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RAGIONI DI GIUSTIZIA VS. DIVIETO DI  ANALOGIA IN MALAM PARTEM. IL RICHIAMO ALL’ORDINE DEL GIUDICE COSTITUZIONALE – DI ROBERTO RAMPIONI

RAGIONI DI GIUSTIZIA VS. DIVIETO DI ANALOGIA IN MALAM PARTEM. IL RICHIAMO ALL’ORDINE DEL GIUDICE COSTITUZIONALE – DI ROBERTO RAMPIONI

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RAGIONI DI GIUSTIZIA VS. DIVIETO DI ANALOGIA IN MALAM PARTEMIL RICHIAMO ALL’ORDINE DEL GIUDICE COSTITUZIONALE.

di Roberto Rampioni*

Una approfondita riflessione sul rischio dell’assunzione di un ruolo creativo da parte del giudice, che farebbe svanire la garanzia soggettiva della piena conoscibilità del precetto, laddove appunto venisse acconsentito al giudice di assegnare alla formula normativa un significato distinto ed ulteriore rispetto a quello che il cittadino può raffigurarsi leggendo. Anche di recente la magistratura ha avvertito l’esigenza di «regole interpretative [per il cd. diritto giurisprudenziale] quanto più possibile condivise e intellegibili, per scongiurare rischi di autoreferenzialità ed imprevedibilità che potrebbero minarne la legittimazione sociale ma soprattutto per collegare chiaramente e sempre di più i suoi obiettivi all’attuazione delle linee costituzionali». Assunto “fumoso” che pretende di mascherare, sotto l’ala della “interpretazione conforme” a Costituzione e della “deontologia ermeneutica”, l’attribuzione al giudice delle scelte di politica criminale, il riconoscimento di un potere politico “funzionale all’obiettivo ultimo di “costruire il diritto”, seguendo i casi concreti che descrivono l’essenza della norma penale, strutturalmente “aperta” ai mutamenti sociali.

1. Devoluta alla Corte costituzionale una questione processuale che presuppone risolto un tema sostanziale. 2. Rilevanza ed inusualità del tema proposto per la “non giustiziabilità” del divieto di analogia in malam partem. Lo scarso interesse della dottrina penalistica ed il forte “richiamo” rivolto dal giudice delle leggi al giudice comune. 3. Per la Corte costituzionale «il significato letterale del testo della legge» individua il limite estremo della legittima interpretazione. 4. La “frammentarietà” quale carattere fondamentale del diritto penale. 5. Il rovesciamento dei postulati tradizionali e la tendenza ad un diritto penale “onnicomprensivo”. La cd. concretizzazione giudiziale e la giustizia del caso singolo. 6. Il passaggio dallo “Stato delle leggi” allo “Stato dei giudici”. La posizione critica di Donini e di Marinucci. 7. L’uso distorto della interpretazione conforme a Costituzione e la cd. interpretazione “tassativizzante”. Dal “tipo criminoso legale” al “tipo criminoso giurisprudenziale”. 8. Riserva di legge e soggezione del giudice alla legge quali principi supremi dell’ordinamento posti a tutela dei diritti inviolabili dell’individuo. 9. Conclusioni.

  1. Devoluta alla Corte costituzionale una questione processuale che presuppone risolto un tema sostanziale.

Il giudice rimettente avanza una questione processuale il cui “presupposto logico” – osserva la Corte costituzionale – è costituito dalla verifica circa la praticabilità della riqualificazione del fatto storico in contestazione da atti persecutori aggravati in maltrattamenti in famiglia.

            Il “ritenuto in fatto” della sentenza emessa dal Giudice delle leggi illustra in termini chiari gli aspetti sostanziali della vicenda giudiziaria che hanno portato il Tribunale a sollevare la eccezione di natura processuale.

            Il giudice ordinario, muovendo da un non univoco indirizzo giurisprudenziale, esprime il proposito di assicurare una più intensa tutela penale a persone vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali hanno difficoltà a sottrarsi. Ed in tal senso giunge a ritenere che un rapporto affettivo, dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, possa essere considerato, in linea col linguaggio comune, coll’ordinario significato del termine, quale vera e propria forma di “convivenza”. Sulla scorta di un’interpretazione (asseritamente) “teleologica” del dato normativo, in definitiva, si perviene alla conclusione che il fatto storico considerato possa essere inquadrato nello schema legale del più grave delitto di maltrattamenti, non già di quello di atti persecutori, ritenendosi appunto siffatta interpretazione compatibile con i significati letterali dei requisiti costitutivi tipici del reato: “persona della famiglia” e/o “persona comunque convivente”.

            Come è facile intuire, è solo grazie alla proposizione della questione (di legittimità costituzionale) di stampo processuale che la (ennesima) “lettura” in malam partem, in quanto estensiva dell’area di applicazione della norma incriminatrice dalle conseguenze sanzionatorie più gravi, ha incontrato un insuperabile ostacolo.

  1. Rilevanza ed inusualità del tema proposto per la “non giustiziabilità” del divieto di analogia in malam partem. Lo scarso interesse della dottrina penalistica ed il forte “richiamo” rivolto dal giudice delle leggi al giudice comune.

La dottrina non ha prestato particolare attenzione alla pronuncia. Nonostante la rilevanza e l’inusualità del tema per la “non giustiziabilità” del divieto di analogia in malam partem: rari per quanto autorevoli gli interventi[1]. Si direbbe più attenta, sorprendentemente, la dottrina amministrativistica[2].

            Silenti, in particolare, i tanti fautori della cd. “norma giurisprudenziale”, salvo la laconica citazione del comunicato-stampa pubblicato sul sito della Corte costituzionale ovvero il richiamo alle formule ormai stereotipate: – della “crisi della legalità” e della “mitologia legalista dell’illuminismo giuridico”; – delle “ragioni-esigenze di giustizia sostanziale” nel quadro della teorica del “tipo criminoso”; – del “canone teleologico” suscettivo di spingersi oltre gli “stilemi convenzionali” ed oltre la “prospettiva culturale” nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità. Fino ad arrivare a paventare – per la preferenza (che sarebbe stata erroneamente) accordata al “postulato assiologico” del favor libertatis a confronto del “paradigma vittimario” della attuale fase storica – un “ritorno all’antico” per la riaffermazione quale limite invalicabile in sede di interpretazione (teleologica, fosse anche costituzionalmente orientata) il “significato letterale” del testo legale.

            Non si è lontani dal vero se si afferma che buona parte dei cultori delle discipline penalistiche, in realtà, ha inteso smarcarsi da una pronuncia che individua un forte richiamo (forse meglio, un chiaro rappel à l’ordre) rivolto al giudice comune, richiamo che – come è stato ben detto – “qualche tempo fa non sarebbe stato facilmente immaginabile”[3].

  1. Per la Corte costituzionale «il significato letterale del testo della legge» individua il limite estremo della legittima interpretazione.

La Corte costituzionale, per vero, nell’affrontare il presupposto logico-sostanziale della questione processuale proposta – la corretta qualificazione giuridica del fatto storico accertato – contesta al giudice remittente l’omesso confronto col canone ermeneutico del divieto di analogia in materia penale ed afferma in modo reciso: “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della leggenon già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicchè non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”.

            Soggiunge il Giudice delle leggi che “ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice»

            E si rileva criticamente che “il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988)”.[4]

            Per altro verso – si puntualizza – “il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004). Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.

            I corsivi, inseriti (da chi scrive) nel testo delle citazioni, enfatizzano, se mai necessario, l’inequivoca e non discorsivamente mediabile posizione assunta dalla Corte. Posizione, piuttosto che non immaginabile, forse paventata ed idealmente respinta, in quanto pienamente consequenziale alla “posizione ufficiale” assunta dalla Corte costituzionale, colle diverse pronunce richiamate in motivazione, in tema di riserva di legge e di principio di legalità.

            E posizione, peraltro, già espressa – ovviamente, in tale occasione, a titolo personale – dal relatore della pronuncia in esame che nell’affrontare «il problematico rapporto tra la primazia della legge ed il ruolo (nei fatti) creativo del diritto svolto dalla giurisprudenza», pur riconosciuto che l’interpretazione della norma non consiste in una “operazione meramente ricognitiva” di significati pre-dati nella norma, muove dal rilievo di fondo che «l’attività dell’interprete incontra un limite nel testo (con conseguente necessità di riconoscere tale limite nell’atto stesso dell’interpretazione)».[5]

  1. La “frammentarietà” quale carattere fondamentale del diritto penale.

Anche chi individua la “crisi” della “legalità legalistica” nel mutato rapporto tra legge e giudice ed in tal senso afferma che il formante giurisprudenziale oggi insidia la prevalenza del formante legislativo, non può non riconoscere la “specificità” del diritto penale, branca dell’ordinamento pervasa da una insopprimibile “istanza di garanzia”: «il diritto penale, a differenza di ogni altro ramo del diritto … non forgia strumenti giuridici per la realizzazione degli interessi degli uomini, ma impone limiti coercitivi, con la violenza, alla realizzazione degli interessi individuali. Il volto del diritto penale è sempre necessariamente ostile al soggetto»[6].

            Ed in effetti se ci si interroga sul “modello” di giustizia penale cui si ispira, anche nell’attuale momento storico, il “sistema” italiano, il discorso deve, sempre e comunque, muovere dalla delineazione dei rapporti fra Stato, legge e cittadino. In ragione della nostra struttura ordinamentale[7], come fondatamente si osserva, è la legge “lo strumento di mediazione tra lo Stato e il cittadino”; di qua “la concezione della legalità come salvaguardia della libertà ma anche della autorità”. Ed è un “dato acquisito” che simile concezione postuli la separazione dei poteri e, in particolare, la scissione del momento giurisdizionale da quello legislativo come dall’esercizio immediato del potere legale[8].

            La legge penale, d’altro canto, fissa obblighi di comportamento ed il “criterio di selezione” dei fatti penalmente rilevanti poggia sull’offesa ad interessi ritenuti meritevoli di protezione. Il termine “reato” esprime, appunto, la relazione che si instaura tra lo schema legale ed il comportamento antisociale ad esso schema conforme.

            È peraltro, un dato noto che simile criterio di selezione presenta carattere storico: il diritto penale non dice la sua – né lo potrebbe – sulla lotta tra il bene ed il male in termini assoluti; deve, invece, laicamente tracciare la linea di confine tra bene sociale e male sociale. Di qua, l’altrettanto noto carattere di autonomia del diritto penale, la sua natura secolare rispetto alle regole morali o religiose; e, dunque, la sua funzione nient’affatto sanzionatoria di precetti già prima esistenti. Il valore autonomo della legalità è stato possibile apprezzarlo, da un canto, con la storicizzazione del diritto, che ha consentito di vedere nella legge la “misura dell’uguaglianza”; dall’altro, con la relativizzazione del diritto, che ha dato un taglio netto colla trascendenza: “il diritto storicizzato è un diritto laico che si fonda soltanto sulla legge”[9].

            Diversamente, non è inutile ribadire che quel “criterio di selezione” dei fatti penalmente rilevanti comporta il contenimento del ricorso alle leggi penali solo a fini di tutela di beni giudici fondamentali; del resto, lo stesso processo di costituzionalizzazione del diritto penale impone “l’obiettivo di generalizzare il consenso sociale su beni giuridici essenziali di rilevanza costituzionale”. Solo, dunque, per i fatti gravi in termini di danno sociale trova giustificazione la minaccia di una sanzione penale (da intendersi quale extrema ratio), nel che il diritto penale manifesta il proprio “carattere fondamentale”: la frammentarietà.

            Ciò che, invece, in questi ultimi tempi è non solo utile, ma necessario ribadire è che simile carattere presenta un profilo contenutistico ulteriore che va puntualizzato: non ogni comportamento offensivo di un interesse ritenuto meritevole di protezione costituisce illecito penale, ma solo quello che si realizza nei termini e nei modi della previsione legislativa del fatto ovvero soltanto quello che risulta tipico rispetto al modello legale.

  1. Il rovesciamento dei postulati tradizionali e la tendenza ad un diritto penale “onnicomprensivo”. La cd. concretizzazione giudiziale e la giustizia del caso singolo.

Dunque, è la legge che, mediando tra cittadino e Stato, fissa gli obblighi di comportamento; ed il criterio selettivo per l’individuazione dei fatti-reato, nell’ottica di un intervento penalistico inteso quale extrema ratio, va ravvisato nella rilevante dannosità sociale della condotta (in quanto offensiva di beni giuridici essenziali), condotta che solo col presentare determinate “note modali” all’interno di uno “schema definito” risulta conforme al modello legale e, pertanto, tipica.

Il giudice, sorta di terzo garante di quel rapporto tra Stato e cittadino, deve informare il proprio intervento al rispetto dei caratteri di laicità e di frammentarietà della legge penale. Oggi, invece, si assiste ad una rivitalizzazione dell’idea della “forza moralizzatrice del diritto penale” ed in tale ottica il diritto penale «non ambisce più ad essere frammentario», ma vive «una mutazione che lo porta ad essere un diritto penale espansivo».[10]

Come viene esattamente osservato, “la sensazione che emerge dalla recente esperienza è che l’obiettivo primario da più parti riconosciuto al diritto penale sia quello della “lotta contro la criminalità”, secondo selezioni valoriali operate (anche) dal giudice e per lo più ispirate al telos della completezza della tutela. La frammentarietà del diritto penale è allora, incredibilmente, vissuta nella prassi addirittura come un intralcio alla giustizia”.[11]

L’attuale ipertrofia del diritto penale comporta, in realtà, la cd. “libertà frammentaria”: con drastico rovesciamento dei postulati tradizionali il diritto penale tende alla onnicomprensività, così che la frammentarietà assurge a carattere della libertà.

            Oggi – rileva Tullio Padovani – tramontato anche il postulato della legge quale unica fonte del diritto penale, la libertà si appalesa, per giunta, “precaria”: «precetti senza legge affollano l’ordinamento distribuendo l’intervento punitivo a vari livelli e ribaltando l’antica gerarchia delle fonti … la quantità si traduce in qualità: la libertà è divenuta precaria nel momento in cui tramonta l’identificazione tra diritto penale e legge»[12].

            Il giudizio di tipicità finisce per risultare svuotato sul piano funzionale, da un lato, per il sempre più significativo ruolo rivestito nella dinamica penale dalle cd. fonti sociali dell’intervento punitivo (le ragioni di giustizia, le aspettative della vittima: il cd. reato percepito)[13]; dall’altro, per la (non minore) capacità espansiva che, appunto, assume tale giudizio allorquando il potere di qualificare illecito un determinato comportamento umano risieda nel pensiero dominante nella società (il cd. sentimentalismo sociale) o, peggio, come nel caso in esame, nella personale opinione del giudice-interprete.[14]

            Per giunta, come si osserva criticamente, «si tratta di una definizione di illiceità a posteriori, post factum … di tipicità postuma … l’agente saprà soltanto successivamente al fatto se il proprio comportamento è da qualificarsi come illecito».[15]

            Come viene puntualmente sottolineato, «non minori virtualità espansive assume la “tipicità postuma”, caratterizzata dall’applicazione retrospettiva di norme incriminatrici non pensate, né volute, né suscettibili di riferimento a questo o a quel fenomeno contingente; se esso intercetta l’orbita di una fonte sociale di costruzione e definizione di precetti penali, la norma incriminatrice acquista novello vigore in una dimensione che le era originariamente estranea»[16].

Il “superamento” del principio di riserva di legge nell’area più sensibile e delicata dell’ordinamento giuridico – quale il diritto penale – si evidenzia oggi nel sempre più frequente ricorso a fattispecie aperte, formulate per clausole generali, carenti o “impoverite”[17] (l’eliminazione dell’”atto” dallo schema della vecchia corruzione) come “slabbrate” (la norma giurisprudenziale del disastro ambientale innominato) sotto il profilo descrittivo e rimesse a quella forma di eterointegrazione individuata dalla cd. concretizzazione giudiziale fondata, appunto, su giudizi di valore dell’interprete, suscettivi di arricchire il dato normativo in quanto ritenuto incompleto.

            Non va dimenticato che il modello di una fattispecie incriminatrice chiara, precisa, determinata e tassativa proviene da grandi premesse ideali, legate agli stessi principi ispiratori dello Stato di diritto. Attualmente, l’ottica miope della (pseudo) efficienza immediata impone formule flessibili anche (e soprattutto) a fini di semplificazione processuale: oggi, come si è inteso affermare, “sembra esservi un bisogno di vaghezza, se non di ambiguità”; il falso scopo della “giustizia del caso singolo” corrobora le istanze   di deformalizzazione del diritto penale,  sempre   più    proteso -peraltro- alla tutela di interessi cd. diffusi. Ed il venir meno di una reale frammentarietà della previsione normativa -per la sua formulazione ad ampio spettro- apre la strada a varie forme di eterointegrazione, sfumando i pur netti contorni degli ambiti propri di interpretazione e di creazione della norma18.

  1. Il passaggio dallo “Stato delle leggi” allo “Stato dei giudici”. La posizione critica di Donini e di Marinucci.

Il passaggio dallo “Stato delle leggi” allo “Stato dei giudici”     -come esattamente rilevato- presenta cause diverse; tuttavia, oltre all’ormai datato (mal-) costume parlamentare di trasferire sul giudice il peso delle scelte di politica criminale, un ruolo fondamentale è svolto da cause di ordine culturale, per le quali parte della dottrina italiana, lungi dal tener conto della significativa esperienza anglosassone, resta una volta di più legata a quella tedesca che, muovendo (per le note e gravi ragioni storiche) dall’idea della superiorità del “diritto dei giuristi” rispetto al “diritto della legge”, ritiene che non sia la legge, bensì la legge ed il potere giudiziario a fornire al popolo il diritto19.

            La concezione della legalità -regolatrice, in termini di libertà e di autorità, del rapporto tra cittadino e Stato- presuppone, all’opposto, una tecnica di tutela fondata su “tipi” criminosi rigorosamente delineati; ed in tal senso si deve tenere per fermo che lo stesso criterio, di carattere sostanziale, del danno sociale non può far riferimento «ad una dimensione teleologica di ben più vasta portata ed estensione rispetto alle valutazioni “intranee” al bene giuridico racchiuse nella fattispecie», pena applicazioni “allargate” di essa. L’offesa penale è costituita dalle “conseguenze dannose o pericolose del reato”, da intendersi -per riprendere la formula di Donini- non nel senso di «reato + conseguenze dannose o pericolose “aggiuntive”, ma di condotta tipica + conseguenze dannose o pericolose tipiche = reato»20.

            Peraltro, su di un piano di carattere formale, va tenuto a mente quella sorta di richiamo all’ordine (rectius, alle origini) operato da Klaus Tiedemann nell’estendere le funzioni del Tatbestand (e fra di esse, soprattutto, quella di garanzia, anche) al diritto penale complementare. L’autorevole dottrina non solo rileva che le “clausole generali” tendenzialmente contraddicono il principio di determinatezza21, ma afferma in modo netto che «lacune (nel senso di assenza di regolamentazione legislativa) non sono presenti nelle fattispecie penali», dal momento che «ciò che nel processo potrebbe apparire soggettivamente come lacuna di punibilità, è in verità uno spazio libero dal diritto penale»22. “Visione rassicurante” -osserva correttamente Marinucci- che buona parte della letteratura penalistica contemporanea revoca in dubbio, assegnando al giudice un ruolo pari a quello del legislatore nella produzione normativa, venendo così a “disintegrare” il nullum crimen, nulla poena sine lege23.

            Come acutamente ha da tempo osservato Giorgio Marinucci, la teoria dell’interpretazione avrebbe “dimostrato” “«’inesistenza di lacune da colmare con l’aiuto dell’analogia, essendo l’interpretazione del giudice necessariamente analogica e creativa. Sarebbe, quindi, da relegare tra i miti del passato l’idea che il “possibile significato letterale della legge” segni la linea di confine tra interpretazione della norma penale (consentita) e applicazione analogica (vietata). Muovendosi sul solo terreno della “logica del diritto” e dell’”interpretazione della norma penale”, fatalmente questa tendenza dottrinale vive solo nello jheringhiano cielo dei concetti. Ed è conseguente che ignori l’invito “alla fedeltà alla legge”, e, soprattutto, che faccia astrazione dalla storia sia dell’origine del divieto di analogia, e del suo permanere nella gran parte degli ordinamenti, sia della sua (reclamata e/o attuata) abolizione. I fautori della nouvelle vague, se improvvisamente venissero a conoscenza della lunga lotta per o contro il divieto di analogia, rimarrebbero stupefatti. La riterrebbero insensata, un falso problema che ha ottenebrato le menti di tanti legislatori, preda di tanti studiosi …»24.

  1. L’uso distorto della interpretazione conforme a Costituzione e la cd. interpretazione “tassativizzante”. Dal “tipo criminoso legale” al “tipo criminoso giurisprudenziale”.

In argomento non può non farsi sintetico riferimento a quello strumento privilegiato di composizione (ma anche di prevenzione) delle (sempre possibili) antinomie con i principi costituzionali costituito dalla cd. “interpretazione conforme”, strumento al contempo di non infrequente “riconversione” in chiave costituzionale di numerose fattispecie incriminatrici25.

«L’esperienza della interpretazione conforme – unitamente alle nuove tecniche ermeneutiche sviluppate dalla Corte costituzionale – ha avuto, in certa misura, l’effetto di trasformare questioni di costituzionalità in questioni di interpretazione, secondo un modello che è stato definito di sindacato non “diffuso”, ma “collaborativo” tra giudice comune e giudice delle leggi, che del resto trova proprio nel “diritto vivente” il suo giunto cardanico»26. Principi quali quelli di offensività e di colpevolezza sono stati espressamente riconosciuti come “canoni” rivolti anzitutto al giudice, invitato «ad adottare moduli interpretativi che, in nome della coerenza costituzionale, si allontanassero da schemi esegetico-strutturali»27.

In tal senso, sono stati avvertiti “eccessi” in punto di libertà ermeneutica del giudice comune proprio in sede di “interpretazione adeguatrice”.

Con il declino delle tradizionali teorie “cognitive” – per le quali l’interpretazione costituirebbe un semplice atto di “scoperta” o di “conoscenza” di un significato oggettivo preesistente, incorporato nel testo normativo – l’approccio vincente viene, appunto, ad essere quello delle teorie “scettiche”, “antiformalistiche” secondo cui la norma non preesiste alla interpretazione, è il prodotto, in certa misura libero, dell’applicazione della disposizione al caso concreto. Qui, l’interpretazione conforme tende a trasformarsi in attività di creazione di norme ed attecchisce la tendenza ad interpretazioni “libere” «nella ricerca di un obiettivo assiologicamente percepito come superiore»28.

«La volontà della Corte di evitare un uso distorto dell’incidente di costituzionalità, preservandone la residualità rispetto all’adeguamento interpretativo», ha così finito «per lasciare campo libero…ad un uso distorto dell’interpretazione conforme, che esaspera quella residualità»29. L’interpretazione conforme ha fatto rotta verso forme di normazione mascherata o di disapplicazione occulta dell’enunciato legislativo e si è, pertanto, posta come fattore di crisi della legalità penale; come notorio, infatti, questo settore dell’ordinamento nella riserva di legge stretta, nei principi di precisione-determinatezza e di tassatività trova il proprio canone fondante.

L’espansione del cd. diritto giurisprudenziale – che finisce per minare la stessa legittimazione democratica delle scelte di criminalizzazione – rinviene, peraltro, nella interpretazione “tassativizzante” la sua massima espressione; forma di interpretazione che pretende di poter ritenere rispettosi del principio di chiarezza-precisione illeciti penali (ma non solo) del tutto “vaghi” nella loro formulazione, allorquando il “lavorio” ermeneutico operato sul testo presenti un “fondamento controllabile” e possa considerarsi “ragionevole”.

Ritiene Massimo Vogliotti che per recuperare la categoria premoderna dell’”indisponibile” non è sufficiente una legalità superiore, che si limiti ad aggiungere un gradino alla moderna piramide delle fonti, vincolando la legge ordinaria alla legge costituzionale; si impone una legalità differente. È un «grave errore sul piano storico considerare l’attuale Stato costituzionale come un mero perfezionamento dello Stato di diritto della tradizione e non invece come “una nuova forma politica”, “un vero e proprio nuovo assetto dei poteri” in cui il legislatore “non è più solo”, e dunque in posizione di monopolio, di fronte alla Costituzione. Accanto a lui si pone in posizione ormai sostanzialmente equiordinata il giudice, che è ben altra figura rispetto a quanto voleva il modello della tradizione»30. E per questa via, forte del consenso della cultura giuridica fondato su evidenti ragioni etico-politiche, la Corte costituzionale – si afferma –ristabilisce il salvifico dualismo tra ius e lex, tra ratio e voluntas.

            Ora, appunto, si osserva sullo specifico versante penalistico, «questo orientamento giurisprudenziale induce una parte della magistratura ad utilizzare lo strumento del processo e del diritto penale per tutelare determinati beni giuridici – costituzionalmente rilevanti, ma non ancora presidiati a livello legislativo – facendo leva su fattispecie incriminatrici concepite per proteggerne altri. Formalmente riconducibili al testo degli enunciati normativi (sottoposti, in certi casi, ad ardite spremiture lessicali, quando non a vere e proprie forzature), queste strategie interpretative – adottate anche in seguito e da giudici di diverse matrici culturali – più che violare la forma dell’incriminazione (la littera legis) – di cui si ha anzi cura di mostrare, in motivazione, il rispetto – ne alterano la sostanza, generando tipi criminosi non (ancora) previsti dalla legge e assistiti da corredi sanzionatori normalmente inadeguati perché tagliati sulla misura di altri tipi»31.

            Nella prospettiva ermeneutica, prosegue l’Autore, «non si conosce propriamente il senso di un enunciato normativo, secondo il metodo veritativo, descrittivo e oggettivante delle scienze teoretiche, ma lo si progetta, muovendo dalla pre-comprensione del caso e in vista di una sua soluzione ragionevole e giusta, tale, cioè da essere ritenuta adeguata alle peculiarità del fatto e conforme alla tavola costituzionale dei valori, dai “partners ragionevoli” della comunità interpretativa cui si rivolge il giudice».

            Muta, così, la natura della legalità: non più descrittiva e veritativa, ma teleologica e progettuale.

            Argomentare, quello qui riferito, tanto suggestivo, quanto inaccoglibile per gli esiti cui può condurre se non altro sul piano delle applicazioni pratiche: non più un “tipo criminoso legale”, necessariamente pre-definito, ma appunto un “tipo criminoso giurisprudenziale”, ibrido, che prende vita in sede di valutazione della fattispecie concreta secondo i nuovi canoni – fissati dalla Corte europea – della “sostanza dell’incriminazione” e della “ragionevole prevedibilità” del risultato dell’interpretazione32.

Sinteticamente può essere osservato in senso critico che la stessa Corte costituzionale, nel tentativo di arginare derive ormai arbitrarie, ha di recente inteso definire il “limite” dell’interpretazione conforme ed in tal senso è venuta ad affermare che l’onere di interpretazione secundum costitutionem sussiste solo se e quando, utilizzando gli “ordinari strumenti ermeneutici” sia possibile attribuire al testo normativo un significato in linea coi parametri costituzionali asseritamente violati33. È stato così riabilitato quel negletto criterio “letterale” col ribadire che l’interpretazione conforme «incontra sempre e comunque un limite nell’univoco tenore letterale della disposizione impugnata»34 e non può rivelarsi «del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca»35.

Come fondatamente si è rilevato, è così ribadito il primato, nell’ordinamento penale, del diritto scritto di formulazione parlamentare rispetto a quel diritto giurisprudenziale, privo di legittimazione democratica ed instabile36; si riconosce, cioè, l’esigenza che le scelte di diritto penale sostanziale si materializzino «in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati»; testi rispetto ai quali «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo»37.

Le proprietà salvifiche della interpretazione giurisprudenziale, “conforme” e “tassativizzante”, rispetto a formulazioni normative del tutto non chiare e imprecise vengono, e comprensibilmente, revocate in dubbio.

  1. Riserva di legge e soggezione del giudice alla legge quali principi supremi dell’ordinamento posti a tutela dei diritti inviolabili dell’individuo.

Ed è questo il punto di inserzione della tematica del malinteso canone della prevedibilità delle decisioni giudiziali e dell’evocato principio di nomofilachia.

            Per certo possono sopraggiungere esigenze politico-criminali di adeguamento dell’ordinamento penale, ma il quesito, semplice, da porsi in relazione alla prassi giudiziaria è, innanzitutto, il seguente: è ammissibile l’“anticipazione di possibili nuovi contenuti normativi” da parte del cd. formante giurisprudenziale? Se, attraverso l’“impoverimento” della fattispecie incriminatrice, col deprivarla di elementi costitutivi essenziali, ne si slabbra i contorni così da ampliarne l’area di applicazione e colmare supposte “gravi lacune” di tutela, ci si sta muovendo nell’ambito, consentito, dell’interpretazione teleologica o, piuttosto, in quello, vietato, dell’applicazione analogica della norma? I vincoli posti dai principi di origine illuministico-liberale individuano il “dover essere” del nostro ordinamento di civil law. Il disincanto rispetto alle mitologie giuridiche –ammonisce Domenico Pulitanò– non tocca il “dover essere” incorporato nel principio di legalità sancito dalla Costituzione italiana: riserva di legge e soggezione del giudice alla legge38.

            Una “buona” interpretazione –tra le diverse esistenti– può aiutare a comprendere cosa tale principio sancisca e richieda (“quali impegni ne derivino per gli interpreti di un ordinamento di civil law caratterizzato da principi illuministico-liberali”), ma non può riconoscere il carattere creativo della interpretazione giudiziaria. Il “valore” del cd. formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti di diritto di un ordinamento positivo dato non è competente a stabilirlo la teoria dell’interpretazione; è ricavabile, piuttosto, dal modello di sistema formale delle fonti in concreto recepito. Ora – sottolinea Pulitanò – il nostro ordinamento di civil law si caratterizza, appunto, per la soggezione del giudice alla legge: «il formante giurisprudenziale non ha valore formale di legge, questo ci dice una ermeneutica descrittiva del nostro ordinamento». Lo statuto della giurisprudenza nel sistema delle fonti non può stabilirlo la teoria dell’interpretazione, ma discende dalle scelte di politica del diritto in concreto operate in ordine alla struttura dell’ordinamento.

            Ed è ciò che ha inteso riaffermare la Corte costituzionale con la sentenza n. 230 del 2012 –sentenza definita, appunto, di “forte cifra politica”– con la quale si è voluto nettamente differenziare il “mutamento” legislativo dal “mutamento giurisprudenziale” in mitius.

            Il giudice delle leggi ha, invero, rimarcato che il principio “convenzionale” di legalità penale risulta meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana, «ad esso resta, infatti, estraneo il principio di centrale rilevanza, per converso, nell’aspetto interno, di riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.: principio che…demanda il potere di normazione in materia penale –in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale– all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire il Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale…il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione»39.

            Non accoglibile si rivela, pertanto, l’assunto di Giovanni Canzio secondo cui «il giudice concorre nella costruzione della regola del caso concreto, sperimentando il vincolo della interpretazione conforme al diritto comunitario e a quello convenzionale», così da rendere mobili gli spazi dell’interpretazione, operazione «condotta secondo modalità parzialmente creative del diritto». Simile “torsione del metodo ermeneutico” –riconosce l’Autore– rischia di mettere in tensione «la dimensione giurisprudenziale del diritto vivente» con il principio di legalità, così da incidere «negativamente sulle garanzie convenzionali di conoscibilità del comando e di prevedibilità, stabilità e uniformità della decisione» e condurre al «declino della certezza del diritto». Tuttavia, ciò sarebbe scongiurabile attraverso l’adozione di corrette “dinamiche di formazione del precedente”: «rigore metodologico, rispetto dei canoni di ragionevolezza, gradualità, adeguatezza nella conformazione del dato normativo alla concretezza dei casi» si dovrebbe poter riscontrare nella “insostituibile opera interpretativa del giudice” (del merito); al giudice di legittimità spetterebbe «il controllo di razionalità dell’opera di selezione della regola effettuata dal giudice del merito, in un giusto equilibrio tra la dimensione parzialmente creativa e plurale del diritto giurisprudenziale e i principi di uniformità e prevedibilità della decisione». L’opera del legislatore e dell’interprete troverebbero così «un punto di equilibrio nella funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, che riporta tendenzialmente e virtuosamente ad unità la legalità formale della legge e la legalità effettuale della giurisprudenza»40.

            Al di là del suadente (ma non convincente) eloquio e della piana (quanto improponibile) omologazione di “certezza del diritto” e “prevedibilità” della decisione del caso singolo –tema sul quale si tornerà brevemente più avanti– proprio la realistica presa d’atto di componenti creative nell’interpretazione giudiziaria (il cd. circuito plurilivello della giurisprudenza) come l’aspirazione ad una concezione dinamica dell’esperienza giuridico-penale fondata sull’argomentazione, sono aspetti che militano a favore di una difesa del principio di riserva di legge e del vincolo di soggezione del giudice ad essa (quale che sia, attualmente, la concreta consistenza di simile vincolo).

            Come con fondamento rileva A. Ruggeri, «dovrebbe esservi una maggiore stabilità nella giurisprudenza rispetto alla legislazione»; è la giurisprudenza ad avere il “vincolo della motivazione”, mentre al legislatore è attribuito il “potere politico” della novazione41. La stabilità della legge (chiara e precisa), affidata al legislatore, è aperta al cambiamento, alla “creatività politica”; affidata al giudice, è la stabilità della “custodia del nomos” (id est, nomofilachia): un’esigenza incorporata nel modello della supremazia della legge che nella peculiare capacità di vincolo ai mutamenti ravvisa la garanzia di libertà e di uguaglianza.

            Prosegue al riguardo Domenico Pulitanò: «nei tanti casi in cui il diritto è pura tecnicalità, di per sé neutra sul piano dei valori (guida a destra o guida a sinistra?), l’esigenza di certezza è assolutamente dominante. La stabilità di indirizzi ha in molti casi un valore prevalente. Ma proprio nei casi di maggiore delicatezza, in cui l’interpretazione ha a che fare con precomprensioni e ragioni pregne di valori, si fa avanti l’esigenza di un confronto aperto: di rimettere in discussione la custodia del nomos, in nome di una migliore ermeneutica del nomos. L’esperienza vissuta (in diversi ruoli) nella fabbrica processuale delle interpretazioni, mi ha mostrato l’importanza fondamentale della critica, dell’argomentazione di dare ragioni cui tutte le parti del processo possano accedere in un contesto aperto, vincolato alla legge e non a precedenti fabbricati altrove»42.

            Cosa mai potrebbe discendere da un ipotetico mutamento della “capacità formale di vincolo” del precedente giudiziario? Dal punto di vista del cittadino, destinatario di doveri e potenziale parte nel processo, più rischi che vantaggi. Per il cittadino la soggezione del giudice alla legge individua un punto di forza: «è ciò che consente di poter contare sulla protezione del diritto, anche a fronte di indirizzi giudiziari autorevoli, ma ragionevolmente discutibili o francamente sbagliati»43.

            Come rileva Vallini, la riserva di legge non è concepita per garantire positivamente la forma delle scelte legislative e neppure la qualità dei contenuti, ma per “predisporre strumenti e processi di limitazione e correzione”. Simile principio non mira ad una legislazione penale ideale             – “un connubio perfetto tra razionalità e rappresentatività” – ma muove dalla empirica constatazione che il potere di normazione penale suscita –si direbbe, naturalmente– la “tentazione di abusi punitivi”, che vanno scongiurati. Rimarcare che l’attuale produzione legislativa è di scarsa, se non pessima, qualità, “non è un argomento utile per decretare il fallimento del principio di riserva di legge” e, se proprio se ne auspica un superamento, è giocoforza proporre “sistemi dotati di una maggiore capacità limitativa e correttiva”, non già «affidarsi alla credenza – minacciosamente ingenua – che esistano istituzioni (ad esempio giurisprudenziali) ontologicamente dotate di “maggiori capacità” di informare i processi di criminalizzazione a standard più elevati. Non chi deve produrre norme penali, ma come controllare la produzione del diritto penale: questa è la domanda». Del resto, la “bontà” della legislazione penale, prima ancora che individuare una questione tecnica, fondamentalmente consiste in una scelta politica ed «è soprattutto per questo che appare poco sensata la prospettiva di affidarla a una tecnocrazia di illuminati manipolatori del giure punitivo»44.

            In questo solco, profondamente tracciato, è venuta di recente a collocarsi anche la nota sentenza della Corte costituzionale (n. 24 del 2017) relativa alla cd. vicenda “Taricco” per la quale, premesso che «l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia», il principio di legalità in materia penale esprime un “principio supremo” dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva45. Principio dal quale –per quanto qui in particolare interessa– si fa discendere:

  • “il requisito della determinatezza che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale. Queste ultime devono quindi essere formulate in termini chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice”;
  • il rispetto della riserva di legge per la quale “al giudice non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”; il contenuto delle “regole legali” in tal senso non può essere deciso dal giudice caso per caso, «cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale».

Conclusivamente sul punto. L’art. 25 Cost. esprime un “principio supremo”, non solo perché sancisce la regola fondamentale della irretroattività, ma anche e soprattutto perché pone il vincolo della riserva assoluta di legge in materia penale, postulando che le scelte relative alla punibilità vengano operate esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate. Come puntualmente rileva Giorgio Lattanzi, «oltre alla certezza del diritto e alla prevedibilità delle decisioni, che pure rilevano, sono in questione, da un lato, il principio democratico, che vuole nella materia penale l’intervento di un legislatore, e, dall’altro, i limiti rigorosi della funzione giurisdizionale. Il giudice non è legittimato ad operare scelte basate su valutazioni discrezionali, anche se finalizzate a un risultato predeterminato»46.

La legge penale non si prefigge il solo scopo di neutralizzare nel giudizio la “variabile soggettiva”, ma soprattutto di mettere al riparo l’imputato dall’applicazione di un innominato ed alternativo parametro di valutazione. Come osserva criticamente Dario Micheletti, «altro dunque che dura lex: il vero è che il cittadino-imputato anela alla legge, non disponendo che di essa quale strumento di difesa da un giudizio immanente e –oggi quanto non mai– da una sommaria aspettativa sociale che qualunque giudice penale, per funzione, è incline a soddisfare»47. L’aberrante interpretazione offerta dell’art. 7 CEDU dalla Corte di Cassazione per risolvere in malam partem il (non) problema della configurabilità del tentativo di rapina impropria è illuminante al riguardo: la norma convenzionale attribuirebbe al “diritto vivente” –che convalidi nel tempo una pur erronea interpretazione– il potere di modificare in pejus la soluzione legislativa e ciò, da un lato, contro l’art. 25, 2° c., Cost. che dispone la soggezione del giudice alla legge; e, dall’altro, in contrasto con la lettura, necessariamente combinata, degli artt. 7 e 53 CEDU secondo cui l’assimilazione tra legge e norma giurisprudenziale è proponibile e può operare solo in bonam partem e non per ridurre le garanzie individuali previste dal sistema delle fonti del diritto nazionale.

  1. Conclusioni.

            Secondo il giudice rimettente il “fatto”, nella sua materialità, si inserirebbe “nel quadro di una stabile relazione affettiva” e, dunque, “un fatto ascrivibile a pieno titolo alla ratio applicativa del reato di cui all’art. 572 cp”. In tal senso la norma che incrimina i maltrattamenti consentirebbe un’interpretazione “estensiva” suscettiva di ricomprendere nella propria sfera applicativa quelle condotte maltrattanti – che cagionino “uno svilimento della sfera morale ed emotiva della vittima” – realizzate in un “contesto affettivo protetto” le quali, in quanto tali, sarebbero riconducibili al paradigma della “convivenza”, seppure occorse nella riconosciuta assenza di tale requisito.

            Una simile interpretazione – si assume – risulterebbe del resto l’unica compatibile con l’art. 3 Cost.

            Il giudice delle leggi rileva criticamente che il rimettente ha omesso di confrontarsi con il canone ermeneutico, propriamente penalistico, del divieto di analogia a sfavore del reo. Ed alle ragioni sopra riferite aggiunge il rilievo conclusivo secondo cui «il pur comprensibile intento… di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi “persona della famiglia” e “persona comunque…convivente” con l’autore del reato». Requisiti di fattispecie che delimitano l’ambito delle relazioni nelle quali dette condotte devono intervenire per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 c.p.

            Ragionando diversamente il giudice finirebbe per assumente un ruolo creativo, fissando, in modo difforme dal tipo legale, l’area di applicazione di diverse fattispecie incriminatrici (e, a maggior ragione, il confine tra la sfera del lecito e quella dell’illecito). E, al contempo, svanirebbe la garanzia soggettiva della piena conoscibilità del precetto, laddove appunto venisse acconsentito al giudice di assegnare alla formula normativa un significato distinto ed ulteriore rispetto a quello che il cittadino può raffigurarsi leggendo48.

            Anche di recente la magistratura ha avvertito l’esigenza di «regole interpretative [per il cd. diritto giurisprudenziale] quanto più possibile condivise e intellegibili, per scongiurare rischi di autoreferenzialità ed imprevedibilità che potrebbero minarne la legittimazione sociale ma soprattutto per collegare chiaramente e sempre di più i suoi obiettivi all’attuazione delle linee costituzionali».

            Assunto “fumoso” che pretende di mascherare, sotto l’ala della “interpretazione conforme” a Costituzione e della “deontologia ermeneutica”, l’attribuzione al giudice delle scelte di politica criminale, il riconoscimento di un potere politico “funzionale all’obiettivo ultimo di “costruire il diritto”, seguendo i casi concreti che descrivono l’essenza della norma penale, strutturalmente “aperta” ai mutamenti sociali”49.

            Come acutamente osserva Francesco Palazzo, in tema di deontologia dell’interpretazione, il giudice è spesso protagonista del processo espansivo dei diritti, ma lo è nel senso di un costante accrescimento del potere punitivo, e prende corpo il rischio che finisca per sentirsi «investito di una missione orientata al miglioramento e all’elevazione morale della società».

            Ora, prosegue l’Autore, «il punto è se intendiamo credere veramente oppure no al principio di ultima ratio del diritto penale, come principio generale di contenimento dello ius terribile non solo per il legislatore, ma anche per la giurisdizione…Se le buone ragioni che sono alla base dell’ultima ratio sono convincenti, allora quel principio, combinandosi con la regola dell’esercizio del dubbio, dovrebbe condurre a rifiutare interpretazioni sfavorevoli che non s’impongano al di là di ogni ragionevole dubbio. Più in generale, poi, l’etica del limite dovrebbe essere parte costitutiva della mentalità della giurisdizione, per così dire: nel senso che essa dovrebbe convincere i giudici che non tocca a loro intraprendere vaste operazioni di bonifica sociale contro i fenomeni di criminalità diffusa»50.

*Avvocato del Foro di Roma, Ordinario di Diritto Penale all’Università di Tor Vergata

[1] F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, n. 9, 1218 s.; L. Risicato, Argini e derive della tassatività. Una riflessione a margine della sentenza costituzionale n. 98/2021, in disCrimen, 16 luglio 2021. V. anche il webinar organizzato dalla Camera penale di Firenze il 25 giugno 2021 «Date al testo quel che è del testo. A proposito della sentenza della Corte costituzionale 98/2021».

[2] Per tutti A. Sandulli, Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98), in Giustizia Insieme, 2021; e della stessa Autrice, più in generale, “Principi e regole dell’azione amministrativa”: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in federalismi.it, 6 dicembre 2017.

[3] F. Palazzo, op. cit., 1225.

[4] Precisa al riguardo la Corte costituzionale: «È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto “inviolabile” (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge».

[5] Così F. Viganò, Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale, in Sistema penale, 2020, il quale precisa fra l’altro: “L’interpretazione della norma…è anche, o quanto meno può essere, il frutto di una decisione dell’interprete in favore di uno dei possibili significati compatibili con il testo della norma”.

[6] F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 1249 s.   (corsivi di chi scrive).

Parla di “fisiologica diversità del diritto penale rispetto ad ogni altro settore del giure” C. Bernasconi, Crisi della legalità nel diritto penale ΚΡΙΣIΣ nelle diverse legalità, in disCrimen, 21.1.2021. Della stessa Autrice v. anche il più ampio lavoro, La metafora del bilanciamento nel dir. pen., Ai confini della legalità, Napoli, 2019.

[7] C. Cost., ord. 26 gennaio 2017 n. 24. In argomento v. R. Rampioni, Sistema delle fonti di diritto e conflitto ermeneutico fra le due Corti, in Proc. pen. e giustizia, 2018, 294 s.

[8] F. Ramacci, I modelli della giustizia penale, tra mito e storia. Una crisi di trasformazione?, in Diritto e libertà. Studi in memoria di M. Dall’Olio, 2008, II, 1316

[9] F. Ramacci, Corso di diritto penale, VII ed., Torino, 2021, 14 s.

[10] C. Prittwitz, Teoria e prassi dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 487 s.

[11] Così C. Bernasconi, op. cit.

[12] T. Padovani, Prefazione a F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019, 10.

[13] F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., 47.

[14] F. Sgubbi, op. cit., 46.

[15] F. Sgubbi, op. cit., 46.

[16] T. Padovani, op. cit., 11.

[17] V. N. D’Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prove”, Strutture in trasformazione del diritto e del processo penale, Reggio Calabria, 2008.

18  Cfr. S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’, 2001, 20 s.

19 Cfr. G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., 2001, 150 s.

20 M. Donini, ‘Danno’ e ‘offesanella cd. tutela penale dei sentimenti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1552.

21 Cfr. K. Tiedemann, Clausole generali nel diritto penale dell’economia sull’esempio della slealtà nel diritto penale della concorrenza, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, p. 1 s.: «Il legislatore penale utilizza le clausole generali con grande parsimonia, e ciò per buone ragioni di carattere costituzionale: esse contraddicono, tendenzialmente, il principio di determinatezza della fattispecie».

22 Cfr. K. Tiedemann, Tatbestandsfunktionen in Nebenstrafrecht. Untersuchungen zu einem rechtsstaatlichen Tatbestandsbegriff, entwickelt am Problem des Wirtschaftsstrafrecht, 1969, 18.

23 Così G. Marinucci, L’analogia, cit., 1255.  Netta presa di posizione ribadita da G. Marinucci-E.Dolcini-G. Gatta, Manuale di diritto penale, IX ed., 2020, 96: «le opinioni dominanti in giurisprudenza e/o in dottrina non possono scalfire la soggezione del giudice alla sola legge».

24 G. Marinucci, L’analogia, cit., 1255 s.

25 C. cost., sent. 10 luglio (dep. 22 ottobre) 1996, n. 356.

26 V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, 33.

27 F. Palazzo, Il giudice penale tra esigenze di tutela sociale e dinamica dei poteri pubblici, in AA. VV., Il ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, a cura di G. Chiodi e D. Pulitanò, Milano, 2013, 168.

28 M. Bignami, Il doppio volto dell’interpretazione adeguatrice, in forumcostituzionale.it, 2008, 1 s.

29 V. Manes-V. Napoleoni, op.cit., 109.

30 M. Vogliotti, La nuova legalità penale e il ruolo della giurisdizione. Spunti per un confronto, in Sistema pen., n. 3, 2020, 54 s.; M. Fioravanti, Il legislatore e i giudici, Bologna, 2016, 8s.

31 M- Voglieotti, op. cit., 58 (corsivi di chi scrive).

32 In realtà, la distinzione – di recente delineazione – tra “tipo criminoso legale” e “tipo criminoso giurisprudenziale” viene basata, nel primo caso, sullo “scopo”, sulla “ratio” della norma, come tipizzati dal legislatore, nel secondo, da un “tipo criminoso” diverso, asseritamente elaborato dalla giurisprudenza “per la necessità di adattamento del dettato normativo alle trasformazioni fenomeniche, sociali e valoriali della realtà”. In argomento cfr. R. Bartoli, Le garanzie della “nuova” legalità, in Sistema penale, 3, 2020, 151 s.

33 C. cost., sent. 20 maggio-23 giugno (dep. 4 luglio) 2014, n. 191.

34 C. Cost., sent. 8 maggio 1° luglio (dep. 4 luglio) 2013, n. 170.

35 C. cost., sent. 13 gennaio (dep. 19 febbraio) 2016, n. 36.

36 V. Manes-V.Napoleoni, op. cit., 120.

37 C. cost., sent. 10 aprile (dep. 31 maggio) 2018, n. 115.

38 D. Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutivca e riserva di legge, in Dir. pen. cntemporaneo, 2015, 2, 46 s.

39 C. cost., 8 ottobre 2012, n. 230.

40 G. Canzio, Corte di Cassazione e principio di legalità, in Dir. pen. e processo, 2016, 425 s. Chiara la posizione di G. Marinucci, E. Dolcini, G. Gatta, op. cit. 96 s., che qualificano «la “cd. nomofilachia delle Sezioni Unite della Cassazione” come “uno dei tanti idola theatri, cioè una credenza tanto diffusa, quanto erronea”, non essendovi alcun obbligo per i giudici successivi di conformarsi al principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite, ed essendo tale nomofilachia “irrisa dai non pochi casi in cui, su uno stesso problema interpretativo, decisioni contrastanti delle Sezioni Unite si susseguono anche in un breve arco di tempo».

41 A. Ruggeri, Ancora a margine di C. cost. n. 230 del 2012, post scriptum, in Consulta online, 29 ottobre 2012.

42 D. Pulitanò, op. cit., 50.

43 D. Pulitanò, op. cit., 50 s.

44 A. Vallini, Le due legalità: quale convivenza nel diritto penale, Tavola rotonda, in Criminalia, 2013, 248.

45 C. cost., ord. n. 24 del 26 gennaio 2017.

46 G. Lattanzi, Il dialogo tra le Corti nei casi Melloni e Taricco, in Cass. pen., 2017, 2131 s.

47 D. Micheletti, Jus contra lex. Un campionario dell’incontenibile avversione del giudice penale per la legalità, in Criminalia, 2016, 162.

48 Più in generale sul tema della conoscibilità del precetto v. la “storica” pronuncia della C. cost., sent. 23-24 marzo 1988 n. 364.

49 M. Brancaccio, Il giudice interprete o legislatore? in Cass. pen., 2021, 1153 s.

50 F. Palazzo, op. ult. cit., 1276.