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ALLE “ORIGINI” DELLA FATTISPECIE. BREVI NOTE SULL’ART. 416 BIS C.P. – DI PIETRO POMANTI

ALLE “ORIGINI” DELLA FATTISPECIE. BREVI NOTE SULL’ART. 416 BIS C.P. – DI PIETRO POMANTI

POMANTI – ALLE “ORIGINI” DELLA FATTISPECIE. BREVI NOTE SULL’ART. 416 BIS C.P.PDF

ALLE “ORIGINI” DELLA FATTISPECIE. BREVI NOTE SULL’ART. 416 BIS C.P.

Nota alla sentenza Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2019, dep. 12 giugno 2020, n. 18125

di Pietro Pomanti*

Sommario: 1. Dalla “geometria variabile” alla reductio ad unum. 2.  L’incertezza teleologica. 3. La doppia lettura della norma. 4. Verso una “tipicità rafforzata”. 5. Alle origini del delitto.

 

  1. Dalla “geometria variabile” alla reductio ad unum.

La sentenza in commento, per la sua linearità, a tratti apparente semplicità, sembra porsi un obiettivo ambizioso, quello di arrestare la giurisprudenza “creativa” in tema, fornendo una interpretazione uniforme del delitto di cui all’art.416 bis c.p., una sorta di reductio ad unum del modello associativo mafioso (escluso nella vicenda in esame) ponendo un freno a quella deriva estensiva che era giunta a configurare la fattispecie come un delitto a “geometria variabile”.

In effetti, tra i diversi processi “di mafia” nel panorama giudiziario, “di mafia in mafia”[1], quello c.d. di mafia capitale non è certo tra i giudizi di maggiore rilevanza, sotto un profilo criminologico, se non per la particolarità del contesto storico-sociale di riferimento, al confine tra gli apparati centrali della capitale di Italia e la criminalità organizzata.

Nonostante ciò, tale vicenda giudiziaria assume una rilevanza particolare poiché si mostra come uno “sforzo giudiziale”[2] orientato verso la massima estensione possibile della norma incriminatrice “fortemente connotata in chiave sociologico-ambientale”[3], introdotta per fronteggiare le mafie tradizionali ed ora rivolta verso contesti storico-territoriali del tutto diversi.

Si tratta di uno sforzo che ha come presupposto la presenza “delle mafie su Roma”[4], sino alla “mafia di Roma”[5], ed intende “saggiare” i limiti di estensione della fattispecie, muovendosi ai confini interpretativi, più estremi, della norma incriminatrice.

Con tale pronunzia, in sintesi, è voluto mettere un punto non solo ad un esperimento giudiziario sostenuto da numerosi precedenti, ma prima ancora ad un contrasto giurisprudenziale che giunge ad investire la stessa natura del delitto; quasi a ribadire come non vi sia bisogno di un intervento delle Sezioni Unite per ricondurre la questione ad unità.

Nonostante le cc.dd. sentenze gemelle[6] emesse dalla medesima sezione e nello stesso procedimento – sia pure nella fase cautelare e, dunque sulla base un diverso apporto probatorio – abbiano fortificato quell’indirizzo giurisprudenziale debole, quel modello associativo estensivo, già da tempo apparso in giurisprudenza, con la pronunzia in commento si è preferito dirimere il contrasto internamente alla sezione, senza scomodare le Sezioni Unite[7].

Eppure, è la stessa pronunzia in esame ad ammettere l’esistenza del contrasto anche tra diverse sezioni.

Noti i riflessi di questa scelta: l’inoperatività di quel vincolo del precedente, sia pure relativo, ex art.618 c.p.p. cosicché nulla esclude che altra sezione, tra qualche tempo, possa ritornare su posizioni meno rigorose. Insomma, una partita non ancora chiusa, nonostante il sigillo[8] sulla singola vicenda processuale.

Resta, infine, da chiedersi perché il processo c.d. di “Mafia Capitale” abbia assunto un tale interesse non solo nel panorama giurisprudenziale, ma anche in dottrina[9] . Non può certo credersi che l’attenzione sia solo il risultato di una esasperata, per certi aspetti anche comprensibile, attenzione mediatica alla vicenda: in fondo, le contestazioni riguardavano possibili infiltrazioni criminose nel cuore della più grande città di Italia, alle sue più alte sfere.

Si crede, invero, che tale attenzione giurisprudenziale e dottrinale sia da attribuire alla rilevanza giuridica della posta in gioco: si è arrivati ad un punto in cui la interpretazione estensiva è giunta ai suoi massimi confini e se non tengono gli argini della fattispecie, il rischio è quello di sconfinare nella analogia, con una reale, non consentita, trasfigurazione del delitto.

Sono in gioco i principi fondamentali del diritto penale: dalla legalità (ed i suoi corollari della tassatività e del conseguente divieto di analogia), alla “riconoscibilità”[10] della fattispecie; dalla proporzione della sanzione, alla materialità della condotta incriminatrice.

In gioco è la stessa tenuta della norma.

 

  1. L’incertezza teleologica.

È noto; in tema si fronteggiano, da tempo, due indirizzi giurisprudenziali: l’uno debole, estensivo, identificato molto spesso con le cc.dd. nuove e piccole mafie[11], ove la carica intimidatoria del sodalizio può prospettarsi anche solo allo stato generico, potenziale[12] o, addirittura, occasionale.

All’estremità opposta, resiste un orientamento forte, tradizionale, restrittivo [13] secondo il quale per la configurabilità del delitto la forza di intimidazione deve esprimere una carica autonoma e sistematica[14], diffusa[15], effettiva e concreta[16], così profonda e radicata nel tessuto sociale di riferimento (che non deve necessariamente essere esteso) da determinare quella condizione di compromissione della libertà di autodeterminazione[17] che caratterizza lo stato di immanenza intimidatoria.

Se si vuole sintetizzare ulteriormente il conflitto, può affermarsi che un primo indirizzo ammette la configurabilità del delitto anche in presenza di una intimidazione allo stato potenziale, prospettando una natura del reato di pericolo astratto o presunto; un secondo orientamento richiede, per la sussistenza del reato, una intimidazione effettiva e concreta, delineando un delitto di pericolo concreto.

Diverse sono le ragioni che hanno portato allo sviluppo di tale situazione conflittuale.

Ha certamente contribuito alla trasformazione (se non addirittura metamorfosi[18]) della fattispecie, la sfuggente individuazione del bene giuridico così disorientando la interpretazione teleologica della norma.

Nei nuovi modelli alleggeriti di sodalizi mafiosi, difatti, anche la dimensione teleologica della disposizione sembra aver perso di capacità delimitativa della tipicità attraverso una progressiva “smaterializzazione” del valore protetto, oramai “rarefatto, sfuggente, smaterializzato, inafferrabile, di pura creazione legislativa”[19].

Già da tempo, peraltro, si era rilevato, in senso critico, come la norma non indicasse né il bene giuridico tutelato, né un evento in grado di incorporarne univocamente l’offesa[20], a conferma di quella generale tendenza a sanzionare la mafiosità come “nemico da combattere”, in una ottica marcatamente repressiva, più che a ricercare i confini della dimensione teleologica della disposizione[21].

Così da una prospettazione del delitto a carattere monoffensivo a tutela dell’ordine pubblico immateriale[22], materiale[23], economico[24] o della pubblica tranquillità[25], si è giunti ad una prospettazione plurioffensiva[26]  a tutela non solo dell’ordine democratico e dell’ordine pubblico, ma anche della libertà di mercato e di iniziativa economica[27] ovvero della libertà morale dei consociati di fronte al metodo mafioso[28].

Una incertezza teleologica che ha certamente contribuito alla espansione della disposizione, se non addirittura al “tradimento” della legalità[29].

La stessa pronunzia in commento recepisce tale plurima ed eterogenea offensività individuando il bene giuridico nell’ordine pubblico, nell’ ordine economico, ma anche nella libera partecipazione dei cittadini alla vita politica, aggiungendo significativamente (a riprova della dispersione dell’interpretazione teleologica) “ed altri interessi ancora”[30].

Ha contribuito, inoltre,  allo sviluppo di tale frizione giurisprudenziale – e conseguente nascita di sub-modelli, di sottotipi delle associazioni mafiose –  la sempre più decisa collocazione del fenomeno tra le culture ed i comportamenti funzionali delle pubbliche istituzioni, in quell’area “incredibilmente complicata”[31] indicata significativamente  zona grigia[32], con uno spostamento di operatività del delitto dalla criminalità tradizionale ai colletti bianchi[33], alla c.d. borghesia mafiosa[34], conseguenza anche  della intrinseca e genetica mutevolezza del fenomeno mafioso[35] sotto un profilo sociologico e criminologico.

La fattispecie, così, è venuta a trovarsi in un terreno così poco perimetrato da consentirne la deriva addirittura verso la corruzione[36], mediante lo sviluppo di un modello connotato da una elevata fluidità nelle relazioni economiche, da una assenza di regole organizzative rigide e da un poliformismo operativo in grado di operare indistintamente (e contestualmente) tra la criminalità e la sfera imprenditoriale[37] .

Ciò che si mostra, dunque, è un nuovo modello caratterizzato da un sistematico ricorso alle intese corruttive, finalizzato a conseguire il pieno controllo delle attività della pubblica Amministrazione, condizionandone le procedure ed i correlativi meccanismi decisionali.

In sintesi, un sodalizio “essenzialmente dedito a pratiche corruttive e all’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, partecipato da una moltitudine di pubblici funzionari e imprenditori e da pochi classici criminali violenti”[38] .

E’, comunque, una deriva che non convince[39], proprio poiché fondata sulla realizzazione dell’intimidazione attraverso la corruzione (“il ricorso sempre più frequente a mezzi diversi dalla violenza, a cominciare dalla corruzione”[40]), strutturalmente caratterizzata dalla parità tra le parti.

Di certo, è proprio in questa zona d’ombra collocata nella intersezione tra fenomeno mafioso ed apparati della pubblica amministrazione[41], che hanno preso vita i più recenti modelli mafiosi originali (non originari[42]), sbilanciati verso la corruzione, e che nella sentenza in commento appaiono decisamente ridimensionamenti.

 

  1. La doppia lettura della norma.

Questa “doppia” lettura della fattispecie, questa duplice considerazione del modello associativo, non nasce dal nulla, ma è il risultato di una lenta (neppure troppo) , silenziosa, erosione della tipicità della fattispecie e, prima ancora, di ogni  suo singolo elemento  strutturale, con l’assoggettamento e l’omertà che seguono le sorti involutive dell’intimidazione, diluita con il tempo nelle sue potenzialità.

Così, come già evidenziato, dalla forza di intimidazione propria dell’indirizzo   rigoroso o restrittivo[43], intesa come carica effettiva e concreta[44] idonea a determinare uno stato di reale compromissione della libertà di autodeterminazione[45], si è giunti alla prospettazione di una carica intimidatoria anche solo allo stato generico, potenziale[46] o, addirittura, occasionale, espressione di quell’indirizzo debole per lo più (ma non solo) riconducibile ai sottotipi delle cc.dd. nuove e piccole mafie[47].

Del pari, inevitabilmente, da una nozione di assoggettamento forte intesa come costrizione, soggezione, succubanza[48], una condizione di sottomissione per paura, una forzata privazione della libertà decisionale, si è giunti ad una concezione debole, estensiva, del medesimo requisito, prospettabile anche solo a livello prodromico o embrionale[49], potenziale, priva, dunque, di effettiva concretezza.

Un affievolimento del requisito tipico che sembra collidere con lo stesso significato letterale del termine (assoggettamento: “asservimento, servitù, sottomissione”[50] ); delle due l’una: o si è alla mercé del sodalizio o si è liberi, indipendenti e come tali non assoggettabili o assoggettati.

Parimenti, da una nozione forte di omertà [51]intesa come un silenzio carico di paura [52] o di “solidarietà verso un sodalizio, si è giunti ad una nozione debole intesa quale “mero silenzio”, espressione di quella generale tendenza a non parlare con l’autorità in modo da risolvere i problemi senza ricorrere alla legge[53]: un mero “rifiuto sufficientemente generalizzato a collaborare con gli organi dello Stato”[54] .

Nel complesso, dunque, si è assistito ad una metamorfosi della fattispecie conseguente ad un progressivo allontanamento dell’interpretazione, dal significato letterale della disposizione.

L’art. 416-bis c.p., infatti, nonostante si presenti come fattispecie aperta e recepisca in termini giuridici un fenomeno sociologico assai complesso, risulta connotato da specifici indici strutturali espressi nel terzo comma, da intendersi chiaramente come norma definitoria[55].

Nonostante ciò, con il passare degli anni, tali indici hanno perso di intensità, ma soprattutto di significato.

Non è, dunque, solo un problema di “prevedibilità”, prima ancora è una questione di stretta legalità.

  1. Verso una “tipicità rafforzata”.

Invero, come se tutto questo fosse un problema apparente, il risultato di una eccessiva considerazione del caso, di una morbosa attenzione alla singola vicenda giudiziaria, la sentenza in esame, senza troppi “giri di valzer”, sembra riportare la fattispecie nell’alveo dei suoi originari confini, orientandosi verso una tipicità “rafforzata”[56] e fissando alcuni punti fermi, insuperabili.

Già dall’incipit della motivazione[57],  il quale ribadisce come la fattispecie di cui all’ art.416 bis c.p. non sia configurabile solo “nelle realtà criminali prese in considerazione  dal legislatore nella descrizione del modello”, quello c.d. tradizionale (ma sul punto, non si è mai dubitato, risultando il dato pacifico), si ricava un primo dato essenziale: l’unico “modello fluido” della fattispecie prospettabile, è quello  riconducibile ad “una criminalità organizzata che per caratteristiche strutturali, e come si dirà, per il metodo impiegato nel suo agire, sia in grado di sprigionare qualitativamente  una carica offensiva del tipo di quella caratterizzante i contesti già noti”.

Una limitazione di fluidità, dunque, che sembra richiamare decisamente l’indirizzo restrittivo orientato verso la rilevanza della struttura (le “caratteristiche strutturali”) del sodalizio e la centralità dell’offesa, quasi a (ri)affermare come non ogni forma di aggressione al bene giuridico sia in grado di incidere sul medesimo, occorrendo invero una carica offensiva connotata qualitativamente non solo in termini di effettività, ma anche di rilevanza.

Il secondo dato motivazionale che balza subito in evidenza è quell’aderenza della Corte ad un modello interpretativo evolutivo, ad una situazione dialettica inevitabilmente in movimento fra “ diritto legislativo” e “diritto giurisprudenziale” che, tuttavia, non può “ giungere a piegare le esigenze di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie ed a necessità di andare al “ cuore” sostanziale di intricate vicende”; in sintesi, non esistono “scorciatoie” probatorie; occorre invece rispettare la legalità.

Ritorna la Corte su quella sottile linea di confine[58] che divide l’interpretazione estensiva e quella analogica e concerne, in particolare, i confini della semantica troppo spesso erosi da una sopravvalutazione del diritto penale vivente, giurisprudenziale[59] a scapito del “sacro principio di legalità”[60].

Ebbene, questo neppure troppo velato monito della Cassazione a rispettare la legalità penale ed, in particolare, il suo corollario della tassatività –  riferita al divieto di analogia, ma anche al rispetto della determinatezza e della precisione della norma, concernente appunto “i profili semantici della disposizione”[61]–  sembra porre un freno anche a quel predominio  (già da tempo criticato in dottrina[62])  della legalità in action sulla legalità in the books e, del pari, a quel populismo  giustizialista[63], espressione di un diritto penale estremo[64], totale[65],  che sembra caratterizzare il sistema in questi ultimi anni.

Da sottolineare come la Corte sia giunta a queste conclusioni senza neppure fare riferimento alla prevedibilità convenzionale ex art. 7 CEDU, tesa comunque a contenere il trasformismo giurisprudenziale che destabilizza non solo il cittadino, ma anche lo stesso interprete “romantico”, per taluni ingenuo[66], ancora fedele a quella stretta legalità che non tollera deroghe.

 

  1. Alle origini del delitto.

La motivazione offerta dalla Corte, a proposito del requisito strutturale dell’intimidazione, depone per una piena rivalutazione del criterio semantico enucleabile dall’art. 12 disp. prel. c.c., sia pure integrato dalla dimensione teleologica della norma (ricavabile dal richiamo alla carica qualitativa dell’offesa), in un perimetro ermeneutico, dunque, condiviso, equilibrato, all’interno del quale l’interprete può muoversi liberamente.

Si tratta, cosi, di trovare un giusto equilibrio tra semantica e dimensione teleologica, dove la prima rimane come un limite invalicabile e la seconda tesa a dare sostanza all’incriminazione[67].

Ciò che non può superarsi, dunque, è proprio il nucleo di significato (core of meaning[68]), il “carapace semantico”[69] della norma, sia pure connotato da un “recinto amplissimo e indefinito”[70]; per dirla con Viganò, in maniera più diretta, “un cavallo non potrà mai essere un leone[71].

Anche seguire la decisione in commento, dunque, si potrà “ringiovanire”[72], attualizzare una norma incriminatrice, pur attraverso una lettura dinamica, rimanendo sempre nell’ambito della sostanza dell’incriminazione, della analogia interna[73] della disposizione, ad evitare di trasformare (rectius, trasfigurare) il volto dell’illecito penale per il tramite di una serie di “acrobazie ermeneutiche”[74], salti “senza rete”[75] .

Così, nello specifico, nell’affrontare il requisito della intimidazione, la Corte ribadisce come quest’ultima debba sussistere e manifestarsi, nel concreto, realmente: o esiste o non esiste, “non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso; occorre che il sodalizio “dimostri” di possedere detta forza e di essersene avvalso[76].

Ciò non significa, ovviamente, che radicati sodalizi debbano necessariamente manifestare di continuo violenza o minaccia, sia poiché l’intimidazione può manifestarsi anche secondo altre modalità, sia poiché può permanere sul territorio, in determinate situazioni, come un dato acquisito e consolidato, comunque esistente.

Una interpretazione, quest’ultima, come già affermato, assolutamente aderente al dettato letterale della disposizione che nella dizione al presente “si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo” esprime una condotta effettiva e reale.

Medesime considerazioni per i termini assoggettamento – che non indica solo un possibile piegamento della libertà di autodeterminazione – ed omertà, che non esprime un semplice silenzio.

Da qui, la conseguente natura di reato di pericolo concreto[77], assolutamente distante da quelle configurazioni di pericolo astratto o presunto che ritenevano sufficiente per la configurabilità del reato una intimidazione anche allo stato potenziale[78], embrionale, racchiuso in quella c.d. riserva di violenza, troppo spesso apparsa nelle decisioni giudiziarie.

La questione interpretativa viene così risolta dalla Corte: “diversamente dall’associazione per delinquere semplice, la associazione mafiosa non è strutturata sulle intenzioni ma su una rete di effettive  derivazioni causali”; “non una associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque” con un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente manifestarsi all’esterno, esteriorizzarsi (“deve essere manifestata e percepita”) sino a determinare quello stato di “succubanza diffusa” (“sufficientemente diffusa”[79]) tipica dell’indirizzo rigoroso, attento sia alla qualità che alla quantità dell’offesa.

Ciò anche nell’ipotesi della c.d. “riduzione di scala del fenomeno” a livello soggettivo ed oggettivo[80] poiché il fine primario è quello di scongiurare quella pericolosa banalizzazione – più tecnicamente “bagatellizzazione”[81] – del fenomeno criminoso caratterizzato da un “metodo anticipato, ridotto, presunto”.

Si tratta di un passaggio essenziale della decisione posto che, ancora una volta, si riafferma quella necessaria visione unitaria della fattispecie che costringe l’interprete a non muoversi dalla stretta tipicità della norma, qualunque connotazione abbia il sodalizio, anche nei c.d. “sottotipi applicati”[82], sia esso tradizionale, casa madre, nuovo, piccolo, autoctono, derivato, delocalizzato, cellula o diramazione: i requisiti tipici non variano.

Per dirla con la sentenza in commento, “la tipicità della fattispecie associativa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie, di cui all’art.416-bis, ultimo comma, cod. pen., piccole o grandi che siano”.

Ciò che forse meritava ulteriore approfondimento, è il rapporto tra la capacità di intimidazione ed il binomio assoggettamentoomertà nella struttura del reato.

Si ribadisce, in sentenza, come ai fini dell’esistenza del delitto sia necessario “che il gruppo manifesti la propria capacità di intimidazione, la propria fama criminale – non quella di un singolo associato – e che detta capacità produca assoggettamento omertoso (…)”[83].

In altro passaggio, la Corte precisa come “la forza di intimidazione del vincolo associativo determina come proiezione esterna assoggettamento e omertà” nei contesti ove opera il sodalizio”[84] aggiungendo ancora come “secondo l’oramai consolidata elaborazione giurisprudenziale, la condizione di assoggettamento e di omertà” si mostri “correlata in rapporto di causa a effetto alla forza di intimidazione”.

Non è chiaro, in questi termini, se l’omertà e l’assoggettamento debbano intendersi come semplici corollari dell’intimidazione[85], come autonomi elementi strutturali (così sembrerebbe indicare la norma, sia pure in rapporto di derivazione) ovvero se l’assoggettamento debba considerarsi come il risultato esterno della forza di intimidazione e l’omertà come un aspetto particolare dell’assoggettamento[86].

Di certo, il primario elemento strutturale della fattispecie rimane l’intimidazione[87].

Si tratta, tuttavia, di aspetti secondari rispetto all’obiettivo prefissato dalla Corte: riportare il precedente nell’alveo della tipicità e della prevedibilità ad evitare pericolose oscillazioni interpretative che disorientano il lettore, ma prima ancora il cittadino.

E così, al termine del giudizio, saggiati i confini della fattispecie, la sentenza sembra tornare ancora una volta, si spera definitivamente, “alle origini” del delitto, ribadendo quale sia il “fatto da provare per una applicazione ragionevole” [88], non estensiva, dell’art.416 bis c.p.

*Avv. Prof. Pietro Pomanti, Straordinario t.d. diritto penale Università G. Marconi di Roma

 

[1] FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al pericolo di intimidazione derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, in Dir. pen. cont. (web), 9.6.2016, 1 ss.

[2] FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al pericolo di intimidazione derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, cit., 21 ss.

[3] FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Bari, 2017,139: “Si è posto e continua a porsi, di conseguenza, il problema se al paradigma normativo della criminalità mafiosa siano interpretativamente riconducibili anche organizzazioni criminali diverse da quelle mafiose secondo l’accezione classica e operanti in contesti territoriali nuovi: emblematica, in questo senso, la vicenda giudiziaria cosiddetta di mafia capitale venuta al vaglio della magistratura romana. Nell’ambito di tale vicenda ampiamente pubblicizzata dai media, la Cassazione ha già avuto occasione di affermare questo principio: ai fini della configurabilità del reato di associazione mafiosa, non è indispensabile che la forza intimidatrice sia diretta (come nel caso delle mafie classiche) a minacciare la vita o l’incolumità delle persone assoggettate”.

[4] VISCONTI, A Roma una mafia c’è. E si vede, in Dir. pen. cont. (web), 15.6.2015.

[5] PIGNATONE-PRESTIPINO, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, in Atlante delle mafie, in CICONTE, FORGIONE, SALES (a cura di), Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura,  vol. III, Soveria Mannelli, 2015, 95-130 con una elencazione specifica dei precedenti giudiziari in tema di mafia sul territorio romano e del Lazio; “Con il tempo, si stanno sempre più affermando forme volute complesse di investimento delle ricchezze mafiose: attraverso la penetrazione di un tessuto socio-economico, nuovo e ricco di potenzialità, come quello romano, famiglie della camorra e cosche della ‘ndrangheta vi stanno esportando interi affari, delocalizzata e più spesso replicando attività quali la commercializzazione delle sostanze stupefacenti ovvero la gestione delle sale gioco e delle slot-machine”.

[6] Cass. VI, 10.4.2015 n. 625 e n.  626.

[7] VISCONTI, La mafia “muta” non integra gli estremi del comma 3 dell’art.416 bis c.p.: le Sezioni Unite non intervengono, la I Sezione della Cassazione fa da sé, in Sistema penale (web), 22.1.2020.

[8] FALCINELLI, Della mafia e di altri demoni. Storie di Mafie e racconto penale della tipicità mafiosa (Spunti critici estratti dal sigillo processuale su Mafia Capitale), in Arch. pen., 2020 n.2, p.2 ss.

[9] TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 167; VISCONTI, A Roma una mafia c’è e si vede, cit.;   FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo d’intimidazione” derivante da un contesto criminale?  Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, cit.,21 e ss.

[10]  In tema, POMANTI, La riconoscibilità della norma penale. Tra conformità al tipo e prevedibilità, Napoli, 2019.

[11] Cass.V, 25 giugno 2003, n. 38412, Rv. 227361; Cass.V, 2 ottobre 2003, n. 45711, Rv. 227994; Cass. II, 11 gennaio 2012, n.4304, Rv. 252205; Cass. V, 5 giugno 2013, nn. 35997–35998-35999; Cass.VI, 26 ottobre 2017, n. 1482; Cass. II, 4 aprile 2017, n. 2485, Rv. 270442.

[12] VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, in Dir.pen.cont. (web), 22 settembre 2014.

[13] Cass. VI, 15 luglio 2015, n. 34874, Rv.264647; Cass. II, 15 maggio 2015, n. 25360, Rv.264120; ed ancora Cass. I, 13 febbraio 2006, n.19141, Rv.234403; Cass.I, 16 maggio 2011, n. 25242, Rv. 250704; Cass. I, n.13635,28 marzo 2012, Rv. 252358; Cass. V, 27 marzo 2014, n. 14582.

[14] CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in ROMANO B. (a cura di), Le associazioni di tipo mafioso, Torino, 2015, 46.

[15] PELISSERO, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Id. (a cura di) Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in AA.VV. Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2010, 282.

[16] Si tratta peraltro di un indirizzo ancora maggioritario: C. Cost. n. 48 del 2015; Cass. VI, 16 settembre 2015, n. 50064, Rv. 265656; Cass. II, 24 aprile 2012, Rv. 254031; Cass. VI, 12 maggio 2016, n. 44667, Rv. 268676; Cass. pen. I, 17 giugno 2016, n. 55359, Rv. 269043; Cass. II, 30 aprile 2015, n. 34147, Rv. 264623) che richiede per l’esistenza del delitto in esame un effettivo e reale controllo del territorio, una intimidazione effettiva ed uno stato di assoggettamento reale: nulla di potenziale, embrionale, virtuale o di riservata violenza.

[17] Cass. I, 16 maggio 2011, n.25242, Rv.250704; Cass.V, 25 giugno 2003, n.38412, Rv. 227361; Cass.V, 2 ottobre 2003, n.45711, Rv. 227994.

[18] MUSACCHIO, “Mafia Capitale” è il simbolo delle metamorfosi mafiose, in www.dirittopenaleuomo.org; POMANTI, Le metamorfosi delle associazioni di tipo mafioso e la legalità penale, Pisa, 2018, 43 ss.

[19]MEZZETTI, I reati contro l’ordine pubblico, in FIORELLA (a cura di), Questioni fondamentali della parte speciale di diritto penale, 3 ed.,Torino, 2019, 484-485, così: “La formula, pur ormai terminologicamente assestata, rimane in qualche misura oscura e manca di sostanza concreta. La determinazione dell’interesse protetto non può, invero, essere lasciata all’esclusiva scelta del legislatore, il quale “può stabilire i modi di tutela ritenuti più efficaci, ma non può creare (nel significato proprio del termine) il bene giuridico” con riferimenti a PATALANO, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971, 130 e FIORE C., Ordine pubblico (dir. pen.) in Enc. Dir., XXX, Milano, 1988; INSOLERA, Sicurezza ed ordine pubblico, in Ind. pen., 2010, 29 e ss.

[20]Infelice formulazione” della fattispecie associativa non “elenca una serie di finalità eterogenee, di cui alcune sono del tutto lecite, altre illecite, altre costituiscono delitto; inoltre, definisce il metodo mafioso con una formulazione ambigua, dalla quale non emerge con dovuta chiarezza se sia richiesta o no la commissione di atti di violenza e minaccia. Tutto ciò rende più complicata l’individuazione del bene tutelato”, così CAVALIERE, L’associazione di tipo mafioso, in MOCCIA (a cura di), Delitti contro l’ordine pubblico, Napoli, 2007, 391.

[21] In questa materia “da sempre politicamente problematica anche per le evidenti allusioni simboliche che promanano dal modello della lotta alla mafia”, così, FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, 19; D’ASCOLA, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale «senza prova», Reggio Calabria, 2012,129; MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1997, 53 ss.; CAVALIERE, I reati associativi tra teoria, prassi e prospettive di riforma, in FIANDACA e VISCONTI  (a cura di), Scenari di mafia, Torino, 2010, 153, in cui: “lo stesso articolo 416 bis c.p. in quanto tale – cioè, si badi, ben distinto dall’enorme apparato repressivo sanzionatorio, procedimentale e penitenziario al quale si collega-deve la sua origine, come fu prontamente rilevato, più alla necessità di superare resistenze culturali alla riconduzione delle associazioni mafiose all’associazione per delinquere che a reali necessità tecniche”.

[22] CAVALIERE, Associazione di tipo mafioso, cit., 390 e ss. inteso in senso tradizionale come “intreccio tra repressione prevenzione”; MEZZETTI, I reati contro l’ordine pubblico, cit., 383.

[23] DE FRANCESCO, Associazione per delinquere associazione di tipo mafioso, in Dig. Pen., Torino, 1987, 290.

[24] VALIANTE, L’associazione criminosa, Milano, 1997, 276.

[25] Sulla configurabilità dell’associazione di tipo mafioso come reato di danno per la pubblica tranquillità cfr. DE VERO, Tutela dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico criminale, Milano, 1988, 290.

[26]In tema CAVALIERE, Associazione di tipo mafioso, cit., 393.

[27] FIANDACA – MUSCO, Diritto penale.Parte speciale, vol.I, 4 ed., Bologna, 2007, 470;

[28] SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 103.

[29] FALCINELLI, Della mafia e di altri demoni. Storie di Mafie e racconto penale della tipicità mafiosa (Spunti critici estratti dal sigillo processuale su Mafia Capitale), cit., p.4; sempre sul tradimento della legalità, cfr. RAMPIONI, Del c.d. concorso esterno. Storia esemplare di un «tradimento» della legalità, Torino, 2018, 97 ss.

[30] Pag.282 nella sentenza in commento.

[31] “(…) espressione che nei Sommersi e i salvati di Primo Levi designa quella zona dai contorni mal definiti che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni dei servi (…)”, in DALLA CHIESA, Manifesto dell’Antimafia, Torino, 2014, 40 con riferimento a LEVI, I sommersi e i salvati, Torino, 1986.

[32] SIRACUSANO F., La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, in Arch. Pen., 2016, 108 e ss.

[33] Sul punto VISCONTI, “La mafia è dappertutto” Falso, Bari, 2016, 37 e ss.; FORNARI, ARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al pericolo di intimidazione derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, cit., 3: “Fin qui, l’incrementata presenza di ‘colletti bianchi’ nell’area della criminalità mafiosa può essere intesa come il significato fisiologico di un’evoluzione delle modalità operative delle associazioni criminali e, come tale, destinato ad essere registrato dall’applicazione dell’art. 416 bis c.p..”.

[34] Cfr. in tema PAOLONI, Il ruolo della borghesia mafiosa nel delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Un esempio della perdurante validità delle Sezioni Unite “Mannino“, in Cass. pen., 2015, 1397 ss.; FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo d’intimidazione” derivante da un contesto criminale?  Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, cit., 2 ; SIRACUSANO F., La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, cit., 115, in cui “l’area grigia è, quindi, il luogo ideale in cui si sviluppano i rapporti di complicità tra soggetti esterni all’organizzazione criminale e i membri dell’associazione, la zona nella quale si instaurano vincoli affaristici e legami di solidarietà tra il colluso e gli appartenenti al sodalizio, il territorio dove consolida il proprio ruolo la “borghesia mafiosa”.

[35]ANNICCHIARICO, Associazione mafiosa. Profili giuridici e storico-criminologici, Bari, 2006, 33. Nella vastissima letteratura in tema, difatti, alle definizioni di vecchia e nuova mafia, si sovrappongono ulteriori nozioni di mafia talvolta intesa come organizzazione segreta o come comportamento, altre volte come mafia rurale, mafia urbana, mafia imprenditrice e mafia finanziaria.

[36] PIGNATONE-PRESTIPINO, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, cit., 126-127.

[37] PIGNATONE- PRESTIPINO, Modelli criminali, mafie di ieri e di oggi, Bari-Roma, 2019, 141 ss.; 166 ss.

[38] Così FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al pericolo di intimidazione derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale, cit., 3

[39] FIANDACA, Mafia capitale: metodo mafioso e metodo corruttivo non vanno sovrapposti, in Foro it. (web), 26 giugno 2020

[40] Cfr., in tema PIGNATONE-PRESTIPINO, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, cit., 95 e ss.

[41] “(…) è sintomatico il persistere di forti resistenze giurisprudenziali, anche di recente, a ricondurre sotto paradigmi criminosi forme di contiguità compiacente da parte di politici, imprenditori o professionisti -cioè da parte di esponenti di quella che, nel corso del secolo scorso, veniva etichettata come “alta mafia” o “mafia in guanti gialli”. Non è invero da escludere che questo eccesso di self-restraint giudiziale possa essere dovuto, almeno in parte, al persistente radicamento di stereotipi culturali di tipo immunizzante” in FIANDACA, Riflessi penalistici del rapporto mafia- politica, in Foro It., 1993, 5, 137; FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro It., 1991, 2, 472.

[42] Con precedenti anche risalenti, Cass.VI, 10 giugno 1989 n.11204, Rv.181948 richiamata da Cass. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, ove si prospetta la configurabilità di un’associazione – in realtà non tanto piccola –  per lo più composta da pubblici ufficiali, originari o comunque residenti in una determinata regione, almeno 19 imputati in Cassazione, che avevano sfruttato la loro posizione ed il potere derivante dalle cariche rivestite per commettere non solo concussioni per acquisire la gestione il controllo, diretto o indiretto di appalti pubblici e di varie attività economiche ma anche estorsioni aggravate. Risultavano anche imputazioni per disastro doloso e detenzione di esplosivo.

[43] cfr. giurisprudenza alla nota 13.

[44] cfr. giurisprudenza alla nota 16.

[45] Cfr. giurisprudenza nota 17.

[46] VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, in Dir.pen.cont. (web), 22 settembre 2014.

[47] Cfr. giurisprudenza nota 1; sulle nuove mafie, MANNA-DE LIA, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una pronuncia della Cassazione, in Arch.pen., 2020, n.1, p.2 ss.

[48] CARUSO, Struttura portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, cit., 66.

[49] Cass.V, 3 marzo 2015, n. 31666; cfr. decisioni gemelle in materia cautelare Cass.VI, 10 marzo 2015, nn. 24535 – 24535; cfr. in tema PIGNATONE-PRESTIPINO, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, cit., 95 e ss.

[50] Voce assoggettamento, Vocabolario Treccani, www.treccani.it

[51] SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, cit., 37; INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano,1993, 75.

[52] Così, DE FRANCESCO, voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., 309

[53] ANNICCHIARICO, Associazione mafiosa. Profili giuridici e storico-criminologici, Bari, 2006, 38.

[54]Aventi funzioni inquirenti giudicanti e derivante dalla paura che si nutre nei confronti del sodalizio criminoso operante, dal quale si sia subita una prevaricazione, ovvero del quale si conoscono aspetti penalmente rilevanti, ovvero sul quale si sia chiamati a riferire ciò che si sa”, così TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., 164.

[55] Sulla formulazione normativa dell’art.416 bis c.p. caratterizzata da “un ampio alone di indeterminatezza e vaghezza anche in ragione della prevalente connotazione a carattere sociologico-ambientale dei principali elementi identitari che il legislatore ha prescelto per definire l’associazione mafiosa”, FIANDACA, Mafia capitale: metodo mafioso e metodo corruttivo non vanno sovrapposti, cit.

[56] Sulla ricostruzione della tipicità “rafforzata” dell’art.416 bis c.p. nella sentenza in commento, cfr. AMARELLI-VISCONTI, Da “Mafia Capitale” a “Capitale corrotta”. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, in Sistema penale (web), 18.6.2020

[57] Par. IV. I reati associativi, punto 1.1, da pag.281 nella sentenza in commento, testualmente : “il dato letterale della norma è chiaro: da una parte, viene descritta una tipicità già nota perché derivante da contesti criminali conosciuti – la mafia siciliana – , dall’altra è tratteggiato un modello fluido a cui è possibile attingere ogni qual volta si sia in presenza di una criminalità organizzata che, per caratteristiche strutturali e, come si dirà, per il metodo impiegato nel suo agire, sia in grado di sprigionare qualitativamente una carica offensiva del tipo di quella caratterizzante i contesti già noti”.

[58] VOGLIOTTI, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia nel diritto penale, Torino, 2011, 113 e ss.

[59] FIANDACA, Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, Napoli, 2008; DONINI, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in Dir. Pen. Cont., n. 3/2016; CADOPPI (a cura di), Cassazione e legalità penale, Roma, 2017; PALAZZO-VIGANO’, Diritto penale. Una conversazione, Bologna, 2018, 76.

[60] PALAZZO-VIGANO’, Diritto penale. Una conversazione, cit., 76.

[61] MANNA, Corso di diritto penale, parte generale, 5 ed., Milano, 2020, 59.

[62] Sul tema, CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 2014.

[63] Così, DONINI, Populismo e ragione pubblica. Il post-illuminismo penale tra lex e ius, Modena, 2019, 52; FERRAJOLI, Contro il creazionismo giudiziario, Modena, 2018, 10-11

[64] FIANDACA, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa (web), 6 maggio 2020

[65] SGUBBI, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi. Bologna, 2019,28 “Invero, l’illecito penale, privo di un solido ancoraggio nella legge, fluttua nella vita sociale in balìa di forze eterogenee

[66] RAMPIONI, Dalla parte degli ingenui. Considerazioni in tema di tipicità, offesa e c.d. giurisprudenza “creativa”, Padova, 2007, 49 ss. a proposito del “sistema senza fattispecie

[67] POMANTI, La riconoscibilità della norma penale. Tra conformità al tipo e prevedibilità, cit.,118 ss.

[68]   cfr. in tema VOGLIOTTI, Dove passa il confine, sul divieto di analogia nel diritto penale, cit., 83.

[69] MANES, Corruzione senza tipicità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, 1127 e ss.; GIOSTRA, Intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto di Ancona, in Dir. Pen. Cont. (web), 27.1.2014, 4: “Qualsiasi disposizione, anche la più genericamente formulata, ha un “carapace semantico” da cui non può evadere senza diventare altro da sé; vi è sempre almeno un significato incompatibile con il senso fattoi palese dalle parole. Se le si dà questo significato non la si interpreta, ma la si “abroga” e si crea un’altra norma

[70] DONINI, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n.4/2018, 20.

[71]Insomma, un “cavallo” non potrà mai essere un “leone”, anche se sarà il contesto a dirci se si tratta di un animale o di un attrezzo da ginnastica”, PALAZZO-VIGANO’, Diritto penale. Una conversazione, cit., 80.

[72] CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, cit., 26.

[73] In tema, DI GIOVINE, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Milano, 2006.

[74] DI GIOVINE, “Salti mentali” (analogia e interpretazione della legge penale), in Questione Giustizia, n.4,2018, 57 ss.

[75] nel senso che possono effettuarsi salti ermeneutici ma sempre con “la rete”, per non tradire la legalità; in tema, DI GIOVINE, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), cit., 57 ss.

[76] Pag.282 nella sentenza in commento.

[77] Sulla configurabilità del delitto come reato di danno “giacché ai fini del perfezionamento della fattispecie è necessario che intervenga quantomeno un pregiudizio all’ordine pubblico materiale, in dipendenza della lesione arrecata alla libertà morale (di coloro che sono in stato di soggezione) e, verosimilmente, all’amministrazione della giustizia (a causa dell’atteggiamento omertoso della collettività)”, MEZZETTI, I reati contro l’ordine pubblico, cit., 518.

[78] Cass. VI, 20 ottobre 2015, n.3027; nello stesso senso, Cass. V, 25 giugno 2003, n. 38412, Rv. 227361; Cass. V, 2 ottobre 2003, n. 45711, Rv. 227994, così alla pag.282 nella sentenza in commento.

[79] Pag.284 nella sentenza in commento.

[80] Sul contesto “soggettivamente ed oggettivamente ridotto”, cfr.  pag. 293 nella sentenza in commento.

[81] Così pag.288 nella sentenza in commento; cfr. in tema VISCONTI, “La mafia è dappertutto. Falso!”, Roma-Bari, 2016.

[82] Così pag. 295 nella sentenza in commento.

[83] Pag.293 nella sentenza in commento; ma anche a pagg.291 e 290.

[84] Pag.284 nella sentenza in commento.

[85] FIANDACA, Commento all’art.1, l. 13 settembre 1982, n. 646, in Leg. Pen., III, Torino, 1983, 260.

[86] TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., 133.

[87] NEPPI MODONA, Il reato di associazione di tipo mafioso, in Dem. e dir., 1983,4, 41-48; FIANDACA, Commento all’art.1, l. 13 settembre 1982 n. 646, cit., 260.

[88] VISCONTI, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art.416 bis alle associazioni criminali autoctone”, in Sistema penale (web), 24.3.2020.