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MAI COSÌ TANTI SUICIDI IN CARCERE – DI RICCARDO POLIDORO

MAI COSÌ TANTI SUICIDI IN CARCERE – DI RICCARDO POLIDORO

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MAI COSÌ TANTI SUICIDI IN CARCERE

di Riccardo Polidoro*

Mai così tanti suicidi negli istituti di pena. Un dato in aumento tra l’indifferenza generale e la colpevole inerzia della politica. Le riflessioni di Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. 

  1. Dall’inizio dell’anno, volontà suicida per 1.156 persone detenute

Il suicidio, ovvero uccidere sé stessi, è l’atto finale, consapevole e volontario, di un percorso interiore doloroso e lacerante. Non s’intravedono vie d’uscita alle proprie sofferenze. Il suicidio per una famiglia, per una comunità, rappresenta una sconfitta per non aver intercettato in tempo il malessere crescente che ha portato al gesto estremo. Il senso di colpa travolge, spesso, parenti ed amici e le persone più sensibili che, pur non conoscendo il deceduto, si chiedono se quella tragedia poteva essere evitata. Tale naturale epilogo a seguito del suicidio, non ha mai interessato concretamente l’esecuzione penale e l’amministrazione penitenziaria e, in particolare, la politica che dovrebbe – ritenuta la sua colpa grave per quanto accaduto – intervenire immediatamente per evitare che episodi analoghi si verifichino ancora. Dall’inizio dell’anno, sono 187 i morti negli istituti di pena in Italia, tra questi 78 suicidi. Sono numeri mai raggiunti prima, anche nei periodi più bui della detenzione nel nostro Paese. Ma il dato, spesso sottovalutato, è quello dei tentativi di suicidio che sono stati 1.078, sventati per il pronto intervento del personale della polizia penitenziaria. Al quale va ad aggiungersi quello di migliaia di atti di autolesionismo. La volontà di uccidersi, dunque, da gennaio di quest’anno ad oggi, ha interessato 1.156 persone detenute. Alcune sono state soccorse in tempo. È un numero davvero impressionante, segno di un malessere dell’istituzione carcere che viene da lontano ed al quale non si è voluto porre rimedio. Sono morti dimenticate, che, se ricordate, lo sono solo con riferimento al loro numero in continuo aggiornamento e non alla storia di ciascun individuo che ha preferito togliersi la vita, pur di non vedere aumentare le sofferenze e calpestata la dignità. Eppure queste storie potrebbero insegnarci molto, non solo sull’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario, ma anche sulle ragioni della fragilità dell’individuo, quasi sempre proveniente da contesti difficili non supportati da alcun pubblico sostegno. Vi sono parti del Paese che soffrono di un cronico abbandono da parte dello Stato, che interviene solo al momento della punizione ed è incapace, dopo la condanna, di fare ammenda e di offrire quel percorso di recupero indicato a chiare lettere nella nostra Costituzione. Il suicidio è, pertanto, l’epilogo di un tragico percorso iniziato prima dell’ingresso in carcere. Ingresso che, invece, avrebbe dovuto proteggere la persona finalmente entrata sottotutela diretta dello Stato.

  1. La lunga scia mortale che attraversa l’intero Paese

Nello scorrere la tabella sui suicidi stilata da “Ristretti Orizzonti” – benemerita redazione diretta da Ornella Favero e realizzata da detenuti, detenute e operatori volontari della Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca – si evince che il fenomeno riguarda moltissimi istituti, senza differenza tra Nord e Sud e che coinvolge persone di tutte le età. Quest’anno il primo suicidio si è avuto a Vibo Valentia, il 2 gennaio. A metterlo in atto un uomo di 45 anni. Di seguito a Foggia (35 anni),  Brindisi (22 anni), Piacenza (26 anni), Monza (46 anni), Milano Opera (26 anni, Genova Marassi (33 anni), Palermo Ucciardone (25 anni), Monza (33 anni), Messina (29 anni), Roma Regina Coeli (24 anni), Roma Regina Coeli (44 anni), Terni (54 anni), Sondrio (34 anni), Roma Regina Coeli (39 anni), Castrovillari Cs (35 anni), Ravenna (58 anni), Palermo Ucciardone (30 anni), Catania Piazza Lanza (45 anni), Barcellona Pozzo di Gotto (36 anni), Foggia (36 anni), Taranto (48 anni), Ascoli (21 anni), Foggia (62 anni), Bolzano (23 anni), Milano San Vittore (27 anni), S. Maria Capua Vetere (47 anni),  Milano San Vittore (21 anni), Pavia (40 anni), Reggio Emilia (36 anni), Bari (30 anni), Como (32 anni), Roma Regina Coeli (27 anni), Genova Marassi (70 anni), Firenze Sollicciano (46 anni), Milano San Vittore (40 anni), Pavia (33 anni), Torino (38 anni), Milano Bollate (68 anni), Padova Reclusione (36 anni), Roma Rebibbia (36 anni), Brescia (47 anni), Verona (27 anni), Ascoli Piceno (36 anni), Frosinone (26 anni), Arienzo (50 anni), Napoli Poggiorerale (43 anni), Napoli Secondigliano (33 anni), Rimini (37 anni), Monza (24 anni), Torino (24 anni), Piacenza (52 anni), Foggia (30 anni), Terni (49 anni), Caltagirone (44 anni), Siracusa (34 anni), Perugia (34 anni), Bologna (52 anni), Milano San Vittore (49 anni), Palermo Pagliarelli (29 anni), Forlì (28 anni), Verona (71 anni), Palermo Ucciardone (36 anni), Crotone (39 anni), Firenze Sollicciano (26 anni), Brescia Versiano (51anni), Oristano (45 anni), Firenze Sollicciano (29 anni), Lecce (32 anni), Saluzzo Cuneo (64 anni), Torino (36 anni), Termini Imerese (45 anni), Busto Arsizio (30 anni), Udine (22 anni), Reggio Calabria (22 anni), Torino (56 anni), Lecce (40 anni), Avellino (41 anni). Leggere e rileggere quest’elenco ci fa comprendere come dietro i numeri ci sono persone, spesso giovanissime, delle quali lo Stato non ha saputo (voluto) intercettare il malessere. Si giunge al suicidio dopo un lungo travaglio interiore, che difficilmente può essere celato all’esterno. Non fermare in tempo il drammatico cammino verso il precipizio è indice di un’evidente carenza di vigilanza e soprattutto di un’assoluta assenza di prevenzione. Se è vero, infatti, che molti suicidi sono stati impediti dal pronto intervento della Polizia Penitenziaria, è altrettanto vero che tali salvataggi in extremis sembrano dettati più dal caso e dall’abnegazione degli agenti, che da un vero e proprio programma di protezione.

  1. Il ruolo indifferente o impotente dell’Amministrazione Penitenziaria

Il numero di decessi e di suicidi è stato sempre elevato anche negli anni passati, pur non raggiungendo quello drammatico dell’anno in corso, non ancora terminato. Nel 2021 vi sono stati 149 morti e tra questi 58 suicidi; nel 2020, 154 morti e tra questi 61 suicidi; nel 2019, 143 morti e tra questi 53 suicidi. Dinanzi ad un numero così alto di decessi, diverso è stato l’atteggiamento dell’Amministrazione Penitenziaria, a seconda di chi rivestiva il ruolo di Capo del Dipartimento. Si è giunti perfino a negare il problema, come si è negato il palese sovraffollamento. L’attuale vertice del DAP si è, invece, fatto carico di quanto sta accadendo ed ha emanato, lo scorso 8 agosto, una circolare su “Iniziative per un intervento continuo in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Un libro delle buone intenzioni che, nella maggior parte dei casi, non può trovare alcuna applicazione pratica. La circolare, indirizzata ai Provveditori Regionali e ai Direttori, parte dalla premessa che è necessario rafforzare le iniziative già attuate visto l’aumento dei decessi per suicidio. Si prevede un percorso nazionale d’intervento continuo, con il coinvolgimento del Dipartimento, dei Provveditorati e degli Istituti Penitenziari, tutti coinvolti in una prospettiva di rete mirata alla prevenzione dei suicidi. La circolare fa riferimento ai c.d. “eventi sentinella”, cioè a quei comportamenti che indicano il malessere dell’individuo, che dovrebbero essere colti in tempo utile per una corretta attività preventiva. Ad intercettare tali eventi dovrebbe essere lo staff multidisciplinare composto dalle varie professionalità e competenze presenti negli istituti. Un esercizio teorico che trova, solo in rari casi, possibilità di applicazioni pratiche. La maggior parte degli istituti di pena soffre, da un lato di enormi carenze di risorse umane e dall’altro di un sovraffollamento che non consentono l’effettiva applicazione della circolare. Va dato atto alla dirigenza del Dipartimento di aver fatto il possibile, per quanto di loro competenza, per arginare il fenomeno dei suicidi, ma le armi in loro possesso sono del tutto inefficaci, senza l’effettivo sostegno della politica.

  1. Dall’illusione della Riforma, alle sorprendenti dichiarazioni di questi giorni

Ad una condanna scontata, nella maggior parte dei casi, in violazione di legge, negli ultimi anni si è aggiunta l’illusione che qualcosa potesse davvero cambiare. I detenuti hanno sentito parlare di un’imminente Riforma dell’Ordinamento Penitenziario dovuta alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che aveva, nel gennaio 2013, condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti e per l’assenza di un meccanismo di tutela giurisdizionale per la violazione dei diritti del recluso. L’emergenza nazionale della detenzione aveva oltrepassato i confini e l’Europa chiedeva urgenti rimedi. Ma nulla è davvero mutato. Stati Generali dell’Esecuzione Penale, legge Delega del Parlamento al Governo, numerose Commissioni Ministeriali, hanno solo rappresentato un imponente esercizio teorico, per una Riforma che non si voleva fare. Una volontà trasversale che ha coinvolto tutti i partiti, incuranti dell’ennesima stilettata inflitta al sistema penitenziario. Illusi e traditi, oggi ai detenuti restano poche speranze che il loro status possa prevedere il rispetto dei principi costituzionali. Le recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro della Giustizia non lasciano spazio ad alcuna aspettativa. Nel suo discorso alla Camera, Giorgia Meloni, nel fare riferimento al drammatico dato dei suicidi in carcere, ha affermato che è un dato indegno per una nazione civile, come indegne sono le condizioni di lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria. Non una parola su misure alternative e sulla dignità dei detenuti che quotidianamente vedono calpestati i loro diritti. Ha poi rilanciato il c.d. “piano carceri”, cioè la costruzione di nuovi istituti di pena. Una minestra riscaldata che si ripropone ogni tanto, ma che, come è facilmente comprensibile, non è idonea a risolvere alcun problema. E seppure fosse la strada giusta da seguire – e non lo è – quanto tempo ci vorrebbe per portare a termine il progetto? Bando di gara europeo, progettazione ed esecuzione, minimo quattro anni. Una volta ottenuto il manufatto, lo stesso va riempito con personale idoneo: dirigenti, impiegati, polizia penitenziaria, educatori, psicologi. Tutte figure, oggi, carenti, perché i vuoti di organico riguardano tutti gli istituti esistenti. Moltissimo tempo, dunque, ed enormi risorse economiche. La scelta sarebbe fallimentare perché aprire nuovi spazi detentivi è un rimedio peggiore del male. L’istituzione carcere va circoscritta in un ambito minore e deve rappresentare la soluzione solo in quei casi in cui altre scelte non sarebbero possibili, per palesi e comprovate ragioni di sicurezza. Da un sistema carcerocentrico è necessario giungere ad un diritto penale che veda ridotte le fattispecie di sua competenza e ad un’esecuzione che sfrutti al massimo pene alternative, effettivamente votate al recupero sociale del condannato. Alle allarmanti parole del Presidente del Consiglio, nei giorni scorsi si sono aggiunte quelle del neoMinistro della Giustizia, in visita – come da protocollo per ogni nuovo Ministro – alla Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale Affermazioni che lasciano intendere che non vi è preoccupazione nel mondo politico per la quantità di persone che stanno morendo nelle carceri italiane. La visita si è concretizzata in un film già visto e rivisto. Va, però, evidenziato che la pellicola non era drammatica come le altre, ma di fantascienza. Il protagonista ha, all’esito dell’ispezione, dichiarato che il carcere napoletano dovrebbe essere un modello da seguire in altri istituti. Mai nessuno era giunto a tanto. L’inferno diventato paradiso. Chissà cosa ne pensano i detenuti, i loro familiari e tutti coloro – dirigenti, polizia penitenziaria, i pochi educatori e assistenti sociali – che con enormi sacrifici, vivono le fiamme di un disagio perenne da cui sanno che difficilmente potranno uscire. Ed oggi quelle minime speranze sono del tutto perse. Le parole di Nordio sono la definitiva condanna per un sistema penitenziario ed, invero, per l’esecuzione penale tutta, ad avere una vita automa fuori dai principi costituzionali ed in costante violazione di legge. Quanto tutto questo fa male al nostro Paese non è chiaro all’opinione pubblica, che grazie ad un’informazione silente in materia e ad una politica che pensa solo all’immediato consenso elettorale, resta convinta che “buttare la chiave” sia la soluzione migliore. Ma quella chiave un giorno verrà presa e le porte si apriranno. Chi ne uscirà? Una persona migliore o incattivita per l’assoluto abbandono in cui ha vissuto la sua detenzione?

Nel profondo e progressivo buio che sta avvolgendo l’esecuzione penale, resta un unico squarcio di luce. Sono le parole del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi che, mentre Giorgia Meloni teneva il suo discorso alla Camera, ha ribadito, ancora una volta, intervenendo al Salone della Giustizia, che “in tutti i sistemi penitenziari esiste un catalogo di sanzioni che va ben oltre il carcere e che anzi vede, in misura maggiore, il ricorso a misure meno costose, in termini economici e sociali, rispetto al carcere. Dunque se anche il problema della pena si affrontasse prevalentemente costruendo nuove carceri, ciò non significherebbe abbandonare la prospettiva delle misure alternative come strumento essenziale. Inoltre, se di nuove carceri bisogna parlare – e a mio avviso è anche giusto farlo – lo si deve fare, intanto, per chiudere quelle vecchie ed impresentabili, per costruirne di nuove, maggiormente idonee a realizzare, attraverso il trattamento, l’obiettivo del recupero”. Parole in linea con la nostra Costituzione e con quanto da circa 20 anni ci chiede l’Europa. Ma i partiti, nessuno escluso, non sono interessati a ristabilire la legalità. Il pensiero politico è a breve termine, perché quello che davvero interessa è l’immediato consenso popolare anche se a discapito dell’interesse del Paese.

  1. Cosa va fatto

L’Unione Camere Penali Italiane, da sempre attenta alle problematiche relative all’Esecuzione Penale, dopo aver partecipato con i suoi iscritti agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e alle successive Commissioni Ministeriali, ha in più occasioni ribadito che occorre immediatamente attuare la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, già scritta e frutto del lavoro della Commissione presieduta dal Prof. Glauco Giostra. Nonostante l’interlocutore politico sia cieco e sordo, ha, il 12 agosto scorso, incontrato i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria proponendo – per fare fronte agli innumerevoli suicidi – l’istituzione di un Tavolo Nazionale e di Tavoli Regionali, composti dai rappresentanti delle figure professionali che direttamente sono coinvolti nell’Esecuzione Penale. Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, Magistrati, Avvocati, Garanti per consentire una rapida consultazione e confronto, oggi del tutto assente.

Gli innumerevoli suicidi sono il segnale di un malessere che si sta aggravando ed occorre intervenire subito. Ma l’inerzia ed il silenzio continuano ad essere predominanti sull’urgente necessità di porre fine a queste morti annunciate e per le quali lo Stato non può dichiararsi estraneo.

*Avvocato, co-responsabile dell’Osservatorio Carcere UCPI