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COME IL MUGNAIO DI SANS-SOUCI ALLA INFINITA RICERCA DI GIUSTIZIA – Nota a Cassazione penale sez. III, 16/09/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 09/11/2020), n. 31196 – DI MARIO GRIFFO

COME IL MUGNAIO DI SANS-SOUCI ALLA INFINITA RICERCA DI GIUSTIZIA – Nota a Cassazione penale sez. III, 16/09/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 09/11/2020), n. 31196 – DI MARIO GRIFFO

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COME IL MUGNAIO DI SANS-SOUCI ALLA INFINITA RICERCA DI GIUSTIZIA

Nota a Cassazione penale sez. III, 16/09/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 09/11/2020), n. 31196

di Mario Griffo *

L’indagato non ha diritto ad estrarre copia del fascicolo trasmesso dal pubblico ministero al tribunale del riesame. È questa la lapidaria affermazione di diritto con la quale la Corte di cassazione ha liquidato le doglianze difensive con le quali era stata eccepita, tra l’altro, la nullità della procedura attivata ai sensi dell’art. 324 c.p.p. Non stupisce affatto la articolazione della decisione annotata, incentrata sulla algebrica ponderazione di (alcuni) “precedenti conformi”, e neppure l’asserto a mente del quale l’incameramento degli atti sarebbe surrogabile con la “copia informale” degli stessi. Colpisce, viceversa, il sedimentarsi del generale contesto nel quale è maturata la pronuncia. Dopo la riconosciuta primazia delle conclusioni del consulente tecnico del pubblico ministero e lo svilimento della nullità assoluta contemplata al comma 2 dell’art. e 525 c.p.p., ancora una volta il Giudice di legittimità sancisce l’arretramento delle prerogative difensive; e lo fa attraverso la ostensione di un atteggiamento culturale pienamente sintonico con le spinte inquisitorie che hanno ispirato i recenti progetti di riforma del codice di rito, e non solo.  

Sommario: 1. Il denegato accesso al fascicolo del riesame. – 2. La primazia della consulenza del pubblico ministero: una visione paternalisticamente inquisitoria. – 3. Lo svilimento della oralità nelle posizioni delle Sezioni Unite. –  4. Una presa di posizione irragionevole e lesiva delle prerogative (difensive) cautelari. 5. La progressiva erosione della legalità processuale.

 

  1. Il denegato accesso al fascicolo del riesame.

In seno ad un procedimento penale attivato per i reati di cui agli artt. 452-quaterdecies c.p. e 259 d.lgs. n.152 del 2006, il pubblico ministero presso il Tribunale di Bologna disponeva il sequestro probatorio di taluni documenti, ritenuti dirimenti ai fini della prosecuzione dello sviluppo delle indagini.

Avverso tale provvedimento veniva proposto riesame ed in vista della celebrazione della udienza in camera di consiglio l’indagato (anche a mo’ di delegato del difensore di fiducia) si recava presso la cancelleria del competente Tribunale del Riesame e richiedeva di copia del fascicolo trasmesso dalla A.G. procedente.

Tale richiesta veniva rigettata, alla stregua del (successivo) riesame celebratosi ai sensi dell’art. 324 c.p.p.

Da tanto il ricorso al Giudice di legittimità.

In ispecie, il difensore proponente deduceva la violazione degli artt. 324 e 127 c.p.p., in relazione all’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. poiché all’indagato, sia personalmente, sia quale delegato del difensore, gli era stata negata la possibilità di estrarre copia degli atti del procedimento, e ciò in contrasto con il disposto dell’art. 116 c.p.p., secondo cui chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio, a proprie spese, di copie degli atti.

In via subordinata, si eccepiva “la legittimità costituzionale dell’art. 324 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui la norma fa riferimento al solo difensore come soggetto legittimato a chiedere e a ricevere copia degli atti, risolvendosi in una ingiustificata disparità di trattamento tra i diritti dell’indagato e del difensore e provocando una lesione del diritto di difesa, gravemente compromesso dall’impossibilità anche per l’indagato di conoscere il materiale probatorio raccolto a suo carico nel corso delle indagini”.

Prima di enunciare ed analizzare le conclusioni alle quali è giunta la Corte di cassazione si reputa doveroso descrivere il contesto storico-ordinamentale nel quale le stesse sono maturate.

  1. La primazia della consulenza del pubblico ministero: una visione paternalisticamente inquisitoria.

Gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente del pubblico ministero rivestono una “valenza probatoria” non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio.

Questo è quanto affermato dalla sentenza 18 febbraio 2020, n. 16458[1], della Terza Sezione Penale della Corte di cassazione in una vicenda di abuso edilizio conclusasi nel merito con la condanna della ricorrente, valorizzando sul piano probatorio gli esiti degli accertamenti condotti dal consulente del pubblico ministero rispetto a quelli del consulente della difesa.

Trattasi di decisione senza dubbio sorprendente, e non soltanto per lo sfregio arrecato ai fondamentali principi in materia probatoria e del “giusto processo” in generale.

Invero, la soluzione del thema decidendum era agevolmente conseguibile sulla scorta degli ordinari criteri di valutazione della prova, senza la ostensione di così marcate inclinazioni inquisitorie.

Come accennato, nel caso di specie, si fronteggiavano le opposte valutazioni del consulente del pubblico ministero e della difesa in ordine alla sussistenza di un abuso edilizio, la cui definizione era sostanzialmente ancorata al controllo di dati meramente fattuali inerenti all’ampliamento o meno di un manufatto edilizio ed alla sua trasformazione della pianta dalla forma rotonda in quella ovale.

In definitiva, la soluzione del tema controverso non comportava scelte particolarmente complesse ma, unicamente, la verifica della rispondenza fattuale del manufatto ai criteri prospettati dall’accusa; o, viceversa, la fondatezza dei rilievi sollevati dalla difesa. Detto altrimenti, il semplice raffronto degli elaborati tecnici con la documentazione in atti era idoneo a risolvere il contrasto tra le due contrapposte consulenze, senza ricorrere a principi del tutto avulsi dal nostro ordinamento processuale[2].

Nonostante ciò, il Giudice di legittimità ha avvertito la necessità di puntualizzare che le conclusioni del consulente del pubblico ministero “…pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa… il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità – concretamente raggiungibile attraverso un’indagine completa in fatto e corredata da indicazioni scientifiche espressive di competenza e imparzialità – dovendosi necessariamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni…l’elaborato del pubblico ministero pur non potendo essere equiparato alla perizia del giudice del dibattimento, è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quello del consulente tecnico della parte privata”.

Ora, che il pubblico ministero non svolga attività “di natura giurisdizionale”, che non operi per la ricerca della verità e che non sia “parte imparziale” paiono postulati alquanto scontati, sebbene posti a fondamento della opinabile decisione della Suprema corte.

Meno scontata la premessa “politica” che ha fatto da sfondo alla pronuncia in disamina: la bastevolezza dell’agire investigativo del pubblico ministero (anche) ai fini dell’assolvimento degli oneri difensivi, e perfino di quelli giurisdizionali.

Una visione paternalistica, di matrice inquisitoria, della quale si rinviene traccia anche in recenti pronunce del Giudice delle leggi. Eloquente, in tal senso, un passaggio contenuto nella decisione con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità sollevate dai Tribunali di La Spezia, Napoli e Piacenza circa la inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo[3]. “Il legislatore ha voluto assicurare, per i reati più gravi previsti dall’ordinamento, la celebrazione di un processo pubblico davanti a una corte d’assise e non a un giudice monocratico…Il principio della pubblicità del processo, specialmente per i reati più gravi, costituisce infatti non solo una garanzia soggettiva per l’imputato, ma anche un connotato identitario dello Stato di diritto, a tutela dell’imparzialità e obiettività dell’amministrazione della giustizia, sotto il controllo dell’opinione pubblica”.

Un ritorno, insomma, alla idea istitutiva del “giudice istruttore” – che, in chiave moderna, diventa pubblico ministero, istruttore e dominus – bastevole, in quanto tale, a sé stesso, al punto da rendere pletorica la difesa.

Giova rammentare, in proposito, che l’art. 299 del codice del 1930, nell’imporre “l’accertamento della verità”, rappresentava la norma emblematica per inferire la filosofia di quel sistema. Affidando al giudice istruttore il compito di raccogliere gli elementi di prova ed attribuendo gli stessi poteri al pubblico ministero (art. 391, in rapporto agli artt. 389 segg. c.p.p. 1930) ed alla polizia giudiziaria (artt. 224 segg. e 231 segg. c.p.p. 1930), si frantumava il procedimento probatorio, ritenendolo essenziale e valido indipendentemente dal contraddittorio e dalla presenza del soggetto destinatario del giudizio.

Ergo, il codice del 1930 non concepiva la difesa nel senso di funzione processuale[4] e, dunque, ne pregiudicava il corretto esercizio nella fase istruttoria[5].

E ciò perché il processo varato con il codice del 1930 era costruito all’insegna di una sistematica disparità tra accusa e difesa[6].

Ed invero, ricostruendo la definizione di difesa quale “funzione dialetticamente contrapposta all’accusa” che l’imputato (autodifesa) e il suo difensore (difesa tecnica) esercitano di fronte ad un giudice imparziale, essa nasce proprio dal desiderio di dissipare l’equivoco, alimentato dalla cultura del 1930, «di accreditare – o per lo meno di non screditare – l’idea che la difesa possa efficacemente esercitarsi in ogni struttura, quale che sia il sistema dei rapporti tra fasi e tra funzioni del processo (accusatorio, inquisitorio, misto secondo  i tre noti archetipi); e che ai fini della difesa conti, non tanto la scelta dell’uno o dell’altro modello, quanto,  l’individuazione delle garanzie ad esso congeniali»[7].

Peraltro, il fine stesso di quel processo – orientato, come accennato, alla ricerca della verità reale (o materiale) – necessariamente relegava la difesa ad un ruolo subalterno, dal momento che l’accertamento probatorio era l’avvenimento istruttorio affidato al giudice (appunto istruttore)[8].

Tutto questo ridonda nelle affermazioni del giudice di legittimità con le quali si è conferita preminenza agli asserti del consulente del pubblico ministero rispetto a quelli dell’esperto nominato dalla difesa; viepiù, risalta dalla lettura di altre, recenti, decisioni adottate dalla Suprema corte, quasi a voler rimarcare la “superfluità” delle prerogative difensive, in ragione di quelle riconosciute alla “parte pubblica” e, in ogni caso, all’organo giurisdizionale.

In tale, ultima, direzione, il pensiero va alla (più nota) “sentenza Bajrami”[9].

  1. Lo svilimento della oralità nelle posizioni delle Sezioni Unite.

Le Sezioni unite della Corte di legittimità, sollecitate dalla sesta Sezione con ordinanza n. 2977 del 2019, hanno affrontato l’ampio tema delle regole che il giudice (o la nuova composizione collegiale) subentrante al precedente deve osservare per una corretta rinnovazione del dibattimento, imposta dall’art. 525, comma 2, c.p.p., secondo cui alla deliberazione della sentenza concorrono i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento, a pena di nullità assoluta.

Questi, in estrema sintesi, i principi affermati dal Supremo consesso nomofilattico: “Il principio d’immutabilità del giudice impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l’ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati; l’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa; il consenso delle parti alla lettura degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile”.

Le riportate affermazioni di diritto impongono adeguate riflessioni.

Nel codice di procedura penale elaborato nel 1988 non è dato rinvenire alcuna previsione che rimandi, esplicitamente, al “contraddittorio”. Neppure nella legge delega figurava tale espressione, a dispetto di un altro valore: l’oralità.

Esso doveva costituire il baluardo irrinunciabile del processo penale, giammai barattabile in nome di istanze emergenziali ovvero securitarie. Non casualmente, una delle disposizioni di attuazione del codice del 1988 disciplina (persino) la logistica dell’aula di udienza dibattimentale. Si tratta dell’art. 146 (per l’appunto, delle norme di attuazione) ove si prevede: “nelle aule di udienza per il dibattimento i banchi riservati al pubblico ministero e ai difensori sono posti allo stesso livello di fronte all’organo giudicante”. La chiusura è emblematica: “Il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”.

Detto questo, al di là di suggestioni estetico-architettoniche, volendo ricorrere ad enunciato per nulla eufemico, anzi degradante nel vernacolo, il legislatore ha preteso che il giudice e le parti “devono guardare in faccia” la fonte dichiarativa (in un luogo specifico che è, non a caso, l’aula di udienza).

Soltanto in questo modo, ipostatizzandosi i valori della “immediatezza” e, per l’appunto, della “oralità” il giudice può (deve!) formare il suo libero convincimento in maniera genuina, cogliendo gli elementi non verbali della comunicazione e saggiando i non secondari dati extralinguistici di cui essa si compone.

Si dirà: è questa la liturgia del contraddittorio; è questo l’inverarsi del mistero del processo, unico strumento capace di far rivivere accadimenti allocati in un contesto cronologico ormai esaurito. Per dirla con il compianto Cordero il processo penale “è mistero e teatro”[10].

Eppure, i rammentati canoni supremi, che avrebbero dovuto conferire democraticità, prima che regalità garantista, al nuovo prodotto codicistico sono stati spazzati via non tanto e non solo dai noti rigurgiti inquisitori di inizio anni ’90 ma, soprattutto, dalla decisione delle Sezioni unite oggetto della presente disamina, spartiacque irrefutabile del passaggio dal processo parlato al processo “cartolare”.

Tale sentenza, per prima ed a prescindere dalla tanto discussa remotizzazione (espressione lessicale davvero infelice) del processo, ne ha mortificato i connotati di essenza. Le prassi, le lungaggini processuali, le esigenze di smaltimento dei carichi giudiziari hanno seppellito la portata letterale dell’unica disposizione codicistica (l’articolo 525 c.p.p.) per la quale Gian Domenico Pisapia aveva preteso, non casualmente, la suprema nullità: quella assoluta.

C’è un passaggio significativo di questa decisione che merita di essere posto in risalto, al di là degli aspetti più propriamente tecnici ad essa sottesi: “…nei trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale, i dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza costituiscono l’eccezione ad una regola rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni: in una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo”.

Ecco il salto culturale, ormai non più emendabile; ecco la proiezione ideologica verso la burocratizzazione dell’accertamento tale da elidere i canoni informatori del modello accusatorio e da svilire la ritmica e le pulsioni del processo “costituzionalmente orientato”, sotto i colpi di un sentimento inquisitorio supportato da una giurisdizione pervasa da una visione proprietaria e da una “piazza” inneggiante all’etica della giustizia.

Al cospetto di tutto questo, il processo “telematico” (espressione preferibile a quella “da remoto”) costituisce inezia dalla portata quasi risibile.

Non c’era affatto bisogno del processo “da lontano” per estromettere la difesa dall’accertamento, il dado è stato già tratto in epoca pre-pandemica; i decreti “ristori” e “cura Italia” hanno fatto il resto.

 

  1. Una presa di posizione irragionevole e lesiva delle prerogative (difensive) cautelari.

Come si accennava in premessa, è in questo contesto che la Corte di cassazione prende posizione (anche) sul diritto dell’indagato ad ottenere copia del fascicolo procedimentale trasmesso al giudice del riesame.

Si è già detto dell’antefatto storico costituente la scaturigine della pronuncia; di seguito i passaggi salienti del decisum della Corte rispetto alle specifiche doglianze articolate con il ricorso proposto ai sensi dell’art. 325 c.p.p.

A parere del Giudice di legittimità, innanzitutto, il ricorrente avrebbe dovuto puntualmente indicare “in che misura e per quale motivo l’impossibilità per l’indagato di estrarre personalmente copia degli atti del procedimento abbia concretamente nuociuto all’esercizio dei diritti di difesa”. Egli, in altri termini, avrebbe dovuto palesare “il concreto pregiudizio che ne è derivato dal diniego, da parte del Presidente del Tribunale del riesame, ai sensi dell’art. 116 c.p.p., di estrarre copia degli atti di indagine, ma anche non di esaminare detti atti ovvero di estrarre copia informale”.

In ogni caso, nelle procedure di “riesame” non sussisterebbe un diritto della parte interessata ad ottenere de plano copia degli atti di indagine, anche perché i diritti della difesa risulterebbero comunque “tutelati adeguatamente dalla possibilità di esaminare gli atti depositati in cancelleria e, quindi, di estrarne copia informale, mentre il riconoscimento di un diritto in senso tecnico ad ottenere copia degli atti del procedimento, oltre ad essere escluso dalla lettera della legge, urterebbe contro lo stesso interesse dell’indagato a una rapida decisione in ordine al suo status libertatis”.

Bisogna, insomma, rassegnarsi: rispetto alla procedura di riesame la difesa, al massimo, può incamerare “copie informali”, non avendo diritto ad estrarre copia del fascicolo trasmesso dal pubblico ministero.

In cosa consista, poi, la “copia informale” è tutto da scoprire; forse in una mera annotazione di “appunti” a seguito della visione del fascicolo? Oppure in una copia non assistita dal necessario e dovuto pagamento dei diritti di cancelleria?

Arduo stabilirlo!

Ad ogni buon conto, si potrebbe obiettare che la pronuncia in commento rinviene “precedenti conformi”, anche piuttosto recenti[11]. Di converso, potrebbe argomentarsi nel senso che soltanto qualche mese prima della adozione della stessa la Suprema corte si è pronunciata in maniera “difforme”[12].

Orbene, non è la algebrica quantità di decisioni, adesive o difformi, che si rinvengono sul tema ad agevolare la soluzione della quaestio posta. La problematica, all’evidenza, è di portata più ampia: è di rinnovato approccio culturale al processo penale.

Stupisce, a tal uopo, la distonica presa di posizione del Giudice di legittimità rispetto alla affermazione di diritto resa in tema di convalida dell’arresto o del fermo.

Non più tardi del 2010, infatti, si sanciva il diritto ad estrarre copia degli atti su cui fonda la richiesta di convalida e di applicazione della misura cautelare: “il denegato accesso a tali atti determina una nullità di ordine generale a regime intermedio dell’interrogatorio e del provvedimento di convalida, da ritenersi sanata se non eccepita nel corso dell’udienza di convalida”[13].

Da tanto la ancor più irragionevole conclusione circa il diniego alla estrazione di copia del fascicolo in caso di procedura di riesame, a maggior ragione se si considera che lo specifico rimedio in trattazione, assicurando un “contraddittorio” – cartolare – successivo e, dunque, una ri-valutazione postuma del provvedimento impositivo della cautela, realizza l’oggettivazione della giurisdizione.

È questa, invero, l’istanza che conduceva, già attraverso la l. 12 agosto 1982, n. 532, ad introdurre nell’ordinamento processuale penale un istituto inedito indicato come “richiesta di riesame”.

Sicché, se il provvedimento del giudice procedente costituisce un momento provvisorio, anticipativo della misura, per assicurare a questa gli effetti propri, il riesame diventa l’ultimo atto – eventuale – di un provvedimento a formazione progressiva; in questo senso si può dire che il procedimento di riesame giurisdizionalizza, nel modo, il provvedimento impositivo della cautela.

Stante tale natura del procedimento di riesame, è chiaro che esso si esplica – sul provvedimento a quo – attraverso l’immissione del collegio giudicante nei poteri spettanti al giudice emittente e della difesa nelle condizioni di controdedurre cognita causa incamerando la integralità del carteggio sul quale si è appuntata la statuizione cautelare (“provvisoria”).

Non a caso, scevro da condizionamenti connessi ai limiti cognitivi posti dalla devoluzione “parziale”, il tribunale del riesame adotterà le proprie determinazioni secondo un angolo prospettico speculare a quello dal quale aveva tratto scaturigine il provvedimento limitativo della libertà personale. E se questo è stato adottato all’esito di udienza di convalida all’esito di una partecipazione “piena” della difesa[14].

La lettera del comma 5 dell’art. 309 c.p.p. è eloquente nel palesare come la verifica – di merito e di legittimità – del tribunale del riesame debba appuntarsi proprio su quel materiale che aveva determinato l’adozione dell’ordinanza cautelare.

Detto altrimenti, la limitazione cautelare consegue ad un provvedimento adottato inaudita altera parte sulla scorta di una valutazione unilaterale sulle deduzioni formulate dal rappresentante della pubblica accusa, per cui il procedimento disciplinato dall’art. 309 c.p.p. costituisce un rimedio – e non un’impugnazione – riconosciuto al fine di consentire la realizzazione del controllo successivo – ed eventuale – in favore del soggetto sottoposto a limitazione cautelare.

Ergo, trattandosi di uno strumento predisposto per “sanare” il deficit di contraddittorio caratterizzante il provvedimento genetico applicativo della cautela, esso potrà esplicarsi soltanto attraverso il riconoscimento all’indagato della cognizione piena degli atti per i quali è stata operata la discovery parziale ad opera del pubblico ministero[15].

Sono queste constatazioni sulla funzione dell’istituto a disvelare la irrazionalità della pronuncia alla quale sono dedicate le presenti note, decifrabile soltanto nell’ottica della graduale ed inarrestabile erosione delle prerogative difensive, attraverso la azione congiunta della Corte di cassazione e del legislatore[16].

È innegabile, in tale direzione, che la pulsione convulsa verso la moralizzazione della giustizia, a mo’ di ossimoro culturale, sta prevalendo sulla liturgia sacrale del processo, piegandolo alla logica ed alle esigenze della Pubblica accusa. Per cogliere la portata della affermazione, bisogna calare l’arresto giurisprudenziale analizzato nel contesto processuale moderno, guardando al sistema nel suo complesso e rifuggendo dalla tentazione di conferire portata dirimente agli ultimi – gli ennesimi – progetti di riforma.

 

  1. La progressiva erosione della legalità processuale.

Profilo dimostrativo della cennata “caduta” valoriale che la storia contemporanea manifesta, e di cui è esempio emblematico la sentenza annotata, calcando la diversità dei tratti che ciascuna epoca porta in sé, è fornito dal dominio della giurisprudenza sulla procedura e dalla egemonia delle prassi sul processo; situazione che apre al giurista nuovi orizzonti rispetto alla legge, avendo essa perso la natura di “opzione regale” per diventare prodotto “imperfetto”.

Ed allora, in epoca di legalità la filosofia del garantismo rende inefficace la tutela della persona ed ineffettiva la giurisdizione; il giurista non può limitare la sua opera a mere esercitazioni interpretative. Egli, viceversa, è chiamato a compiti “rivoluzionari” di ripristino dei valori della democrazia in materia di giurisdizione e di indirizzo del legislatore su nuove sponde garantiste, quelle capaci di coniugare la efficienza del sistema e la efficacia dei diritti e, quindi, di costruire un equilibrato bilanciamento tra tutela delle situazioni soggettive protette e stabilità sociale[17].

Su questo terreno gli umori politici dei diversi periodi storici svelano la modernità dell’esperienza contemporanea e collocano il tema-procedura sul doppio fronte culturale e legale, necessariamente intersecati.

E però, la situazione intellettuale coinvolge il giurista sul versante politico, per taluni aspetti ancora offuscato dal clima illuministico che sembra averlo escluso dagli ambiti di intervento dei poteri pubblici.

Il fronte sistemico, dal canto suo, esprime l’innegabile “debolezza” della legalità, non la colloca più nel versante del dominio della legge, avendo assunto essa il significato di premessa ordinante le discipline del processo comunque affidate, per il diritto, alle interpretazioni giudiziarie e, per la loro realizzazione, alle prassi operanti nella giurisdizione.

Dunque, sono questi i paradigmi da considerare per cogliere, appieno, le matrici delle distorsioni prasseologiche che stanno segnando la nostra epoca, evidentemente da correggere per ripristinare un sistema democratico di giustizia, anche perché in questa più ampia e complessa dimensione contemporanea la “legalità” diventa metodo e non fine.

Essa, oggi, esprime la gestione dei rapporti tra la legge e la sua interpretazione, rectius: tra luogo della decisione politica e luogo della realizzazione giuridica dei diritti.

La considerazione rimanda alla gestione delle regole per il potere di creare diritto che fissa, in orizzontale, il rapporto tra legge e giudice.

La storia, infatti, insegna che la Giustizia è problema di Democrazia[18]; che, in particolare, l’evoluzione del processo penale, indipendentemente dalle fonti, descrive il passaggio da strumenti oppressivi a metodi di accertamento dialettico; che la Procedura penale è l’incedere delle garanzie, l’insinuarsi delle forme di tutela dell’individuo nel processo penale, il divenire soggetto della persona, prima che oggetto del processo.

Con queste premesse è possibile affrontare, razionalmente, i fenomeni di cui appare più evidente la “degenerazione”, indipendentemente dalla comparazione sistemica con altre esperienze giudiziarie, che sembrano avere “influenzato” le relative discipline processuali.

Si vuole dire, insomma, che le recenti derive giurisprudenziali hanno radici lontane!

L’asserto richiede una riflessione ulteriore.

Col tempo, ed a cagione di vicende significative, quale quella – per l’appunto – descritta, si è scoperto un doppio circuito della legalità.

La Costituzione ha affievolito il suo ruolo di “regola di comportamento” per diventare, progressivamente, “limite” all’opera del legislatore e del giudice, per le poche occasioni in cui  il primo si interessa del sistema penale, ormai appannaggio dell’uso “spregiudicato” della decretazione d’urgenza, e per le infinite evenienze nelle quali il giudice è chiamato a vagliare i rapporti tra le Corti (anche sovranazionali) in un’epoca in cui  il “diritto vivente” sembra avere assunto “valore costituzionale”[19].

La genesi della crisi è in questo “allentamento” del principio cardine del sistema di civil law; meglio, nella incompresa trasformazione dei rapporti tra legge e giudice, mediati dalla tutela dei valori costituzionali e convenzionali. Infatti, se l’interpretazione conforme esalta il ruolo “politico” del giudice ed i bisogni di controllo diffuso sulle leggi, certamente allenta il segno di rigida legalità su cui il sistema sembrava costruito, a favore di una “duttilità ermeneutica” di maggior pregio e di più spedito riconoscimento dei diritti[20].

Su questo terreno si coniuga l’attenuazione della fissità delle regole e l’abuso del diritto giurisprudenziale, materializzandosi la consequenziale crisi della giurisdizione. Giurisdizione e processo sono oggi “categorie” diverse da quelle coltivate nella letteratura classica (e dalla Scuola liberale)[21], avendo perduto, la prima, il ruolo di giardino delle garanzie e del sistema, il secondo, il compito di accertamento che gli è congeniale.        Hanno assunto, invero, esse, caratteristiche ontologiche meramente punitive o, all’opposto, connotati rinunciatari con cui far fronte ai bisogni deflativi realizzati con definizioni anticipate (= extraprocessuali)[22].

Si palesa di estrema ed indifferibile attualità, allora, la revisione reazionale e costituzionalmente orientata del sistema nel suo complesso, associata alla promozione di una nuova stagione di sensibilizzazione istituzionale.

E, di certo, vicende come quella della negazione dell’accesso al fascicolo del riesame forniscono la dimensione delle resistenze politiche (rectius: di “politica giudiziale”) – prima che pratiche – al reale “ammodernamento” del sistema.

*Avvocato, Professore associato di Diritto processuale penale Università degli Studi del Sannio

[1] In giurisprudenzapenale.it, 18 settembre 2020.

[2] V. Bargi, L’inconcludente pretesa priorità probatoria della consulenza del p.m.: solo un marchiano errore o il segnale di un irriducibile pericoloso ritardo culturale? in Arch. pen., n. 3, p. 2 ss.

[3] Corte cost., sent. n. 260 del 18 novembre del 2020, in giurisprudenzapenale.it, 3 dicembre 2020.

[4] Risulta estremamente controllata l’osservazione secondo cui il tema della difesa nel processo penale è tradizionalmente affrontato secondo riflessioni dogmatiche con attenzioni classificatorie forse eccessive, che hanno finito con l’ingessare l’elaborazione sui profili statici dell’argomento. Peraltro, la rincorsa descrittiva al catalogo delle garanzie che sostanziano la difesa, con parallelo disinteresse verso quegli aspetti dinamici che invece la rendono funzione del processo, era ampiamente giustificata dalla natura ontologicamente statica della difesa nel sistema del 1930 (in questi termini, Montone, Conversazione libera su investigazioni difensive, difensori e modelli, in Quest. Giust. n. 2 del 2002, 455).

[5] L’analisi dell’art. 124 c.p.p. 1930, faceva sorgere il dubbio che l’assistenza della difesa nella fase istruttoria non fosse richiesta a pena di nullità. La censura fu sollevata dalla Commissione Reale degli Avvocati di Catanzaro (Lavori preparatori, IX, II, 203), nel senso che dalla formulazione dell’art. 124 poteva apparire il carattere facoltativo dell’assistenza e della rappresentanza difensiva nell’istruzione; ma ad escludere tale interpretazione soccorse l’art. 128 c.p.p. 1930. «La parola può, quindi, è stata adoperata non per indicare la natura facoltativa della difesa, ma solo per limitare ad un solo difensore in questa fase del giudizio la funzione di assistenza o di rappresentanza», così Leone, sub art. 124 c.p.p. 1930 in Conti, Pozzolini, Leone, Il codice di procedura penale illustrato articolo per articolo, 1937, p. 487.

[6] «Il concetto al quale si inspira il nuovo legislatore è, in via di regola, quello di un fondamentale parallelismo fra i diritti e le facoltà processuali di tutte le parti private inter se (imputato, parte civile, civilmente responsabile): escluso, per tutti, un qualsiasi parallelismo coi poteri e coi diritti del pubblico ministero», cfr., Leone, Commento sub art. 306, in Il codice di procedura penale illustrato articolo per articolo, cit., II, p. 301.

[7] Questa idea del sistema processuale del 1930 ha «guidato il legislatore nel tentativo di adeguare il processo al principio costituzionale dell’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 co. 2 Cost): non è stata l’affermazione del principio costituzionale a imporre un diverso assetto processuale (l’ordito del codice non è mutato); è stata la fedeltà al vecchio modello a suggerire l’innesto, l’adattamento di certe garanzie difensive, condizionando, in ultima analisi, la stessa interpretazione della norma costituzionale», così Ferrua, voce Difesa (diritto di) in Enc. dir.,1964, p. 474. Sulla scia di questo ragionamento è condivisibile pure l’opinione di Gianaria, L’avvocato tra cittadino e Stato, in Gianaria e Mittone, Dalla parte dell’inquisito, Bologna, 1987, p. 27-28, il quale osserva che «il potere pensa al metodo inquisitorio come più efficace, ad una giustizia che proceda per sentieri segreti più affidabili, ai rapporti diretti tra inquisito e inquisitori più utili per produrre notizie. In generale, pensa che le pretese del contraddittorio siano un lusso che va a tutto discapito delle istanze di difesa sociale di volta in volta reperibili o attribuite alla collettività».

[8] In questi termini, Amodio, Processo penale, diritto europeo e common law. Dal rito inquisitorio al giusto processo, Milano, 2003, 37 ss.

[9] Cass., Sez. Un., 10 ottobre 2019, n. 41736, in giurisprudenzapenale.it, 21 ottobre 2019.

[10] Cordero, Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 334-335.

[11] Cass., Sez. II, 7 luglio 2017, n. 36191, inedita: “Nei procedimenti di riesame o appello di misure cautelari personali non sussiste un diritto della parte interessata ad ottenere de plano copia degli atti di indagine, bensì la possibilità di esaminare gli atti depositati in cancelleria e, quindi, di estrarne copia informale. (In motivazione, la S.C. ha puntualizzato che il riconoscimento di un diritto in senso tecnico ad ottenere copia degli atti del procedimento, oltre ad essere escluso dalla lettera della legge, urterebbe contro lo stesso interesse dell’indagato a una rapida decisione in ordine al suo status libertatis)”.

La questione relativa alla sussistenza di un diritto della parte interessata ad ottenere de plano copia degli atti di indagine è stata risolta prima dalle Sez. Un., 3 febbraio 1995, n. 4, Sciancalepore, in Cass. pen., 1995, p. 2488, con nota di Fabbri e, immediatamente dopo, dal legislatore con il comma 8 dell’art. 309 c.p.p. Allo stato attuale, alle parti interessate non è riconosciuto un diritto in senso tecnico ad ottenere copia degli atti di indagine, ma solo la facoltà del difensore di esaminare e di estrarre copia degli atti depositati in cancelleria. Tale facoltà, però, deve necessariamente coniugarsi con le esigenze di snellezza e rapidità che caratterizzano la procedura del riesame, soddisfatte ad esempio dalla brevità del termine previsto per la notifica degli avvisi e dalla perentorietà di quello, parimenti breve, per la decisione. Il legislatore ha, invero, privilegiato l’immediatezza della tutela dello status libertatis rispetto ad ogni altro interesse giudiziale, compreso quello ad ottenere copia degli atti. Sul punto v., inoltre, Cass., Sez. III, 7 novembre 2016, n. 342, inedita, secondo cui è evidente che, «quando le operazioni di rilascio delle copie, anche per la mole ponderosa degli atti depositati, possano creare serie ed oggettive difficoltà organizzative nell’ambito dell’ufficio, interferendo con i termini rapidi e vincolanti suddetti, le esigenze difensive dovranno necessariamente armonizzarsi con le rigide cadenze previste per il riesame, senza che ciò configuri alcuna lesione del diritto di difesa, sempre che questa sia posta nelle condizioni di poter prendere cognizione diretta degli atti depositati e di poter interloquire su tutta la documentazione acquisita dal giudice».

[12] Cass., Sez. V, 14 marzo 2019, n. 32019, inedita: “In tema di riesame di un provvedimento concernente la libertà personale, l’art. 100, disp. att., c.p.p., consente la trasmissione da parte dell’autorità giudiziaria procedente, anche solo della copia degli atti indicati dall’art. 309, comma 5, c.p.p., che può essere effettuata attraverso lo strumento della posta elettronica certificata, purché la difesa sia posta in grado, in un tempo compatibile con i termini previsti per la celebrazione del giudizio di riesame, di estrarre copia degli atti trasmessi in formato digitale ovvero di consultarli presso la cancelleria del tribunale investito dell’istanza”.

[13] Cass., Sez. Un., 30 settembre 2010, n. 36212, in Cass. pen., 2011, p. 2554.

[14] Se è vero che la ratio della disposizione di cui all’art. 309 c.p.p., comma 5, – secondo la quale l’autorità procedente “trasmette” al tribunale della libertà, non oltre il quinto giorno dall’avviso, gli atti necessari per il riesame, a pena dell’inefficacia, comminata dal comma 10 del medesimo articolo, dell’applicata misura cautelare – risiede nella necessità di garantire la massima celerità del procedimento de libertate (Cass., Sez. 2,  03 giugno 1997, n. 3696, in C.E.D. Cass., n. 208080), è altresì vero che il diritto di difesa risulta garantito dalla possibilità di esaminare gli atti trasmessi al tribunale del riesame e di estrarne copia (Cass., Sez. 4, 26 gennaio 2010, n. 5087, in C.E.D. Cass., n. 246650).

[15] In tal modo, si comprende la ratio della previsione di perdita di efficacia del provvedimento cautelare nell’evenienza il tribunale non adotti la sua decisione nell’arco temporale individuato dal combinato disposto di cui agli artt. 309 comma 5 e comma 10 c.p.p. La statuizione cautelare, infatti, dotata di legalità formale è suscettiva di decadenza ove non si completi il circuito disciplinato dagli artt. 291 e 309 c.p.p. che impone al giudice ad quem non soltanto di rivalutare il materiale posto a base del provvedimento impugnato ma anche l’ascolto “dell’altro”.

[16] In argomento, Gaito-Valentini, Stato senza diritto e difesa smaterializzata: la sostanziale inutilità del diritto alla prova, in Arch. pen. (web), 7 gennaio 2021.

[17] Così, Ferrajoli, Le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali, Milano, 2007, 1, p. 15.; Fourier: Il nuovo mondo industriale e societario (a cura di Maria Alberta Sarti), Milano, 2005, p. 84; Palombarini, Il garantismo e la costituzione, Milano, 2012, p. 133; Bobbio-Matteucci-Pasquino: Dizionario di Politica, Torino 2004, p. 205; De Ruggiero: Storia del liberalismo europeo,  Bari, 1925, p. 14 ss.; Amato, La cultura del garantismo, Milano, 2012, p. 156 ss.; Resta-Manconi, I paradossi del garantismo, Milano, 2012, passim.

[18] Sul tema, in generale, Minnella, Tra giustizia e democrazia, Torino, 2018, p. 292 ss.

[19] Cfr. Corte cost., sent. n. 49 del 14 gennaio 2015, in penalecontemporaneo.it, 2 aprile 2015, con la quale opportunamente si ammoniscono i giudici comuni ad evitare letture superficiali della giurisprudenza europea, ricordando loro che: a) la Corte Edu non determina il significato della legge nazionale, ma si limita a valutare se essa, per come è applicata, abbia violato nel caso sottoposto alla sua attenzione la Cedu; b) i giudici comuni hanno il dovere di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Convenzione; c) tuttavia è prioritario il loro compito di adottare, per tale diritto, una lettura conforme alla Costituzione, in nome del ‘predominio assiologico di questa sulla Cedu’. Altrettanto opportunamente e per la prima volta, la Corte costituzionale elenca, in positivo, i casi nei quali il giudice comune è propriamente vincolato dalla decisione di Strasburgo: a) quando la decisione della Corte Edu abbia definito la causa di cui il giudice comune torna ad occuparsi; b) quando la giurisprudenza di Strasburgo costituisca ‘diritto consolidato’; c) quando si tratti di una sentenza pilota. Rimane infine salva «l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione», questa sola di stretta competenza del giudice costituzionale. In tutti gli altri frangenti, al contrario, il giudice comune deve poter compiere la propria funzione senza vincoli, in una logica sintetizzabile nell’espressione, usata dal giudice Lady Brenda Hale della Supreme Court britannica e che rimanda a una celebre diatriba sul valore delle decisioni della Corte Edu nel sistema britannico, ‘Argentoratum locutum iudicium non finitum’ (cfr. Tega, I diritti in crisi, Milano, 2012, p. 145 ss.).

[20] Sempre attuale sul tema l’insegnamento di Lupo, Common law e civil law (alle radici del diritto europeo), in Foro it., 1993, p. 431-432, il quale esorta a rileggere la storia giuridica europea dei secoli dal V all’XI, non per una revisione storiografica senza diretta rilevanza per la comparazione giuridica riguardante gli ordinamenti odierni, ma per giungere alla rilettura della distinzione fra common law e civil law e per cancellare la miscomparazione che ottunde la conoscenza dell’un sistema e dell’altro ed anzi, più propriamente, la nozione stessa dell’esistenza di due sistemi, due fra i così detti “grandi sistemi”. I secoli dal V all’XI, secondo l’Autore, infatti, “videro il venire in esistenza ed il tramontare del diritto comune europeo…comune fu la concezione delle fonti del diritto, comuni furono i principi, cioè i modelli risolutivi dei diritti fondamentali della vita giuridica, comuni le forme e le tecniche documentarie, comuni moltissime regole operative”. Così, il diritto comune europeo si è evoluto nella common law cosiddetta inglese determinando la frattura che ha condotto alla classica distinzione tra sistemi di common law e sistemi di civil law. Tutto questo implica che i caratteri distintivi dei sistemi sono più agevolmente individuabili e, quindi comprensibili, e la loro rilettura è più seriamente fondata qualora oggetto primo della conoscenza sia un momento nel quale tali sistemi siano stati indistinti: è il presupposto dal quale mosse la linguistica comparata. Per vero, un tal momento di indistinzione – il diritto comune europeo dell’alto medio evo, per l’appunto – non è stato mai ipotizzato; ai giuristi europei, ed in special modo ai comparatisti, è mancato ciò che per i linguisti fu la scoperta dell’ipotesi dell’indoeuropeo.

[21] Per uno sguardo d’insieme: Petrocelli, Interpretazione del Carrara, in Id., Saggi di diritto penale: seconda serie, Padova 1965, pp. 205-14; Baratta, Filosofia e diritto penale. Note su alcuni aspetti dello sviluppo del pensiero penalistico in Italia da Beccaria ai nostri giorni, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1972, pp. 29-54; Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal ‘Programma’ di Carrara al ‘Trattato’ di Manzini, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1973, pp. 607-702; Spirito, Storia del diritto penale italiano da Cesare Beccaria ai nostri giorni, Firenze 19743, pp. 21-24, 107-115; Mazzacane, Carrara Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 20° vol., Roma 1977, ad vocem; Bettiol, Diritto penale, parte generale, Padova 1978, passim; Neppi Modona, Legislazione penale, in Storia d’Italia, a cura di Levi, Levra e Tranfaglia, 2° vol., Il mondo contemporaneo, Firenze 1978, pp. 584-607.

[22] L’efficienza è un concetto vago, per non dire evanescente, d’incerta ascendenza costituzionale, solitamente riferito all’altrettanto vago principio della ragionevole durata del processo. Ciò nondimeno, ogni riflessione sul tema processuale sembra oggi non poter prescindere dagli idola fori dell’efficienza. I fautori della primazia dell’efficienza sulle garanzie dovrebbero però spiegare cosa intendono esattamente per efficienza processuale. L’efficienza, altre volte definita efficacia, è strutturalmente un concetto di relazione che non può esaurirsi in sé stesso o nella sua astratta affermazione, ma si specifica rispetto al fine che si vuole raggiungere. Quando si parla di efficienza o di efficacia occorre sempre chiarire rispetto a cosa. Se si usa l’efficienza come predicato del processo, bisogna quindi indicare lo scopo che si vuole raggiungere attraverso il processo efficiente. Nell’imperante retorica dell’efficienza processuale il fine rimane per lo più sottointeso, non viene quasi mai esplicitato né dalle asserzioni giurisprudenziali né dalle tesi dottrinali.  Ma se si scava, nemmeno poi tanto, il fine emerge nettamente ed è l’istanza punitiva. Secondo i campioni dell’efficienza, il processo deve avere una validità non tanto cognitiva, quanto punitivo-repressiva. Inutile nascondersi che oggi una larga parte della magistratura ha fatto propria l’idea manziniana del processo penale come strumento per punire i colpevoli e, di conseguenza, tutto ciò che allontana o rende più difficile la punizione viene considerato d’intralcio all’efficienza repressiva. Così, Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in penalecontemporaneo.it, 9 aprile 2019.