorché si proceda nelle forme del giudizio abbreviato, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini preliminari alla polizia giudiziaria, quando non inserite in un verbale sottoscritto dal dichiarante, ma solo richiamate in una annotazione di polizia giudiziaria; diversamente, ma in relazione alla fase cautelare, non a quella di cognizione, Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2020, n. 15798, ivi, n. 279422, secondo cui sono utilizzabili ex art. 273 c.p.p. le spontanee dichiarazioni rese da un co-indagato alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore, non verbalizzate, ma raccolte in un’annotazione di servizio o in un’informativa di reato, sempre che sia possibile accertare la libertà del dichiarante nella decisione di rendere le stesse.
[3] Una scelta accurata dei principali arresti nomofilattici sul punto trovasi in Cass. pen., Sez. II, 13 maggio 2021, n. 24283, non mass., che cita Cass. pen., Sez. III, 3 aprile 2019, n. 20466, in C.E.D. Cass. 275752; Cass. pen., Sez. V, 15 marzo 2018, n. 32015, ivi, n. 273642; Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 2018, ivi, n. 272541; Cass. pen., Sez. V, 16 febbraio 2017, n. 13917, ivi, n. 269598; Cass. pen., Sez. II, 3 aprile 2017, n. 26246, ivi, n. 271148.
[4] Così Cass. pen., Sez. I, 8 novembre 2019, n. 15197, in C.E.D. Cass. n. 279125.
[5] Cfr., fra le meno recenti ed ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2011, n. 23425, in C.E.D. Cass. n. 250961; Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2009, n. 48508, ivi, n. 245622.
[6] Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 2018, n. 14320, in C.E.D. Cass. n. 272541, secondo cui «In primo luogo: la lettera dell’art. 350 c.p.p., comma 7, è esplicita nel prevedere l’inutilizzabilità “relativa”, ovvero solo dibattimentale delle dichiarazioni spontanee, il che impedisce di ritenere che la regola specifica in essa prevista possa essere “vanificata” dalla disciplina generale che sancisce l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall’indagato senza garanzie. La norma si configura piuttosto come una espressa eccezione a tale regola, che trova la sua la ratio nella natura eminentemente “difensiva” e “libera” delle dichiarazioni spontanee […] In secondo luogo: […] la norma oggetto delle censure difensive è compatibile con le indicazioni della normativa Europea e segnatamente con quelle contenute nella direttiva 2012/13/UE in materia di diritti di informazione dell’indagato. La direttiva in questione è stata attuata con il D. Lgs. n. 101 del 2014, che non ha modificato l’art. 350 cod. proc. pen. […] Invero l’art. 3 della Direttiva 2012/13/UE indirizza gli Stati aderenti all’Unione a conformare le legislazioni in modo da garantire che alle persone indagate o imputate sia “tempestivamente” fornita l’informazione circa il diritto ad avvalersi di un avvocato ed il diritto a restare in silenzio. La disposizione in questione è stata attuata solo attraverso la modifica degli artt. 291 e 369 bis c.p.p.: il legislatore ha evidentemente ritenuto che fosse “tempestiva” l’informazione fornita nelle occasioni previste dalle norme conformate (ovvero al momento non ritenendo, invece, di intervenire sull’art. 350 c.p.p., comma 7) […] Si tratta di una scelta che trova la sua giustificazione nel fatto che le dichiarazioni spontanee non sono funzionali a raccogliere elementi di prova, ma piuttosto a consentire all’indagato di interagire con la polizia giudiziaria in qualunque momento egli lo ritenga, esercitando un suo diritto personalissimo. In terzo luogo: il collegio ritiene che la norma in questione sia compatibile con le indicazioni fornite dalla Corte Edu: nel caso Navone ed altri c. Monaco (Corte Edu, I sezione, 24 ottobre 2013) la Corte di Strasburgo rimarca l’importanza che l’indagato sia protetto da ogni forma di coercizione quando viene “escusso” (p.p. 71 e ss. della sentenza), ma non tratta il caso in cui questi decida liberamente di rendere dichiarazioni. Anche nel caso Stoycovic v. Francia e Belgio (Corte Edu, V sezione, 27 ottobre 2011) la Corte Europea rimarca la necessità che sia garantita l’assenza di coercizione nel corso dell’interrogatorio disposto dall’Autorità che procede (nel caso di specie con lo strumento della rogatoria) rilevando che tale garanzia può essere assicurata attraverso la presenza del difensore e l’avviso circa la titolarità del diritto al silenzio. Le argomentazioni sono centrate ancora una volta sulla necessità di salvaguardare la libera determinazione dell’indagato che dichiara su sollecitazione: si verte dunque, ancora una volta, in un caso diverso da quello delle dichiarazioni spontanee. La regola prevista nell’art. 350 c.p.p., comma 7, si fonda infatti proprio sulla valorizzazione della “spontaneità” della dichiarazione laddove le pronunce della Corte Edu, mirano a garantire a ogni pressione il dichiarante sollecitato.».
[7] Vd. Cass. pen., Sez. III, 5 maggio 2015, n. 24944, in C.E.D. Cass. n. 264119, per cui «Il divieto assoluto di utilizzazione delle dichiarazioni rese dalla persona che sin dall’inizio doveva essere sentita in qualità di imputato o di indagato, previsto dall’art. 63, comma secondo, cod. proc. pen., si applica anche alle dichiarazioni confessorie spontaneamente fornite alla polizia giudiziaria da chi si trova oggettivamente nella condizione di indagato.», motivando che «la norma non distingue tra dichiarazioni sollecitate e dichiarazioni spontanee, né limita l’inutilizzabilità alle dichiarazioni di imputato o di indagato interessato o a quelle di imputato o di indagato in reato connesso e neppure alle dichiarazioni di chi abbia già la veste formale di imputato o di indagato. Si tratta solo di stabilire quando un soggetto venga a trovarsi nella sostanziale condizione, pur non avendone assunta la veste formale, di imputato o di persona sottoposta alle indagini.». In merito, invece, alla necessità di uno scrutinio pregnante della effettiva spontaneità del narrato ex art. 350, co. 7, c.p.p., di rimarchevole pervasività argomentativa è Cass. pen., Sez. III, 7 giugno 2012, n. 36596, ivi, n. 253575: «In tema di dichiarazioni rese dall’indagato e qualificate come spontanee dalla polizia giudiziaria che le ha ricevute, spetta al giudice accertare anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, la effettiva natura spontanea delle stesse, dando atto di tale valutazione con motivazione congrua ed adeguata.», sancendo, in motivazione, che «[…] questa norma eccezionale [l’art. 350, co. 7, c.p.p.] può applicarsi soltanto quando si tratti effettivamente, nel caso concreto, di dichiarazioni «spontanee», ossia rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini spontaneamente e non già a seguito di sollecitazioni o domande della polizia giudiziaria (in questo senso, invece, Sez. 4, 25.2.2011, n. 15018, Amata, m. 250228; Sez. III, 13.11.2008, n. 46040, Bamba, m. 241776). In altre parole, sembra che l’elemento decisivo per l’applicabilità della norma speciale (o eccezionale) risieda esclusivamente nella spontaneità delle dichiarazioni, che dunque non si risolvano sostanzialmente in risposte a domande della polizia, mentre non sembrano assumere rilievo decisivo, per affermare la spontaneità, elementi meramente formali quali la contestazione specifica del fatto costituente oggetto della imputazione e la presenza di domande e risposte raccolte in verbale sottoscritto dall’interessato […] Qualora poi, nel caso concreto, le dichiarazioni auto o etero accusatorie dell’indagato, assunte in assenza del difensore e degli avvisi di legge, non possano considerarsi realmente spontanee e non sia quindi applicabile la norma dell’art. 350, comma 7, cod. proc. pen., la loro eventuale inutilizzabilità va rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Spetta infatti proprio al giudice il compito primario di garantire la genuinità e la legalità delle prove poste a fondamento della sua decisione. Ne consegue che il giudice non può limitarsi a ritenere spontanee le dichiarazioni dell’indagato solo perché così qualificate dalla polizia giudiziaria che le ha ricevute, ma deve d’ufficio accertare, sulla base di tutti gli elementi, anche di natura logica, a sua disposizione se nel caso concreto era effettivamente ravvisabile tale spontaneità, dando atto di questa valutazione con motivazione congrua ed adeguata. Ne consegue anche che detto accertamento va compiuto d’ufficio dal giudice perché la mancanza di spontaneità e l’inapplicabilità della norma speciale comporterebbero una inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni anche nel giudizio abbreviato.».
[8] Vd. Cass. pen., Sez. I, 27 febbraio 2019, n. 12752, in C.E.D. Cass. n. 276176 e, nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 17 febbraio 2021, n. 14843, ivi, n. 280880, già citata in nota n. 2.
[9] Ex multis, cfr. Cass. pen., Sez. I, 22 gennaio 2019, n. 15563, ivi, n. 243734, nonché Cass. pen., Sez. VI, 26 ottobre 2011, n. 8675, ivi, n. 252279.
[10] Per tutte, vd. Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2020, n. 15798, in C.E.D. Cass. n. 279422.
[11] Cfr. Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2020, n. 9354, in C.E.D. Cass. n. 278639.
[12] Vd. la già cit. (in nota n. 7) Cass. pen., Sez. III, 7 giugno 2012, n. 36596, in C.E.D. Cass. n. 253575, laddove si è, con acuto approfondimento critico, affermato che «[…] non sembrano assumere rilievo decisivo, per affermare la spontaneità, elementi meramente formali quali la contestazione specifica del fatto costituente oggetto della imputazione e la presenza di domande e risposte raccolte in verbale sottoscritto dall’interessato (così, invece, le citate sentt. n. 15018/11 e n. 46040/08, che richiamano sul punto Sez. 1^, 20.5.1998, n. 2958, Alfano, la quale peraltro si riferiva all’obbligo, imposto dall’art. 141 bis cod. proc. pen., di documentazione integrale di ogni interrogatorio di persona che si trovi in stato di detenzione, salvo che esso abbia luogo in udienza). Sembra invero che i diritti fondamentali tutelati dagli artt. 63, 64 e 350 cod. proc. pen. (e l’esigenza di genuinità della prova) potrebbero essere allo stesso modo (se non più) compromessi qualora l’indagato risponda a domande o inviti degli investigatori senza che gli sia stato formalmente contestato un fatto reato determinato.».
[13] Una pregevole selezione delle più autorevoli voci dottrinali sull’argomento (spontaneità autodifensiva dell’indagato e incompatibilità di questa con la mancanza –prospettata in nomofilachia – della somministrazione degli avvisi delle garanzie di legge sub art. 64 c.p.p.) è in E. F. Aceto, Il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee a contenuto auto-incriminante rese alla polizia giudiziaria: il rischio di una pericolosa violazione dei diritti dell’indagato, in Archivio Penale 2020, n. 3, reperibile sul relativo sito web della rivista, laddove l’Autrice ammonisce (p. 10) che «Diversamente da quanto si sostiene, il vero discrimen per considerare “spontanea” la dichiarazione non è tanto da ricercarsi sul piano “dell’atteggiamento materiale” con il quale il dichiarante rende il contributo, ma sul diverso piano “psicologico”, “interiore”: è dal suo grado di consapevolezza ex ante sul vero significato processuale delle informazioni che andrebbe a riferire, che discende il carattere libero e spontaneo dell’apporto. E tale consapevolezza potrà assicurarsi solo con la previa conoscenza – da parte del dichiarante – di quel minimum in cui sono cristallizzati i suoi diritti, che nelle primissime fasi del procedimento (forse ancor più che nelle altre) sarebbe fondamentale attivare.», all’uopo citando, opportunamente, V. Bosco, Le dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria: il rischio di una pericolosa caduta per le garanzie dell’indagato, in www.lalegislazionepenale.eu del 13.11.2018, ad avviso della quale (p. 4) «Non bisogna dimenticare, infatti, che ci troviamo in una fase particolarmente delicata, quella delle indagini preliminari, dove avviene il primo contatto tra indagato e polizia giudiziaria; organo cui è demandato il solo fine investigativo e che, per sua natura, fornisce meno garanzie rispetto all’autorità giudiziaria.».
[14] Esso trae invero genesi dalla prassi formatasi sotto la vigenza del vecchio codice di rito: si veda sull’argomento P. Ferrua, Dichiarazioni spontanee dell’indiziato, nullità dell’interrogatorio di polizia ed invalidità derivata, in Cass. pen. 1984, pp. 1981 ss.
[15] E. F. Aceto, op. cit., p. 4, evidenzia invero che «L’istituto di cui all’art. 350, co. 7, c.p.p., tuttavia, non costituisce l’unica ipotesi di apporto “spontaneo” proveniente dall’incolpato: altri analoghi istituti sono, invero, previsti dagli artt. 421 co. 2, 494 co. 1 e 374 co. 1, c.p.p.», opportunamente citando in nota n. 7, F. Alonzi, Le indagini di polizia giudiziaria nell’ambito dell’accertamento penale, in Procedura penale. Teoria e pratica del processo, in G. Spangher – A. Marandola – G. Garuti – L. Kalb, (a cura di), Torino, 2015, p. 560, per cui i prefati τύποι codicistici di autodifesa dell’indagato e dell’imputato sono «tutti espressione dell’identica necessità, tipica del sistema accusatorio, di riconoscere sempre all’incriminato la possibilità di esporre liberamente ed in ogni momento quanto ritiene utile per la sua difesa», nonché, in nota n. 6, C. Fontani, Il contributo collaborativo dell’indagato e il controverso rapporto fra dichiarazioni spontanee e diritto di difesa, in Dir. pen. proc., 10, 2018, p. 1321, per cui «[…] benché sottoposta all’analisi critica della Consulta e al successivo intervento di modifica, la disciplina dell’istituto continua a suscitare molti dubbi a livello interpretativo, che derivano sia dalla laconicità dell’enunciato normativo, sia dalla difficoltà di una lettura coordinata e sistematica delle varie disposizioni dedicate alla tutela dei diritti dell’indagato.».
[16] Sul punto, pregevoli appaiono le riflessioni di C. Fanuele, Utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee nell’ambito del giudizio abbreviato, in Cass. Pen., 2009, pp. 2968 ss., il quale scrive (pp. 2972 e 2973) che «[…] poiché le dichiarazioni spontanee possono essere rese nel corso dell’intero procedimento – persino senza l’assistenza del difensore ed addirittura anche dalla persona in vinculis – risulta ancor più necessario interpretare in senso restrittivo la disposizione de qua. Pertanto, bisogna escludere che siano riconducibili nell’area delle dichiarazioni spontanee i contributi orali dell’indiziato stimolati, anche surrettiziamente, da parte degli inquirenti. Insomma, sono effettivamente “spontanee” soltanto quelle dichiarazioni che il soggetto indagato desidera rilasciare volontariamente alla polizia giudiziaria. Dunque, le dichiarazioni di cui all’art. 350, comma 7, presuppongono necessariamente che colui il quale le rende sia consapevole della sua qualità di indagato; in caso contrario, potrebbero essere eluse le garanzie relative all’avvertimento circa lo ius tacendi di quest’ultimo. Però, mentre, sotto il profilo concettuale, è piuttosto agevole individuare quali siano le condizioni imprescindibili per il realizzarsi della fattispecie in oggetto, frequentemente, nella prassi giudiziaria, si fanno rientrare nella categoria di dichiarazioni disciplinata dall’art. 350, comma 7, affermazioni totalmente estranee all’area dei contributi orali spontanei. In particolare […] vengono classificate come “spontanee” dichiarazioni invece “sollecitate” dalla polizia giudiziaria, sia direttamente – ossia tramite la formulazione di domande – sia indirettamente, cioè attraverso una convocazione della persona. È chiaro, però, che escamotages del genere finiscono per compromettere seriamente la funzione della disposizione in oggetto. Infatti, ritenere spontanee dichiarazioni provocate perché proferite conseguentemente ad un diretto invito a dichiarare significa trascurare un elemento essenziale dell’operazione autorizzata dall’art. 350, comma 7: l’instaurazione per libera e volontaria scelta dell’indagato di un rapporto dialettico con l’autorità inquirente.», citando in dottrina, a congruo sostegno di tali proprie osservazioni, E. Zanetti, Art. 350, in Atti processuali penali. Patologie, sanzioni, rimedi, diretto da Spangher, Ipsoa, 2013 (in nota n. 49), P. Ferrua, op. cit., p. 1983 (in nota n. 50), P. P. Paulesu, Art. 350, in Codice di procedura penale commentato, in A. Giarda e G. Spangher (a cura di), t. II, IV ed., Ipsoa, 2010, p. 4240 (in nota n. 51), M. Ceresa-Gastaldo, Le dichiarazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria, Giappichelli, 2002, p. 124. Sull’argomento, è del pari inappuntabile la sequenza logico-cronologica scandita da V. Bosco, op. cit., p. 13: «Ogni eventuale dichiarazione deve essere frutto di una decisione libera e volontaria. Ma la scelta libera impone la consapevolezza e la consapevolezza presuppone la conoscenza. Solo se l’indagato è conscio della sua situazione, dei suoi diritti e delle conseguenze del proprio contegno dichiarativo, può parlarsi di spontaneità. Come pure è necessaria la consapevolezza della circostanza che il destinatario del suo racconto sia un agente o un ufficiale di polizia giudiziaria, ossia uno di quei soggetti che risultano essere i legittimati a raccoglierle, che deve, dunque, palesarsi come tale. In assenza di questa totale contezza sarebbe arduo ritenere integrato il carattere che contraddistingue tali dichiarazioni.».
[17] In tali termini, ancora, si veda F. N. Ricotta, Spontanee dichiarazioni della persona sottoposta alle indagini e nemo tenetur se detegere: reminiscenze inquisitorie?, in Cass. pen. 2019, pp. 3107 ss., laddove (pp. 3314 e 3115) si interroga «[…] in quale modo l’ordinamento si assicuri circa la effettiva spontaneità del contributo dichiarativo offerto alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini non solo e non tanto in assenza del proprio difensore, ma perfino in assenza degli avvisi di legge destinati a rendere edotta la persona contattata dall’autorità inquirente dei propri diritti – in primis del diritto di tacere e dell’esclusione a suo carico dell’obbligo testimoniale – e dell’addebito mosso nei suoi confronti. È questo un aspetto cruciale, perché la spontaneità della dichiarazione deve presupporre che il dichiarante sia ben consapevole di quale sia l’accusa mossa nei suoi confronti e del fatto che non esiste a suo carico il dovere di deporre. Senza piena coscienza di questi due aspetti le dichiarazioni spontanee non possono certo connotarsi come dichiarazioni assistite da un’effettiva libertà di autodeterminazione […] La necessità di tutela è pregnante, alla luce del fatto che proprio quel concetto di spontaneità, nella realtà fattuale, non denota contorni di immediata chiarezza. Anzi, la sinteticità del dato positivo presta il fianco a situazioni idonee ad incidere patologicamente non solo sul profilo genetico, ma anche su quello dinamico, della genuinità delle dichiarazioni, in assenza tanto degli avvisi di legge, tanto del contributo specialistico prestato dalla presenza in loco del difensore. Si voglia perché la spontaneità dell’interlocuzione potrebbe vanificarsi se trasmutata in una risposta, potendo pervenire a seguito di velate o meno suggestioni da parte degli organi inquirenti. Sia perché, a meno di non trovarsi davanti ad un dichiarante edotto delle regole della procedura penale corrente al tempo della dichiarazione, il soggetto potrebbe ritenersi invece gravato comunque di un onere di collaborazione con l’autorità.», citando (in nota n. 47) M. L. Di Bitonto, Le dichiarazioni dell’imputato, in Giur. it., 2017, n. 8-9, p. 2005, per cui la posizione dell’indagato «può essere salvaguardata soltanto attraverso l’imposizione di obblighi di facere incombenti su pubblico ministero e polizia giudiziaria, destinati ad assicurare i presupposti di fatto che consentano all’inquisito di scegliere liberamente se rendere dichiarazioni oppure no.».
[18] I.e.: confliggente con una δόξα costituzionalmente orientata alla stregua dell’art. 111 Cost. e una esegesi sistematica della norma codicistica in esame sull’intervento dichiarativo spontaneo dell’indagato. Sull’argomento, in dottrina si vedano, su tutti, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000, p. 214, per cui il ricorso all’omesso riconoscimento all’inquisito dichiarante ex art. 350, co. 7, c.p.p. dell’obbligo in suo favore di assistenza tecnica difensiva e degli avvertimenti procedurali disciplinati all’art. 64 c.p.p. potrebbe rivelarsi una «sostanziale “trappola” investigativa che, dietro lo schema dell’art. 350, co. 7, c.p.p., viene costantemente tesa all’indagato», nonché V. Patanè, Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006, p. 197, ad avviso della quale tale insidia procedurale assurge a potenzialità di nocumento ancora più deflagranti, se ragguagliata alla «posizione di inevitabile soggezione psicologica dell’inquisito e alla relativa facilità con cui, nei suoi confronti, possono essere esercitate pressioni volte ad indurne l’atteggiamento collaborativo», Autori ambedue citati altresì, e assai opportunamente sullo specifico punto, dai concordi E. F. Aceto, op. cit., p. 17, e F. N. Ricotta, op. cit., p. 3118.
[19] Vd. note nn. 13 e 18 e, poi, nel dettaglio, E. F. Aceto, op. cit., p. 5: «L’unico momento che – per come attualmente costruito – appare disancorato dai presidi a tutela del diritto di difesa è, dunque, quello delle primissime fasi delle indagini preliminari, dove non infrequentemente si realizza un “contatto” tra indagato (molto spesso ancora semplice “sospettato”) e polizia giudiziaria: è evidente che eventuali dichiarazioni spontanee espresse in tale circostanza (secondo il paradigma dell’art. 350, co. 7, c.p.p.) sono da reputarsi sempre meno manifestazione del diritto di difesa.», all’uopo citando (in nota n. 8) G. Galli, Difesa dell’imputato e speditezza del processo. Dalla Costituzione alle leggi dell’emergenza, Milano, 1982, p. 103; V. Grevi, Le sommarie informazioni di polizia e la difesa dell’indiziato, Milano, 1980, pp. 63 ss.; Id., Nemo tenetur se detegere: interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, pp. 235 ss.; M. Tirelli, Le sommarie informazioni come mezzo d’investigazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, pp. 880 ss.
[20] Sui pericoli di tali deviazioni morfologiche si veda ancora F. N. Ricotta, op. cit., p. 3117: «La spontaneità, quale pilastro fondante dell’intera disciplina, postula ontologicamente l’assenza di sollecitazioni etero-indotte. Ma allo stesso tempo presuppone la circostanza, già evidenziata e per nulla scontata, che il soggetto abbia contezza dei propri diritti. Ciò significa, anzitutto, che la presa di coscienza circa le proprie prerogative consente di arginare gli effetti che la sola presenza della polizia giudiziaria può riverberare sul dichiarante: evita che lo stesso si auto-induca a risolversi in dichiarazioni, anche mal ponderate, nell’erronea convinzione di essere onerato a farlo per la generalizzata supposizione della sussistenza, in ogni contesto, di un rapporto di soggezione all’autorità pubblica.».
[21] Acuti i rilievi in tal senso di C. Fanuele, op. cit., pp. 2963 e 2964, laddove, in particolare, nel commentare una pronuncia di legittimità inserita nel genus sopra richiamato di quelle «secondo cui le dichiarazioni spontanee rese, in sede investigativa, alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta ad indagini sono successivamente utilizzabili, nell’eventuale giudizio abbreviato, sia contro chi le ha rese sia nei confronti di altri soggetti.», s’interroga «se una soluzione di tal genere […] sia o no ancora accettabile in un sistema avente ormai – dopo l’avvenuto inserimento nell’art. 111 Cost. dei principi sul “giusto processo” – una natura prevalentemente accusatoria. […] Sembra ora essere sfuggita, quindi, un’importante occasione per aprire nuovi spiragli ad esegesi sistematiche compatibili con i princìpi accusatori ed idonee a tutelare più efficacemente i diritti individuali nell’ambito delle indagini preliminari.».
[22] C. Fanuele, op. cit., p. 2974.
[23] Per un accurato ed esaustivo scrutinio dei moduli processuali autodifensivi tipici dell’imputato e dell’indagato, si veda G. Caneschi, L’imputato, in Trattato di procedura penale, in G. Ubertis – G. P. Voena (a cura di), Giuffré, 2021, pp. 97 ss. (paragrafo n. 11, La difesa personale, del Capitolo I, Lo status dell’imputato e la tutela dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti).
[24] Per tutti, in termini anche di ricognizione riepilogativa delle posizioni dottrinali in argomento, vd. E. F. Aceto, op. cit., pp. 17 e 18: «Non si comprende per quale ragione le dichiarazioni spontanee a contenuto confessorio debbano divergere dal modello di portata generale, né tantomeno quali “controindicazioni” possano derivare dall’attivazione delle guarentigie difensive. L’assistenza del difensore è, anzi, garanzia maggiore poiché non solo tutela il dichiarante da possibili comportamenti e prassi scorrette da parte degli investigatori, ma anche la stessa polizia giudiziaria in quanto, attraverso la formalità conferita all’atto dalla presenza del difensore e dalla procedura relativa alla sua convocazione, si evitano eventuali calunniose accuse di violenze fisiche o psicologiche nei confronti del dichiarante.».
[25] In tal senso, fra i vari, vd, ancora F. N. Ricotta, op. cit., p. 3118: «Del resto spunti di carattere sistematico, impliciti all’art. 3 c.p.p. e non solo ad esso, militano a favore della necessità che la dichiarazione spontanea sia resa successivamente alla ricezione degli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p., anche se non necessariamente in un momento immediatamente successivo ad essi. Del resto, gli artt. 63 e 64 c.p.p., il cui fondamento risiede in regole di rango costituzionale quali gli artt. 24, comma 2, e 27, comma 2, Cost., sono funzionali ad una tutela del soggetto non selettiva, ma a vocazione generale: rispondono alla esigenza di una tutela diffusa, in relazione al principio del nemo tenetur, che deve estrinsecarsi in ogni situazione laddove il proprio contributo conoscitivo possa risolversi in un risultato per sé pregiudizievole. Da un diverso angolo visuale, non può nemmeno affermarsi, che il comma 7 dell’art. 350 rappresenti una deroga rispetto alla regola generale: anzi, solo la struttura delle informazioni nella immediatezza dei fatti, di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 350, rappresentano una rinuncia espressa alle guarentigie contro la self incrimination. E infatti sono di per sé presidiati da una inutilizzabilità e un divieto di documentazione assoluti.».
[26] In questo solco, vd. V. Bosco, op. cit, p. 13, secondo la quale «In ultima analisi, pur volendo isolare la disposizione del settimo comma dell’art. 350 rispetto alle garanzie previste dai co. 1-4, non sussiste alcuna giustificazione in grado di legittimare uno statuto autonomo da riservare alle informazioni spontanee, rispetto all’impianto garantistico riconosciuto alle dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria. D’altronde, anche dal confronto con l’istituto dell’interrogatorio emerge che questo non si trasforma e che le garanzie ad esso collegate non subiscono variazioni a seconda che sia disposto o volontariamente richiesto dall’indagato.».
[27] Vd. E. F. Aceto, op. cit., p. 20: «[…] potrebbe risultare risolutiva una questione di legittimità costituzionale al fine di ottenere
dalla Consulta una sentenza interpretativa ovvero manipolativa dell’art. 350, co. 7, c.p.p. che sottragga espressamente dall’ambito di applicazione della norma in parola, la “speciale” categoria delle dichiarazioni spontanee a contenuto autoincriminante.».
[28] Vd. i paradigmi nomofilattici esaminati in nota n. 7.