CONTRADDITTORIO, REGOLE DEONTOLOGICHE PER LA DIFESA, LEALTÀ E ABUSE OF PROCESS
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CONTRADDITTORIO, REGOLE DEONTOLOGICHE PER LA DIFESA, LEALTÀ E ABUSE OF PROCESS
di Eriberto Rosso*
Il ruolo del difensore è quello di vigilare sul rispetto delle residue garanzie accusatorie e di evitare che il processo si trasformi in una deriva inquisitoria. Le regole deontologiche non sono solo un insieme di obblighi e divieti, ma tracciano i confini che garantiscono la dignità della funzione difensiva e la sicurezza professionale dell’avvocato. Il rapporto del difensore con la verità è regolato dal divieto assoluto di introdurre nel processo prove che sa essere false. La funzione difensiva richiede professionalità, capacità di scelta e rispetto delle regole deontologiche, che rappresentano una garanzia fondamentale per il diritto di difesa.
Sommario: 1. L’argine della difesa contro le derive inquisitorie. – 2. La difesa fra tutela delle regole ed esaltazione del contraddittorio. – 3. La “bussola” deontologica nell’agone giudiziario.
- L’argine della difesa contro le derive inquisitorie
Le regole che governano il processo penale non sono più quelle volute dal legislatore del 1988. Il codice di rito, infatti, ha subito continue destrutturazioni nei suoi gangli vitali, conseguenza non solo di interventi legislativi privi di sistematicità, ma anche di interpretazioni giurisprudenziali di segno opposto alla scelta epistemologica dell’accusatorio e a causa di alcuni interventi della stessa Corte Costituzionale che, di fatto, hanno prosciugato alcuni meccanismi originariamente approntati per la realizzazione del contraddittorio.
L’ipertrofia della fase delle investigazioni, l’ormai sua indiscussa centralità, l’invenzione di nuove modalità di recupero degli atti investigativi al dibattimento, rendono l’attuale un rito atipico.
Immediatezza e oralità sono state oggetto di continue erosioni al punto da non essere più le intrinseche caratteristiche contrassegnanti l’operatività dei soggetti del processo.
Ciò nonostante, quantomeno sul piano dei principi, non è oggi in discussione la scelta di campo per il sistema accusatorio, essendo oramai improponibile il ritorno ad un modello dichiaratamente inquisitorio, anche per la nuova interpretazione dei canoni costituzionali in materia di processo, grazie all’introduzione del nuovo articolo 111 della Costituzione e per le indicazioni che derivano dalle Carte e dalle Convenzioni internazionali. Insomma, risulta assodato ciò che Cordero segnalava nella sua Procedura penale: «un dialogo che ha per posta la pena, è naturale che si svolga nelle forme del contraddittorio: se la contraddizione non ci fosse, bisognerebbe procurarla artificialmente». Il recupero dell’ispirazione accusatoria richiederebbe però una generosa riforma, per la quale non paiono maturate né condizioni politiche e culturali, né una sensibilità sociale che spinga per l’effettivo ritorno al codice originario e dunque per la compiuta realizzazione di un sistema dialettico.
Tale premessa ci porta ad affermare che il primo impegno del difensore, nell’attualità dell’esperienza professionale, è la verifica del rispetto nel singolo processo delle regole che ancora definiscono quel poco di accusatorietà e di evitare di farsi travolgere dai meccanismi, sparsi qua e là nel sistema, che consentono il recupero della prova già raccolta e dalla mortificazione della immediatezza e della oralità, requisiti non più ritenuti fondanti la giustezza del processo; in ciò non si esaurisce certo il terreno degli obblighi del difensore, al più, ne risulta definito lo stato d’animo, comunque utile per affrontare il senso e la pratica delle regole deontologiche.
- La difesa fra tutela delle regole ed esaltazione del contraddittorio
Prima annotazione è che, non esistono, al di là di un generale richiamo ai principi di probità e correttezza, norme comportamentali buone per tutte le stagioni. È bensì evidente come cambi molto la prospettiva a seconda del contesto sociale e politico, della concezione del diritto penale e della qualità del sistema processuale. La cultura liberale, costituzionale e democratica, non può che avere come riferimento il diritto penale minimo e un concreto sistema di garanzie a favore dell’accusato. Recita il canone 22 del Manifesto del diritto penale e del giusto processo: «Nel processo penale liberale, la difesa – al pari dell’accusa – è protagonista della formazione della prova, in contraddittorio dinanzi al Giudice della decisione. Il contraddittorio per la prova è al contempo diritto individuale e, nella sua forza epistemica, condizione di regolarità del processo. È regola generale che un’accusa non possa essere convalidata da prove formate unilateralmente dallo stesso soggetto che ha provveduto ad elevarla».
Le regole deontologiche, dunque, hanno il compito di accompagnare il difensore nella sua attività processuale, a patto però che non si compendino tanto e solo in un insieme di obblighi o divieti, ma realizzino un tracciato, segnalino confini che nell’insieme garantiscano la dignità della funzione difensiva e la sicurezza professionale dell’Avvocato. Va subito ricordato, proprio per il suo significato di garanzia, che il sindacato sulla correttezza delle decisioni del difensore non spetta (più) al potere giurisdizionale, ma agli organi di giustizia professionale, ovviamente fuori dai casi di illecito penale (art. 105 c.p.p.).
Nel considerare le regole deontologiche per il difensore, viene subito in rilievo l’art. 1 del codice deontologico (approvato dal Consiglio Nazionale Forense nel Gennaio 2014) che dà contenuto al concreto esercizio del diritto di difesa, individuando l’Avvocato quale garante della regolarità del giudizio e protagonista del contraddittorio. Il processo accusatorio è dunque un processo di agone, di antagonismi e di antagonisti. La sua funzione è quella di “stressare” il materiale probatorio presentato dal Pubblico Ministero, attraverso la formazione della prova dinanzi al Giudice terzo, al fine di verificare la tenuta dell’ipotesi d’accusa nella prospettiva del giudizio di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. Così, l’Avvocato è il primo “Giudice” della tenuta costituzionale delle leggi che debbono trovare applicazione nel singolo processo. Viene qui in rilievo il dovere di competenza (art. 14): debbo conoscere la legge, non solo per il contenuto del precetto, ma debbo conoscerne il senso profondo in ragione della sua storia e del punto di caduta del penalmente rilevante racchiuso nella norma, tenuto conto anche della sua interpretazione giurisprudenziale. Tale verifica attiene ad ogni singolo elemento costitutivo della fattispecie e alla correttezza dell’attività di sussunzione prospettata nell’atto di accusa.
Il difensore deve conoscere le regole del contraddittorio ed essere in grado di padroneggiare le tecniche della cross examination, lo strumento che consente la realizzazione del contraddittorio nella formazione della prova. Poiché, è bene ribadirlo, il cuore del sistema accusatorio è pur sempre la gnoseologia della prova.
Non ci si può limitare al prudente insegnamento secondo il quale il difensore non deve rischiare domande delle quali non conosce la risposta; i meccanismi sono assai più complessi. Si tratta di essere in grado di svolgere esami conducenti, sapendo scegliere la modalità più idonea per il caso concreto, passando dalle c.d. short questions alle domande aperte per una narrazione più libera, tenendo sempre conto che per la difesa il controesame, quando si decide di effettuarlo, è lo strumento per dimostrare l’errore ricostruttivo del teste o la sua inaffidabilità. Non è certo un caso che proprio la prerogativa di poter contro-interrogare chi ti accusa sia la prima garanzia consegnata dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo.
Gli art. 497 e ss. c.p.p. disciplinano scansione, tempi e prerogative dei soggetti processuali per la fase dell’esame e del contro-esame; ma la regola processuale da sola non basta a individuare che cosa parti e Giudice possano fare e che cosa a loro invece sia precluso in termini di comportamenti ed atteggiamenti, ed è proprio qui che si rivelano di straordinaria rilevanza le norme deontologiche. In buona sostanza, esse si pongono al servizio delle norme processuali nel garantire all’assistito che il professionista che lo sta difendendo sia in grado di valutare se il processo sia giusto, poiché in esso si compiono le attività imposte dalla legge o scelte dalle parti, secondo regole e saperi specialistici che ne qualificano l’attività. L’effettività della difesa è garantita solo se l’Avvocato è professionista qualificato, formato e aggiornato nella specifica disciplina. Al contempo la dialettica processuale presuppone che le parti del processo, accusa e difesa, siano antagoniste e poste nella condizione di rappresentare le loro diverse posizioni, anche con modalità di contrasto diretto durante la formazione della prova – opposizione alle domande, opposizione alle produzioni – dinanzi al Giudice terzo. Non vi è dunque spazio per un’attività di collaborazione rispetto al risultato della prova, ma proprio le regole deontologiche servono a garantire la correttezza e la lealtà nell’esercizio delle prerogative di ogni parte. È chiesta al difensore la capacità di relazionarsi con il narrato dell’imputato che non necessariamente corrisponde al modo in cui i fatti si sono svolti.
Insomma, se l’Avvocato è la sentinella dei diritti, a lui non compete solo il ruolo di guardiano, ma quello ben più complesso di garante attivo del rispetto delle regole e della loro concreta attuazione. Basti pensare alla delicatezza delle situazioni nelle quali è più opportuna l’acquiescenza a un certo risultato probatorio, a fronte della proposizione di un’insicura ipotesi alternativa, o a quando si prospetti l’idea del consenso all’utilizzabilità di atti di altro procedimento. Tutte situazioni che richiedono rapide valutazioni di bilanciamento di pro e contro nell’interesse della posizione del proprio assistito.
Quando il difensore è chiamato a svolgere il proprio ruolo in processi per reati connotati da violenza di genere, sia che egli assista la persona offesa, sia che assista l’imputato, deve essere consapevole dell’estrema delicatezza del suo mandato. Egli si troverà a misurarsi con la peculiare condizione personale dei soggetti interessati, segnati da momenti di profonda sofferenza che in queste situazioni emerge in misura decisamente maggiore rispetto ad altre fattispecie di reato.
A corollario del dovere di competenza sta il divieto dell’Avvocato ad assumere incarichi che non sia in grado di svolgere e, a cascata, il dovere di aggiornamento professionale di cui all’art. 15, norma che richiama la necessità della specializzazione.
L’art. 27 del codice deontologico prevede il dovere di informazione: è necessario che il difensore sia in grado di offrire e in concreto offra al proprio assistito adeguata informazione in ordine ai possibili sviluppi processuali, sia egli difensore della persona offesa che dell’imputato. La persona offesa dovrà ricevere informazione completa in ordine agli strumenti nella sua disponibilità quali la denuncia, la querela, la richiesta di ammonimento in via amministrativa, e per ognuno di tali strumenti termini e conseguenze. Il difensore dovrà anche spiegare le modalità di funzionamento della macchina processuale, della forza del processo, soprattutto con riferimento al momento della testimonianza, prova che la parte deve essere preparata ad affrontare e che potrà risultare di grande impegno, a tratti anche insidiosa, nella consapevolezza che la ricostruzione d’accusa deve essere verificata anche dovendo affrontare domande scomode, finalizzate a far emergere contraddizioni o elementi di non genuinità, ovviamente laddove gli stessi sussistano. Allo stesso modo il difensore dovrà informare l’assistito sul significato dei procedimenti speciali, della portata dell’esame e del diritto di difendersi provando, nonché del sistema delle impugnazioni.
Al difensore è richiesta la massima diligenza (art. 12) che si risolve nell’esatto rispetto di ogni regola processuale per la violazione della quale è prevista una sanzione. L’atteggiamento non diligente della difesa tecnica può conculcare un diritto dell’assistito; basti pensare ai termini per le impugnazioni o alle modalità di funzionamento del portale telematico.
- La “bussola” deontologica nell’agone giudiziario
Il rapporto del difensore con la verità può apparire assai complesso; le regole del processo però ne stabiliscono un quadro chiaro.
Certamente egli ha la possibilità di prospettare una ricostruzione alternativa del fatto, ma ha soprattutto il dovere di confutare e falsificare, sul piano fattuale e su quello argomentativo, la tesi di responsabilità.
Il divieto assoluto per il difensore è quello di introdurre nel processo una prova che egli sa essere falsa. Il limite, così costruito, è il frutto di una approfondita disamina, in sede di elaborazione del codice deontologico, per la quale dobbiamo a un’intuizione di Ettore Randazzo la perfetta definizione del divieto all’ “introduzione” e non alla “utilizzazione”: il difensore non può introdurre nel processo una prova che sa falsa, ma può ad essa fare riferimento quando la stessa sia stata introdotta da altre parti. Egli dovrà invece astenersi dall’uso della prova falsa, introdotta in favore della parte rappresentata, anche quando della falsità venga a conoscenza solo successivamente.
La cogenza di tali indicazioni si coglie in tutta la sua portata, soprattutto con riferimento alle investigazioni difensive.
La disciplina positiva è stato il frutto di una lunga battaglia dell’Avvocatura penale che, con il Codice dell’88, aveva visto l’enfasi del principio del “difendersi provando”, tradotta nella sola indicazione di cui all’art. 38 disp. att., che prevedeva la possibilità di svolgere «investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che possono dare informazioni». Fu quello il punto di partenza che portò alla Legge 397 del 2000 che oggi disciplina le indagini difensive, uno strumento a cui non sempre è agevole ricorrere, ma che in diverse situazioni si è rivelato e si rivela decisivo. Non è questa la sede per la valutazione delle singole regole, interessano invece le norme deontologiche che ne accompagnano la concreta operatività, messe a punto dall’Unione delle Camere Penali Italiane con un proprio regolamento, divenuto poi riferimento per il Codice deontologico.
La prova di difesa deve essere ampiamente documentata nella sua attività di raccolta, ma soprattutto al difensore è vietato un uso parziale delle dichiarazioni. Il risultato, se valutato utile, deve essere interamente versato nel giudizio di cognizione; se il materiale si rivela spurio, il difensore può decidere per la sua non utilizzazione, scelta insindacabile che appartiene alla definizione della strategia difensiva.
L’avvocato deve essere in grado di interagire anche nel momento della formazione della prova scientifica, al fine di poter correttamente formulare quesiti e approfondimenti ai consulenti nelle più diverse materie.
Dal dovere di colleganza deriva che il comportamento dell’Avvocato nei confronti dei colleghi debba essere improntato a correttezza e lealtà, per esempio nel rispetto e nella tempestiva informazione al difensore d’ufficio dell’intervenuta nomina fiduciaria o nella consultazione degli altri difensori per la verifica delle strategie difensive. Ciò però non implica né un obbligo di condivisione delle scelte processuali, né quello di mettere a disposizione dell’avvocato che rappresenti altre parti private la documentazione prodotta o la informazione sulle iniziative che si intendono adottare a tutela del proprio assistito. Vi sono comportamenti defensionali che possono non apparire coerenti con la ratio dello strumento processuale utilizzato per una sorta di percepibile eterogenesi dei fini (un tempo il riferimento era al maturare della prescrizione). Sono le situazioni nelle quali viene in rilievo la “ingiustificata” proposizione di eccezioni all’evidenza infondate o la sostituzione a catena del difensore al fine di ottenere rinvii per la concessione dei termini a difesa.
Proprio a partire da un simile caso, la Suprema Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011 n. 155/2012) ha ritenuto di poter enucleare una sorta di abuso del processo. Poche le successive sentenze, conformi, che hanno confermato alcuni labili parametri per la definizione di situazioni meritevoli di sanzione processuale (da ultimo Cass. pen. sez. V 28 giugno 2018 n. 43593). Questa si risolverebbe nel non riconoscimento del diritto, a fronte del giudizio di strumentalità o pretestuosità dell’agire difensivo.
La soluzione non è condivisibile, ed il terreno si rivela assolutamente scivoloso offrendo parametri diversi per valutare, anzi per giudicare, non solo il fondamento, ma anche la natura dell’iniziativa difensiva. Di abuso del processo si discute nei sistemi di common law per sanzionare l’Ufficio del Pubblico Ministero per comportamenti dilatori rispetto all’esercizio dell’azione penale o per la presentazione delle contestazioni, in situazioni nelle quali tale attività era già preclusa.
Nel nostro sistema, lo spettro dell’abuso del processo è agitato in particolare con riferimento alle c.d. impugnazioni pretestuose, date per lo più da ricorsi per Cassazione con finalità “meramente dilatoria”. Prescindendo in questa sede da ogni valutazione in ordine all’abnorme definizione giurisprudenziale dei parametri volti alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, va sottolineato che anche la mera funzione dilatoria – sovente non certo l’unica attribuita all’atto da parte del ricorrente – per le conseguenze che la stessa può avere in materia di prescrizione o di allontanamento o di differimento del momento di esecuzione della pena, può rivelarsi attività svolta nell’interesse dell’assistito.
L’esercizio concreto della funzione difensiva è cosa seria che richiede grande professionalità, capacità di decisione e di scelta da parte del difensore. Le indicazioni deontologiche possono a volte rivelarsi utili per l’agire concreto e, in fondo, integrano uno dei presidi a garanzia del diritto di difesa.
*Avvocato del Foro di Firenze, già Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane