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NEL LABIRINTO – DI FRANCESCO PETRELLI, LUCA MARAFIOTI, OLIVIERO MAZZA E NICOLA MAZZACUVA

NEL LABIRINTO – DI FRANCESCO PETRELLI, LUCA MARAFIOTI, OLIVIERO MAZZA E NICOLA MAZZACUVA

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NEL LABIRINTO

Il Giudice del Tribunale di Siena ha sollevato questione di legittimità costituzionale del Decreto-legge con il quale il Governo ha posticipato la entrata in vigore della cd. riforma Cartabia. Un segnale che vale come simbolica amplificazione di una già turbata ed incerta situazione nella quale versa l’intero sistema penale. La Direzione scientifica della Rivista coglie questo segnale e ne trae occasione per aprire un dibattito estendendo le proprie riflessioni a quei profili ancora indistinti ma che si intravedono con preoccupazione all’orizzonte della riforma indubbiamente più incisiva che abbia investito in questi trent’anni non solo il processo, ma l’intero sistema penale. D’altronde si tratta proprio di quel dialogo fra politica, avvocatura e accademia che Diritto di Difesa si promette di promuovere coinvolgendo anche la magistratura, che quanto mai in questo momento appare disunita nel valutare le ultime iniziative del legislatore, avendo a mente la universalità dei valori costituzionali e convenzionali che il nuovo modello di processo e di diritto penale mette in gioco. I contributi del Direttore Francesco Petrelli e dei componenti della direzione scientifica Luca Marafioti, Oliviero Mazza e Nicola Mazzacuva.

NEL LABIRINTO

di Francesco Petrelli

Il Giudice del Tribunale di Siena ha sollevato questione di legittimità costituzionale del Decreto-legge n. 162 del 31 ottobre 2022, con il quale il Governo ha posticipato la entrata in vigore della cd. riforma Cartabia (Decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022), denunciandone il conflitto con gli artt. 3 e 117 Cost. e con l’art. 7 della Convenzione. Non sappiamo se altri giudici porranno analoghe questioni o se in situazioni processuali analoghi altri processi saranno rinviati e tanto meno quale sorte avrà questa eccezione quando sarà posta al vaglio del giudice delle leggi, ma si tratta certamente di un segnale che vale come simbolica amplificazione di una già turbata ed incerta situazione nella quale versa l’intero sistema penale. Forse in nessun momento si è avvertita una così profonda instabilità ed una tanto estesa imprevedibilità degli esiti delle mutazioni normative.

La Direzione scientifica della Rivista coglie questo segnale e ne trae occasione per aprire un dibattito che non può non allargarsi oltre il confine, pure assai interessante e che inevitabilmente coinvolge anche gli altri disparati oggetti della medesima decretazione d’urgenza in materia penale, l’art. 434-bis (cd. legge cd. anti-rave) e l’ergastolo ostativo, estendendo le proprie riflessioni a quei profili ancora indistinti ma che si intravedono con preoccupazione all’orizzonte della riforma indubbiamente più incisiva che abbia investito in questi trent’anni non solo il processo, ma l’intero sistema penale. Sono numerose, infatti, le intersezioni che sono state operate dalla riforma fra istituti processuali e sostanziali con l’inevitabile insorgere di problematiche del tutto nuove nella loro applicazione e la conseguente formulazione di alcuni interrogativi, che riguardano anche il ruolo del difensore e del giudice.

D’altronde si tratta proprio di quel dialogo fra politica, avvocatura e accademia che Diritto di Difesa si promette di promuovere coinvolgendo anche la magistratura, che quanto mai in questo momento appare disunita nel valutare le ultime iniziative del legislatore (basti pensare che il provvedimento di rinvio denunciato di incostituzionalità era stato espressamente sollecitato dalla stessa magistratura), avendo a mente la universalità dei valori costituzionali e convenzionali che il nuovo modello di processo e di diritto penale mette in gioco. Consapevoli, dunque, che solo una applicazione delle nuove regole attenta ai valori del giusto processo, della dignità dell’imputato e della centralità delle garanzie che li presidiano possa evitare una degenerazione dell’intero sistema penale.

Il netto abbandono da parte della riforma Cartabia del sintagma populista, con l’accoglienza inequivoca di istanze progressiste contrarie alle retoriche del giustizialismo, si confronta infatti ora, sul campo, con l’opposto rischio di consegnare il processo penale ad una efficientizzazione tecnocratica che metta al centro del sistema il processo piuttosto che l’imputato. Di privilegiare insomma le uscite dal processo non al fine di salvaguardare il valore del dibattimento e la centralità del contraddittorio.  Molto della tenuta di quella riforma dipenderà dalla volontà delle nuove maggioranze, dalla lungimiranza del Ministro, dalla cultura e dai valori che la magistratura saprà – così come oggi si dice – mettere a terra nella interpretazione e nella applicazione delle norme. Molto dipenderà dalla nostra capacità di elaborazione e di comunicazione e dal livello del dibattito che sapremo sollecitare.

PROCESSO PENALE, INCERTEZZA E FASTIDIO

di Luca Marafioti

Molto singolare la condizione dei giuristi, degli avvocati e, soprattutto, dei cittadini, disorientati dall’incertezza ingenerata dal saliscendi sulla riforma della giustizia penale.

Le cadenze della vicenda sono ormai note. La suspence sul destino delle norme in materia evoca, però, atmosfere hitchcockiane: approvazione in extremis dei decreti delegati, ad entrata in vigore ravvicinata e con norme transitorie di stampo minimal; movimento più o meno sotterraneo di resistenza negli ambienti giudiziari all’entrata in vigore immediata; decreto-legge governativo che blocca sul filo di lana l’operatività della riforma, dilatandone la vacatio-legis, con il rischio di una eventuale, possibile, ulteriore modifica qua e là del tessuto normativo.

A rendere più imprevedibile la cornice, s’inseriscono le prime questioni di legittimità costituzionale sul decreto-legge, il cui humus giuridico appare fortemente condizionato anche e soprattutto dalle divergenze sulla politica legislativa che attraversano la stessa magistratura. All’anima restia alle novità inerenti ai profili processuali della riforma che si presentano semplicemente diversi da una mera rimasticatura di trends giurisprudenziali già di fatto operanti pare contrapporsi quella ansiosa di metterne alla prova le potenzialità deflattive sul piano sostanziale, in ottica di favor rei. Con tutte le possibili nuances chiaroscurali.

Ora, si sollecitano pronunzie della Consulta che mai potrebbero intervenire prima della fine del corrente anno che dovrebbe nuovamente recare in dono la riforma Cartabia. In simile convulso e confuso scenario, non sembri poi così scontato doversi dolere oggi per una riforma ancora non nata, caratterizzata da più ombre che luci.

Neppure siamo tenuti a biasimare acriticamente il Governo che si sarebbe fatto strumento per “fermare sul bagnasciuga” le sorti magnifiche e progressive di una spinta riformatrice ritenuta inesorabile. Essa – ammoniscono – ci avrebbe tenuto al passo con l’Europa, in quanto svecchiava e velocizzava in modo significativo un rito ormai moribondo ed elefantiaco. L’attuale Governo avrebbe, insomma, intimato un alt alla Cartabia percepito come un attacco alla cultura “migliorista” e tecnocratica del processo, maggioritaria nel pensiero giuridico corrente, con note di rozza e marcata incostituzionalità.

Ogni valutazione in proposito, rimessa alla sensibilità ed alle idee dei singoli, non può farci dimenticare che quella appena congelata era riforma tutt’altro che banale, ma approvata senza un minuto di dibattito parlamentare, senza alcun confronto politico, varata per giunta in fretta e furia da un governo dimissionario. Si tratta di dati non trascurabili a livello giuridico-politico e idonei a contribuire a formarsi un’opinione in materia.

A prescindere dalle sedi in cui essa pareva espressione di pura e semplice attuazione di punti della delega frutto di copia e incolla di orientamenti giurisprudenziali e prassi quotidiane, stiamo pur sempre parlando di una legislazione novellistica che si è risolta in una sequela di occasioni mancate.

Era, infatti, auspicabile la formazione di una nuova mappa concettuale, idonea a ripensare in profondità le categorie del processo e, più in generale, il rapporto tra pena, processo e obbligatorietà dell’azione penale in un sistema moderno.

Interrogativo dagli esiti scontati, però, allorché i criteri di priorità, la nuova improcedibilità e la giustizia riparativa rappresentano altrettante occasioni mancate per rimodulare complessivamente il sistema.

Mentre, per certo, viene mancata l’occasione per rivedere la magica forza che l’imputazione esercita sul processo penale. Nessuno può ragionevolmente credere che la modifica della regola di giudizio compendiata nell’art. 425 c.p.p. possa rappresentare una soluzione del problema cui intende dare una risposta. Rischia di rivelarsi soltanto una norma-manifesto, inidonea a contenere l’impatto dell’imputazione, se non, addirittura, dizione utile ad ingigantirne il peso, anziché a contingentare i dibattimenti inutili.

Rimane, insomma, sostanzialmente negletto il tema di un vaglio effettivo sulla sostenibilità di accuse che spiegano devastanti effetti ben prima di una decisione sul merito.

Altrettanto legittimo il dubbio sull’efficacia dell’arzigogolata disciplina in tema di retrodatazione della iscrizione delle notizie di reato: chissà se effettivo deterrente per prassi deteriori e reale presidio a tutela del quotidiano calpestio delle garanzie a causa di intempestive qualifiche di indagato.

L’occasione sembra mancata anche per ripensare sul serio alle regole di un dibattimento ormai totalmente in perdita di senso. Lamentarsi del decreto-legge non può significare rinuncia definitiva al significato rivestito dal principio di oralità-immediatezza, rispetto alla deriva post-Bajrami, né minimizzare la portata del compromesso intervenuto in materia di rinnovazione del dibattimento e mutamento del collegio. Appare, pertanto, preferibile attestarsi sulla battaglia che l’Unione delle Camere Penali sta conducendo per riportare al centro il tema di una riforma processuale.

È un’occasione persa anche per reagire alla burocratica spinta alla segretezza della giustizia penale cui abbiamo assistito per colpa della pandemia; pensiamo all’incredibile vicenda della disciplina contenuta all’interno del Milleproroghe, che fino al 31 dicembre consente di tenere fuori la difesa dai processi, se non bussando con la propria zampetta agli uffici chiedendo di poter partecipare. Lo spirito di tale cacciata dell’avvocatura dal Tempio pervade in certa misura anche la riforma.

Altrettanto mancata l’occasione per ripensare al tema delle impugnazioni, anziché compiere semplicemente altri piccoli passi per razionalizzare la spinta proveniente dalla prassi al fine di ridurre l’area dell’appellabile e del ricorribile, senza una vera e propria riforma complessiva. Allo scopo, da un lato, di tenere per quanto possibile la difesa fuori dalle aule delle impugnazioni, attraverso i casi di rito non partecipato o partecipato solo “a domanda”; dall’altro e più in generale, di incrementare a tutti i costi il tasso di stabilità delle decisioni di primo grado, non importa se accompagnato o meno ad un elevato tasso di qualità dei pronunciati giurisdizionali. In quest’ottica, si spiegano la spinta a controlli sempre più “con filtro” ed inaudita altera parte, perciò senza intralci provenienti da perorazioni difensive.

Primo della lista nelle occasioni mancate, resta però l’istituto “pecora nera” di tutti questi anni, anzi il rapporto tra quest’istituto, vale a dire la prescrizione, e il processo penale.

Da strumento in perenne crisi di direzione a nemico pubblico numero uno della politica, fino agli scienziati abolizionisti della legislazione Buonafede, pronti a creare un rapporto oltre l’assurdo tra processo e prescrizione. Un istituto, invece, rinato come un’araba fenice, in forza del compromesso politico nel centrosinistra per ricomporre la situazione mediante un cambio di etichetta.

Questo meccanismo, però, ha rischiato di sfuggire di mano, per le frontiere aperte dal nuovo art. 344-bis c.p.p. Abbiamo visto di tutto: con giuristi che si scagliavano contro la previsione, demonizzandola come corpo estraneo ed inaccettabile per la lesione inferta alla purezza dell’istituto dell’improcedibilità, come sino ad allora studiato a tavolino e scomunicata come impossibile da accettare con le tradizioni categorie del punire.

Il momento appariva propizio, invece, per recuperare dallo scaffale polveroso del giurista quelle misure doppiamente funzionali, le Doppelfunktionelle Prozesshandlungen che i tedeschi ci avevano insegnato a studiare e dalle quali ci eravamo allontanati in una sorta di purismo, rivendicando l’autonomia teorica del processo penale.

Era un’occasione per ripensare al tema dei presupposti processuali, nel cui novero anche il tempo avrebbe potuto essere inserito, anche in termini di limite al processo. Più in generale, sarebbe stato forse preferibile prevedere una sorta di estinzione del processo, piuttosto che simile ibrido.

Se ripercorriamo la giurisprudenza di Cassazione sul rapporto tra inammissibilità del ricorso ed improcedibilità, sembra, tuttavia, già smarrita qualsiasi speranza di rimodulare i punti di intersezione tra profili processuali e sostanziali di quella nozione di “perseguibilità” cui faceva riferimento la stessa Corte Costituzionale.

Ma il rapporto fra pena e processo è delineato anche da altre norme della riforma Cartabia. Per esempio, nelle ipotesi in cui la pena abdica alla sua funzione: si pensi allo sconto sanzionatorio per l’imputato che rinuncia all’impugnazione; all’intreccio in materia rieducativa, che apre immensi dubbi sulla funzione del processo, sulla dimensione processuale, sulla non necessità del processo, sulla scelta di prescindere dal meccanismo processuale quale tradizionale strumento illuministico per la soluzione del conflitto aperto dalla violazione di una norma penale.

Forse: la visione del processo che si ricava dal complesso di simili novelle, unite all’insofferenza verso la difesa e verso i controlli, con la malintesa tutela dell’istinto di conservazione della decisione di primo grado, sono pur sempre segnali di simpatia e preferenza per le magnifiche sorti e progressive dell’accusa.

Al contempo, si manifesta fastidio per ogni presunta perdita di tempo nel processo e, in definitiva, a causa del processo stesso, tanto da farlo sembrare un ser inutil.

In definitiva, a dover preoccupare il giurista, l’avvocato e il cittadino è propria tale sensazione, ben più della constatata incertezza sulla legge processuale che verrà…

LA RIFORMA CARTABIA, MONTESQUIEU E IL GIUDICE A SIENA

di Oliviero Mazza

1. La teratologia della clinica giurisprudenziale, per usare felici espressioni corderiane, si arricchisce di un nuovo mirabile esempio di come il wishful thinking del giudice ambisca a sostituirsi, questa volta tramite il precoce incidente di costituzionalità, al legislatore, peraltro a un Parlamento che ha appena ottenuto una piena legittimazione democratica.

A prima lettura, e volendo seguire la scansione argomentativa di una motivazione molto articolata e meditata, non può che essere apprezzato l’assioma per cui anche le condizioni di procedibilità ricadrebbero nel concetto di perseguibilità in concreto e sarebbero attratte dalla disciplina intertemporale del diritto penale sostanziale. Non si tratta di un obiter dictum, ma del vero e proprio presupposto di tutto il ragionamento che, altrimenti, finirebbe per naufragare nelle secche delle norme processuali governate dal tempus regit actum.

La rilevanza di questa affermazione è straordinaria se si pensa a come la Cassazione, anche di recente, abbia alzato l’argine della natura processuale per sterilizzare l’efficacia nel tempo della neonata condizione di (im)procedibilità cronologica (art. 344-bis c.p.p.).

Da tempo si sostiene la natura penale di tutte le condizioni di procedibilità da cui dipende la punibilità in concreto, dando rilevo a quel concetto ampio di perseguibilità che segna la crasi fra condizioni di punibilità e condizioni di procedibilità, superando gli steccati nomenclatori nell’ottica della tutela rafforzata garantita dalla “materia penale” a tutte le disposizioni che fanno la differenza fra punire e non punire.

C’è solo da sperare che questo modo di ripensare il sistema penale nel suo insieme non sia dettato solo dallo zelo interpretativo richiesto per censurare il decreto-legge governativo, ma rappresenti una sempre più convinta apertura della giurisprudenza, almeno di quella di merito.

Se l’incipit merita un plauso convinto, il successivo incedere della motivazione sembra ispirato a un crescendo di paralogismi che prendono avvio dalla seguente affermazione: “essendo maturate per entrambi i delitti oggetto di giudizio le relative fattispecie estintive della punibilità, costituite dalla dall’intervenuta remissione di querela”, l’esecrabile decreto-legge, che ha disposto il differimento dell’entrata in vigore dell’agognata riforma Cartabia, avrebbe “precluso al Tribunale l’accertamento dell’estinzione” dei reati.

La fallacia del ragionamento è grave, in quanto la premessa, ossia la maturazione delle cause estintive del reato, non è vera. La violenza privata e il danneggiamento aggravato, oggetto del giudizio, sono tutt’oggi procedibili d’ufficio. Come si può allora ritenere che la remissione di querela sia una causa estintiva di un reato procedibile d’ufficio? Il giudice senese ragiona in ipotesi de iure condendo, ma espone gli argomenti in termini assertivi de iure condito. Purtroppo, la prima delle condizioni di una buona argomentazione è la verità delle premesse, mentre qui si commette il gravissimo errore di premettere una circostanza non vera, ma che potrebbe essere vera solo a condizione che entrasse in vigore la riforma, ossia proprio quella condizione che, per non essersi avverta, ha spinto il giudice a sollevare l’incidente di costituzionalità. Porre premesse false implica poter dedurre qualsiasi conclusione, o meglio, come nel caso concreto, la conclusione desiderata.

L’ordinanza sorprende anche nella parte in cui afferma che, “essendosi ormai chiuso il dibattimento, si deve in concreto rilevare come il complessivo materiale probatorio acquisito nel corso dell’istruttoria non consenta in alcun modo di pervenire ad una pronuncia assolutoria a norma dell’articolo 129, secondo comma, del codice di procedura penale, dagli atti non essendo emersa alcuna circostanza chiara, evidente, manifesta ed obiettiva, in grado di escludere in radice l’esistenza dei fatti contestati o la loro rilevanza penale ovvero la non commissione degli stessi da parte dell’imputato”. Non è del tutto ingenuo domandarsi se al termine del dibattimento il giudice non sia tenuto ad applicare l’art. 530 comma 2 c.p.p. piuttosto che l’art. 129 comma 2 c.p.p. Più che soffermarsi sull’assenza di una prova evidente di innocenza, il provvedimento in esame avrebbe dovuto dar conto dell’esistenza di prove sufficienti per affermare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, solo così avrebbe potuto sostenere la rilevanza della questione attinente alla procedibilità. All’esito del dibattimento e addirittura dopo che si è svolta la discussione – come, appunto, nel caso di specie – il giudice deve applicare la regola di giudizio imposta dalla presunzione d’innocenza e solo qualora ritenga colpevole l’imputato, interrogarsi sulla procedibilità.

Sembra una questione ultronea, ma a ben vedere è il presupposto dell’incidente di legittimità. Tra le righe del passaggio motivazionale in esame si scorge una situazione di contraddittorietà della prova, probabilmente determinata dalle scelte remissive della persona offesa, che avrebbe sbriciolato il presupposto della rilevanza della questione di legittimità. Potremmo sbagliarci, ma dalle parole dell’ordinanza traspare una certa forzatura teleologica servente a mantenere formalmente in piedi l’incidente di costituzionalità alternativo al dovere di assolvere l’imputato.

2. Veniamo alle vere e proprie censure mosse al decreto-legge, partendo da quelle che il giudice stesso annovera fra le cause di invalidità formale.

La prima riguarda l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza imposti dall’art. 77 comma 2 Cost. La Carta fondamentale stabilisce che il giudice “naturale” di tale requisito sia, almeno in prima battuta, il Parlamento a cui spetta il compito di convertire o meno il decreto-legge. La censura appare quantomeno intempestiva e, comunque, la straordinaria necessità e urgenza, dal punto di vista del nuovo Governo, a torto o a ragione, risiedeva nell’esigenza di bloccare in extremis l’entrata in vigore di una riforma ritenuta quantomeno imperfetta e paradossalmente foriera di inefficienze per il sistema penale.

La seconda è intrisa di un formalismo che non eravamo più abituati a ritrovare nell’ermeneutica giurisprudenziale. Secondo il giudice senese, l’art. 73 comma 3 Cost. stabilirebbe che un periodo di vacatio legis superiore ai 15 giorni possa essere disposto solo dalla stessa legge destinata a entrare in vigore in un termine superiore a quello ordinario. Altre leggi non potrebbero incidere sull’entrata in vigore. L’argomento è ancora una volta viziato e l’errore risiede sempre nella premessa. Se il fenomeno opposto all’entrata in vigore, ossia l’abrogazione, può essere determinato solo da una legge diversa, non si comprende per quale ragione sistematica e logica, al di là del discutibile dato testuale dell’art. 73 comma 3 Cost., la stessa cosa non possa accadere anche per la vigenza. Dunque, così come una legge diversa può incidere sulla fine della vigenza, disponendo l’abrogazione, analogamente una diversa legge può incidere sull’inizio della vigenza, disponendone il differimento.

Oltre all’argomento sistematico, direi insuperabile, anche il tenore letterale della previsione costituzionale sembra smentire il giudice remittente, posto che l’art. 73 comma 3 Cost. usa il plurale, leggi, con ciò implicando la possibilità che sia anche una legge diversa a stabilire un più lungo termine di vacatio legis.

Il terzo argomento, invero il più sottile e insidioso, gioca sulla confusione concettuale fra vigenza ed efficacia della legge. Si afferma che il decreto-legge imporrebbe una “disposizione transitoria travestita sotto altro nome”, categoria interessante dal punto di vista concettuale, ma non pertinente al caso di specie. Il Governo ha voluto espressamente bloccare l’entrata in vigore e non differire l’efficacia nel tempo di norme già vigenti. Peraltro, non conta la volontà del legislatore storico, ma il significato attribuibile alla disposizione, con la conseguenza che, qualunque cosa avesse voluto il nuovo Ministro della Giustizia, la previsione dell’art. 6 del d.l. n. 162 del 2022 dispone testualmente il differimento della vigenza e non dell’efficacia temporale di una riforma già in vigore.

3. Le critiche di natura sostanziale si aprono con la perentoria affermazione che la disposizione censurata, ossia il differimento dell’entrata in vigore della riforma, sarebbe priva di ragionevolezza intrinseca, patologia misurabile sul metro di un nuovo e sorprendente principio di “non ultrattività delle norme penali sfavorevoli”, frutto di un espediente argomentativo abbastanza scoperto ossia della scelta di rovesciare la prospettiva classica del principio di retroattività più favorevole. Il vizio logico, tuttavia, è sempre il medesimo: tutti i principi intertemporali, dalla irretroattività sfavorevole, alla retroattività favorevole per finire con la nuova non ultrattività sfavorevole, si applicano e possono essere invocati solo con riferimento alle norme vigenti, non avendo nulla a che vedere con una legge – un decreto legislativo per la precisione – non ancora entrato in vigore.

Da ciò deriva che anche l’irragionevolezza intrinseca di natura intertemporale, rapportata più all’art. 25 comma 2 Cost. che all’art. 3 Cost., non può essere utilizzata per sindacare un testo di legge non vigente. Sarebbe come postulare l’irragionevolezza dell’applicazione nel tempo di un disegno di legge, irragionevole proprio perché non ancora divenuto legge vigente.

Sul punto vale la pena di soffermarsi. Tutte le critiche sostanziali riguardano l’applicazione nel tempo della legge, ma perdono di vista il dato essenziale che, per discutere la dimensione cronologica dell’efficacia normativa, occorre prima la vigenza delle disposizioni. La prospettiva è gravemente distorta, gli argomenti possono anche essere persuasivi, ma in un diverso contesto, ossia con riferimento a una legge vigente, mentre non servono per censuare un articolato di disposizioni che non è ancora entrato in vigore.

La confusione è voluta e cercata, si discute dei principi di garanzia che regolano l’efficacia nel tempo delle norme penali sostanziali, ma si dimentica che l’oggetto di doglianza è la loro non vigenza.

Emerge, con disarmante chiarezza, il wishful thinking del Tribunale di Siena: la riforma è apprezzabile, ergo deve subito entrare in vigore e non può essere modificata. Ma il paradosso è proprio questo, prima dell’entrata in vigore, la riforma non è applicabile né a favore né a sfavore, non produce alcun effetto in quanto il procedimento legislativo non si è ancora concluso e le scelte politiche sottostanti potrebbero essere cambiate. Come per ogni disegno di legge, si possono legittimamente coltivare aspettative, l’iter avanzato della promulgazione e della pubblicazione prelude all’entrata in vigore, ma fino a quando la nuova legge non sarà vigente la nuova maggioranza politica potrebbe, per assurdo, escludere ogni norma di favore, senza vincoli costituzionali e senza incidere sulla successione di leggi nel tempo, posto che la “riforma Cartabia”, va ribadito, non è ancora entrata in vigore.

4. In modo nemmeno troppo velato, l’incidente di costituzionalità si riduce alla contestazione della scelta politica di posticipare l’entrata in vigore di una riforma che è stata approvata da un diverso Governo e, soprattutto, in un ben diverso quadro politico. Anche volendo prescindere dai vizi logico-giuridici in cui incorre il giudice remittente, tutte le censure, da quelle formali a quelle sostanziali, attengono, a ben vedere, alla discrezionalità politica. Se poi si tiene conto che l’incidente di costituzionalità non potrà mai essere deciso prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore posticipata della riforma, appare chiaro il significato esclusivamente politico dell’ordinanza in questione, non certamente misurabile con le categorie del diritto. Una ordinanza “monitoria” che diffida il Governo non tanto dal posticipare la vigenza, scelta peraltro già compiuta, quanto dal modificare i contenuti della riforma, essendo proprio questo l’avvertimento lanciato dall’ordinanza in commento, una presa di posizione in favore di certi valori che sarebbero, almeno per il giudice di Siena, politicamente intangibili. Del resto, a conferma del fatto che proprio questo sia il messaggio indirizzato, in primis, all’attuale Governo, basterebbe ricordare che quello intertemporale è un falso problema se rapportato a norme penali più favorevoli che, una volta entrate in vigore, si applicheranno retroattivamente in tutti i processi in corso e addirittura anche oltre l’eventuale giudicato.

Lo stratagemma retorico impiegato dal Tribunale di Siena si svela limpidamente: si vogliono tutelare mere aspettative in ordine al mantenimento delle scelte politiche sottese alla riforma Cartabia con strumenti e regole che riguardano l’applicazione nel tempo del diritto vigente. Come dire, un fine legittimo, e in parte anche condivisibile, perseguito con strumenti del tutto inadeguati.

Nell’epoca del diritto liquido siamo ormai abituati a quasi tutto, ma finora non si era mai dovuto assistere a un’attività giurisdizionale compiuta a tutela preventiva dell’entrata in vigore e della immodificabilità di una riforma che non è mai stata discussa in Parlamento, che si è fondata su una legge delega approvata con doppio voto di fiducia, che è stata licenziata da un Governo dimissionario e fatta passare per un affare corrente, che è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale dopo l’esito delle elezioni politiche e che è stata imposta a tappe forzate, tacitando ogni forma di dissenso, con l’escamotage di un PNRR che, a ben vedere, non doveva nemmeno incidere sul sistema penale nel suo complesso.

Dalle stravaganze del diritto vivente possiamo trarre un’unica certezza: Montesquieu non abita a Siena.

PER UN DIRITTO PENALE LIBERALE E RAZIONALE

di Nicola Mazzacuva

La recente ordinanza del Tribunale di Siena si inserisce nell’ampio dibattito che ha avuto ad oggetto l’entrata in vigore (e ancor più la ‘mancata’ entrata in vigore) della riforma Cartabia e dei relativi decreti attuativi.

Ben noto quanto accaduto, ma forse vale la pena ripercorrere brevemente le tappe essenziali della singolare vicenda, giocata tutta sul filo delle scadenze temporali. Il 27 settembre 2021 veniva approvata la legge n. 134 con delega al Governo “per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. I lavori parlamentari erano iniziati già durante il secondo ‘governo Conte’: successivamente il nuovo Ministro della Giustizia provvedeva a nominare un’apposita Commissione di studio e, all’esito dei lavori di tale Commissione, il Governo nel luglio 2021 presentava una serie di emendamenti al testo dell’originario disegno di legge in quel momento all’esame della Commissione Giustizia della Camera; il testo finale della legge veniva, poi, approvato dalla Camera dei deputati il 3 agosto 2021 e, definitivamente, dal Senato il successivo 23 settembre.

In particolare, tra le altre disposizioni, l’art. 1 della legge n. 134/21 prevedeva una serie di deleghe al Governo, da esercitare entro un anno dalla sua entrata in vigore. Tra di esse, alcune riguardavano aspetti procedurali con conseguente ricaduta sull’organizzazione degli Uffici giudiziari coinvolti, mentre altre – e, per quanto qui interessa, appunto i principi e criteri direttivi previsti al comma 15 dell’art. 1, volti ad apportare modifiche in materia di condizioni di procedibilità – non comportavano all’evidenza alcun intervento sul piano organizzativo.

Per dare attuazione alla suddetta delega hanno operato presso l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia ben sei gruppi di lavoro composti da qualificati esperti, anche grazie ai quali si è arrivati allo schema di decreto approvato preliminarmente dal Governo il 4 agosto 2022, cui hanno fatto seguito anzitutto i pareri favorevoli di Camera (del 13 settembre) e Senato (del 15 settembre); poi la definitiva deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri in data 28 settembre 2022, quindi l’emanazione da parte del Presidente della Repubblica e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale in data 17 ottobre 2022.

E, tuttavia, mancava ancora l’ultimo tassello affinché la ‘riforma’ fosse operativa, ovvero il decorrere della vacatio legis ordinaria prevista dall’art. 73 Cost., all’esito della quale il decreto sarebbe dovuto entrare in vigore il 2 novembre scorso.

Proprio in ‘zona Cesarini’, riprendendo così una metafora contenuta in un primo commento all’ordinanza in esame (Gatta, Procedibilità a querela e rinvio della Riforma Cartabia: sollevata questione di legittimità costituzionale, in Sistema Penale, 12 novembre 2022), il nuovo Governo ha deciso di intervenire attraverso l’art. 6 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, che ha procrastinato – integralmente – l’entrata in vigore delle nuove norme. Lo scopo dichiarato di tale ultimo intervento normativo, come può leggersi nella Relazione di accompagnamento, è quello di dare seguito alla “riscontrata necessità di approntare misure attuative adeguate a garantire un ottimale impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici”, ma la previsione di carattere generale ha, in effetti, rinviato l’entrata in vigore anche delle norme per nulla incidenti (anzi tutt’altro!) sull’organizzazione degli uffici giudiziari, tra le quali appunto quelle – sulla procedibilità a querela – che hanno dato origine alla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Siena.

Ebbene, risulta in ogni caso sempre utile rimarcare come una riforma orientata verso un necessario ‘riduzionismo punitivo’ avrebbe potuto/dovuto essere connotata da una seria e razionale depenalizzazione (quantomeno di buona parte) delle figure criminose – sia delitti, sia (soprattutto) contravvenzioni – che palesano all’evidenza (ad esempio, per essere sanzionate con pene modeste soltanto di natura pecuniaria) il loro contrasto con principi fondamentali come quelli di ‘frammentarietà’ e di ‘sussidiarietà’ dell’illecito penale: la previsione di un reato, in ogni ordinamento civile, deve costituire davvero l’extrema ratio dell’intervento punitivo (e va menzionato, al riguardo, proprio il principio n. 9 del nostro ‘Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo’ secondo cui “la frammentarietà è carattere irrinunciabile del diritto penale, così come la risposta penale deve costituire l’extrema ratio a fronte di altri possibili rimedi sanzionatori”).

Una diminuzione (cospicua) del numero delle fattispecie criminose ‘minori’ (se non davvero ‘bagattellari’ in talune ipotesi) costituisce anche fondamentale soluzione per abbattere l’attuale enorme carico giudiziario con conseguente riduzione immediata – anche ben oltre la ‘prefissata’ percentuale del 25% da attuare progressivamente nei prossimi cinque anni destinati, secondo la riforma, alla ‘celere definizione anche dei procedimenti giudiziari’: così lo stesso titolo del Dlgs. n. 10 ottobre 2022, n. 150 – dei tempi di definizione dei residui procedimenti per i reati da (continuare a) trattare.

In questo contesto di perdurante inerzia di intervento sul diritto penale sostanziale – ormai senz’altro puntualmente definibile come ‘diritto penale massimo’ e/o ‘totale’ – davvero sorprende l’immotivata proroga (persino contrastante con le ragioni indicate per ‘decreto-legge’) dell’entrata in vigore del citato Dlgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Infatti il “differimento dell’entrata in vigore della riforma penale” trova invero – come detto – una sua specifica ratio giustificativa (distinta e diversa dalle altre) nella “riscontrata necessità di approntare misure attuative adeguate a garantire un ottimale impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici”.

Risulta, così, in effetti del tutto irragionevole, e all’evidenza financo distonico con le declamate ragioni della proroga, il differimento – per decreto legge! – dell’entrata in vigore (anche) degli artt. 2 e 3 del predetto decreto legislativo n. 150/2022 volti ad un modestissimo ampliamento del novero dei reati procedibili a querela assoggettando, in particolare, a tale regime processuale soltanto otto delitti (quelli di cui agli artt. 582, 590-bis, 605, 610, 614, 624, 634 e 635 c.p. nelle tipologie non aggravate) e due contravvenzioni (quelle di cui agli artt. 659-660 c.p.).

Superfluo osservare che una siffatta (davvero) minima modifica di disciplina (soltanto) processuale non incide direttamente sul piano sostanziale lasciando, appunto, comunque residuare la rilevanza penale dei fatti riconducibili alle fattispecie criminose sopraindicate, limitando così la portata della soluzione deflattiva attuata con il recente decreto legislativo.

Si può, allora, senz’altro condividere l’affermazione (contenuta nell’ordinanza) secondo cui la proroga dell’entrata in vigore delle disposizioni in esame (artt. 2 e 3 del Dlgs. n. 150/22) non riesce davvero a superare il vaglio di ragionevolezza intrinseca imposto  dall’art. 3 della Costituzione, non rinvenendosi alcuna sufficiente ragione giustificatrice della necessità di stabilire, oltretutto in via d’urgenza,  un (nuovo)  termine di vacatio legis relativo all’intero decreto, con l’effetto di impedire l’applicazione delle ‘minime’ modifiche più favorevoli al reo previste dallo stesso atto normativo consentendo, in tal modo, un’ultrattiva applicazione in malam partem della precedente disciplina.

Nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale viene, poi, ben argomentata la rilevanza nel nostro ordinamento del principio della lex mitior in materia penale facendosi riferimento, appunto, sia alla giurisprudenza costituzionale, sia  alle norme sovranazionali che occorre considerare ai sensi dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. E tra le norme ‘veicolate’ da tale disposizione vengono correttamente menzionate l’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, nonché l’art.  7, primo paragrafo, della Cedu; assumendo, altresì, valore ermeneutico – anche se non strettamente precettivo, non ricadendo la ‘nuova’ disciplina, in tema di perseguibilità a querela, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, par. 1, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

E si può ancora certamente convenire con l’ordinanza in esame laddove si segnala che il principio di non ultrattività delle norme penali più sfavorevoli abbia lo stesso rango e la stessa base costituzionale del canone di retroattività in favor rei in ragione dell’evidente specularità dell’uno principio rispetto all’altro. In ogni caso, il rango costituzionale del principio di retroattività della lex mitior discende, proprio, dal puntuale rispetto dell’art. 3 Cost. (in questo senso, tra le altre, Corte cost.  20 febbraio 2019, n.  63; Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236), che vieta qualsiasi discriminazione irragionevole tra situazioni eguali: con la conseguenza che il principio di retroattività della legge penale più favorevole vincola non solo il giudice, ma anche il legislatore ordinario.

La ratio del principio di eguaglianza  si oppone, infatti, all’applicazione di una sanzione penale  per  un  fatto  che, successivamente, il legislatore non consideri più come punibile per le più diverse ragioni (e, quindi, anche per la carenza o il venir meno di condizioni di procedibilità, proprio per lo “stretto legame che intercorre tra le condizioni di procedibilità e gli istituti che incidono sulla punibilità” (così, autorevolmente e con richiami giurisprudenziali, Codice penale commentato, fondato da Dolcini e Marinucci, Vicenza, 2021, Tomo primo, p. 60).

Risultano, così, senz’altro condivisibili (il ragionamento del Giudice remittente viene definito ‘cristallino’ da G.L. Gatta, op. cit., p. 8) le motivazioni dell’ordinanza nella parte in cui si annovera, tra i valori e i diritti di rango costituzionale, anche quello, in capo all’autore del fatto costituente reato, di “essere giudicato – e se del caso punito – in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione” (Corte Cost., sent. n. 63/2019, 6.1 del ‘considerato in diritto’). Si tratta, appunto, dell’applicazione del principio di non ultrattività delle disposizioni penali più sfavorevoli, quale espressione speculare, nella nostra materia, del principio di retroattività della norma volta all’abrogazione/eliminazione ovvero alla riduzione del trattamento punitivo.

Si può concludere, così, riconoscendo che in effetti, con riguardo ai pochi e già menzionati reati oggetto della riforma in ordine alla loro mera perseguibilità (non più d’ufficio, bensì a querela della persona offesa), “applicare oggi un trattamento penale più severo, rispetto a quello già prefigurato dalla riforma, sarebbe irragionevolmente lesivo di aspettative ben fondate sul principio di legalità” (così Pulitanò, Penale party, L’avvio della nuova legislatura, in Giurisprudenza penale Web, 2022, 11).

Così, il risultato immediatamente conseguito dalla ‘nuova’ e ‘moderna’ politica criminale è quello del blocco di ogni riduzione punitiva con previsione aggiuntiva, oltretutto, di altra fattispecie criminosa (art. 434 bis c.p.: nel pieno rispetto – si fa per dire -della ‘riserva di codice’ di cui all’art. 3 bis!) di cui si avvertiva la forte carenza. Norma incriminatrice ad ampio raggio e, in quanto tale, certamente in linea con l’incremento del diritto penale ‘massimo/totale’ che ulteriormente si fortifica e che diviene sempre più “muscolarecostituendo la prima, se non l’unica, ratio degli interventi normativi” (così Amati, L’enigma penale, Torino, 2020, p.2) seguendo ancor oggi incredibilmente – come già denunciava Francesco Carrara – la “pazza idea che il giure punitivo debba estirpare i delitti della terra”.