DALLA (IN)GIUSTIZIA RIPARATIVA AL TRAMONTO DELLA GIUSTIZIA PENALE UN CASO DI POPULISMO GIUDIZIARIO – DI VINCENZO VITALE
VITALE -DALLA (IN)GIUSTIZIA RIPARATIVA AL TRAMONTO DELLA GIUSTIZIA PENALE.PDF
DALLA (IN)GIUSTIZIA RIPARATIVA AL TRAMONTO DELLA GIUSTIZIA PENALE UN CASO DI POPULISMO GIUDIZIARIO
FROM RESTORATIVE (IN)JUSTICE TO THE DECLINE OF CRIMINAL JUSTICEA CASE OF JUDICIAL POPULISM
di Vincenzo Vitale*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Critica. – 3. Noia e osservazioni aggiuntive. – 4. Conclusioni.
A partire da un rapido esame delle prime disposizioni del decreto introduttivo della c.d. “giustizia riparativa” nel nostro sistema penale, si mettono qui in luce alcune delle tante aporie che rischiano di far tralignare il diritto e il processo penale dalla sfera pubblicistica a quella privatistica. In questa prospettiva, la giustizia, perdendo le caratteristiche che l’hanno sempre contrassegnata quale principio assoluto e razionale di ripartizione delle ragioni e dei torti, diviene l’esito di una stipulazione fra soggetti privati, anche attraverso il ruolo preponderante assegnato alla “vittima” del reato. Questi, infatti, in un sistema ispirato ai principi dello Stato di diritto, non dovrebbe mai avere nulla a che spartire con l’indagato o con l’imputato, anche perché nessuno di costoro è definibile come colpevole ancor prima del giudizio.
Starting from a quick examination of the first provisions of the introductory decree of the so-called “restorative justice” in our penal system, some of the many aporias that risk causing penal law and proceedings to shift from the public to the private sphere are highlighted here. In this perspective, justice, losing the characteristics that have always characterized it as an absolute and rational principle of distribution of rights and wrongs, becomes the outcome of a stipulation between private subjects, also through the preponderant role assigned to the “victim” of the crime. In fact, in a system inspired by the principles of the rule of law, the latter should never have anything to do with the suspect or the accused, also because none of these can be defined as guilty even before the judgement.
«Non mi piacciono né la dittatura
né il populismo: entrambi impediscono
alla gente di pensare»: J. L. Borges,
da L’ombra di Peròn sull’Argentina,
Intervista a La Stampa, 19/7/1983, pag. 3.
- Premessa.
Per “populismo” intendo qui “ogni atteggiamento demagogico volto ad assecondare le aspettative del popolo, indipendentemente da ogni valutazione del loro contenuto, della loro opportunità”[1].
Il populismo va poi qualificato come “giudiziario”, perché, introducendo per legge una nuova procedura che si interseca con quella ordinaria del processo penale – quella appunto della (in)giustizia riparativa – si estrinseca tutto sul piano giudiziario, contribuendo in misura non indifferente a procrastinare e ad inquinare la corretta formulazione del giudizio destinato a definire la regiudicanda.
Non occorre scomodare i sociologi, infatti, per comprendere come la teoria della (in)giustizia riparativa[2] – traduzione approssimativa dall’inglese restorative justice[3] – prendendo appunto le mosse dall’esperienza statunitense, poi transitata in Europa e nel suo sgangherato spirito normopoietico, abbia trovato in Italia fertile terreno per attecchire e formalizzarsi in un testo normativo che ad una lettura anche rapida null’altro appare se non l’inconsapevole ossequio ad una moda culturale ormai non più arginabile[4].
Possiamo infatti tranquillamente predicare per le mode culturali – e fra queste anche per quella che ha dato vita alla (in)giustizia riparativa – ciò che Roland Barthes asseriva a proposito della moda nell’abbigliamento: e cioè che anche se l’opinione pubblica tende a credere alla mitologia della creazione libera e personale, in realtà le scelte dei c.d. “creatori” sono dettate da codici comunicativi e sociali inconsapevoli, ma comunque costrittivi[5].
Era perciò inevitabile che il vento di questa moda – di questo populismo – approdasse anche da noi, prendendo forma attraverso il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022.
Scorrendone le pagine, il giurista non sa se preoccuparsi o, in prima battuta, sorriderne, tanto numerose e a volte originali e perciò dilettevoli son le trovate e le escogitazioni che il legislatore ha saputo inaugurare, nel tentativo, non riuscito, di render chiaro ciò che chiaro non è, di qualificare giuridicamente ciò che appare invece giuridicamente inqualificabile, di immaginare il processo penale potesse trarne giovamento e speditezza, mentre gliene vengono orpelli di varia natura e vischiosità intraducibili in termini di diritto.
E tuttavia, a ben guardare, il sorriso divertito cede il passo a severe inquietudini per una impressione di fondo difficile da esorcizzare: e cioè che l’ossimoro in cui consiste la locuzione “(in)giustizia riparativa”[6] nasconda ben più di un maldestro esercizio lessicale; vale a dire il destino di progressivo abbandono della giustizia come verità del diritto, come principio assoluto che ripartisce i torti dalle ragioni e che permette che una coesistenza umana ci sia, invece che non esserci.
Il giurista avverte insomma con dolorosa precisione come lo spazio concesso ad una riparazione impossibile, declinandosi in un inestricabile reticolo di vani psicologismi, condanni a morte le ragioni della giustizia: con buona pace del processo, del diritto e, alla fine, di tutti noi.
Ciò accade principalmente perché al di là delle definizioni lessicali – sia pure ossimoriche – la sostanza giuridica della nuova normativa concede ai privati – sub specie conciliationis – ruoli e facoltà che, incidendo in modo diretto sulla vicenda processuale, la snaturano dal profondo, facendo transitare il processo penale dal diritto pubblico al diritto privato, facendone cioè un processo largamente consegnato alle scelte dei soggetti privati che vi prendono parte ( e non si capisce bene a che titolo) e che perciò, svuotandolo dall’interno nel suo ruolo cognitivo e dichiarativo delle ragioni della giustizia, ne annunciano il tramonto.
Sembra insomma si sia varcata (senza ritorno?) la soglia decisiva: il processo penale non ha più nulla a che fare – tendenzialmente – con la giustizia come verità del diritto, spodestata da una stipulazione privata la quale rimane del tutto impermeabile alle esigenze ed allo spirito del diritto pubblico.
- Critica.
E che la via intrapresa sia purtroppo questa, lo indicano alcuni indizi di carattere lessicale che qui brevemente vanno accennati. Sembra quasi infatti che l’imbarazzo lessicale che la normativa lascia emergere sia la spia – il signum demonstrativum – di quel pastiche normativo in cui consiste la giustizia riparativa.
Innanzitutto, il decreto sente il bisogno di principiare con una tavola dei significati da attribuire ai termini che verranno usati negli articoli che seguono: un autentico glossario al modo di quelli che seguono o che precedono ponderose e impegnative opere filosofiche come “Sein und Zeit” di Heidegger o “Grundlinien der Philosophie des Rechts” di Hegel, ove tuttavia se ne comprende pienamente lo scopo, dal momento che ogni pensatore di quel calibro letteralmente “inventa” il proprio lessico espressivo.
Non si comprende invece il senso di una tale esigenza per un testo di legge, che dovrebbe esser chiaro e trasparente, dotato cioè di una universale comprensibilità, almeno per i giuristi.
Eppure, non è un dato irrilevante, in quanto manifesta la consapevolezza della ambiguità della terminologia adoperata, a tal segno equivoca e giuridicamente insensata da esigere una preliminare perimetrazione, così come accade per esempio nei contratti assicurativi per adesione, ove la compagnia di assicurazione intende chiarire subito i limiti semantici della terminologia contrattuale allo scopo di evitare future contestazioni.
E già da questo punto di vista, la legge vien degradata a semplice trama convenzionale bisognosa di aggiustamenti semantici allo scopo di ridurre, per quanto possibile, la confusione generata.
Vediamone alcuni nel testo del decreto, anche perché è perfino divertente.
«ART. 42 – 1. Ai fini del presente decreto si intende per:
- giustizia riparativa: ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».
1) Si apprende dunque che la (in)giustizia riparativa si identifica in un programma.
Ne viene che essa non guarda perciò al passato, per conoscerlo e dichiararlo pubblicamente nel segno qualificativo delle ragioni e dei torti, ma al futuro. Non al factum, ma al faciendum.
Ne viene perciò ancora che, nonostante il termine che la designa, questo programma non ha nulla da spartire con la giustizia, per il semplice motivo che questa, nel suo concetto, non ha nulla da progettare, ma ha tutto da comprendere e qualificare; e che se anche avesse qualcosa da progettare, non potrebbe farlo se non dopo aver conosciuto e qualificato.
Non c’è niente da fare: la giustizia, come la Nottola di Atena, esce in volo sul far della sera, quando i giochi sono ormai fatti. Chi pretenda di farla uscire all’alba, la trasformerà in allodola, cioè in altro da sé.
2) Codesto programma – si apprende ancora – è destinato alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità.
Orbene, il giurista vede subito di esser indotto a muoversi su di un territorio che nulla ha di giuridico, essendo invece caratterizzato da descrizioni nominalistiche di tipo schiettamente sociologico, non inquadrabili nell’universo del diritto, se non dopo forzature generatrici di nebulose del pensiero, dove ci si smarrisce.
Infatti, il termine vittima, rimanendo estraneo alla tradizione del lessico penalistico continentale[7], si lascia cogliere come la traduzione pedissequa del termine inglese victim. Tuttavia tale traduzione appare pedestre, in quanto il termine inglese, per acquisire autentica significazione giuridica oltre l’orizzonte semantico della sociologia, va reso con persona offesa dal reato e, se si vuole, con danneggiato dal reato, che ne sono quasi equivalenti, e non certo con vittima, che ne è soltanto l’equisonante[8].
Una corretta traduzione avrebbe forse consentito una corretta procedura? Non lo credo comunque, perché qui si tratta di una errata ed esiziale prospettiva di fondo che, come si vedrà, va ben al di là di ogni problema di traducibilità.
Chi sarebbe poi l’autore dell’offesa? E soprattutto, da chi sarebbe come tale indicato? Forse dalla vittima? O forse da un esponente delle forze dell’ordine? O da un testimone presente al fatto? O da tutti costoro insieme? E se le loro indicazioni fossero divergenti? Quale dovrebbe prevalere? E in base a quali criteri?
Ancora. Cosa sarà mai codesta indicazione, che lascia immaginare un accusatore col dito indice minacciosamente puntato verso qualcuno? E chi sarebbe codesto autore? Forse il sospettato? Forse l’indagato? Forse l’imputato? Forse il condannato? O forse l’insieme dei quattro? E se non fosse nessuno di loro?
Tutte domande, quelle sopra menzionate, senza plausibile risposta.
Infine, fra i destinatari di quel programma appaiono altri soggetti appartenenti alla comunità.
Questa è proprio bella, meritevole di una memoria pirandelliana che vede in ciascuno di noi uno, nessuno e centomila.
Di quale comunità si tratta? Di quella dell’autore dell’offesa o di quella della vittima? E quale sarà mai? Quella parrocchiale? Quella scolastica? Quella sindacale o dopolavoristica? E quali sarebbero – se ci fossero – i limiti di codesta comunità? Chi può esserne considerato partecipe e chi invece no? E perché?
E chi sarebbero poi codesti altri soggetti? Appunto, uno, nessuno e centomila: assoluta vaghezza, indeterminatezza allo stato puro, accanito rifiuto di ogni tassativa indicazione.
Ecco le fondamenta fragilissime, evanescenti di questa nuova procedura, intrisa di intenti assertivamente deflattivi del processo penale. Insomma, il nulla, spacciato per buono: il buono a nulla.
Si immagini infine il fiorire delle questioni circa la legittimazione a partecipare al programma (magari per cavarne qualche inatteso vantaggio): chi le deliberà? E con quali criteri?
Ricorreremo allora forse ad una ulteriore procedura conciliativa incidentale rispetto alla prima? E, nell’attesa, ovviamente tutto sospeso, bloccato – anche il processo principale – perché è inimmaginabile dar corso al programma senza che si sappia con certezza chi possa prendervi parte e chi invece non possa.
3) Ancora
Si vuole giungere alla soluzione delle “questioni derivanti dal reato”: e quali sarebbero? È infatti osservazione banale che da ogni fatto – e tanto più da un fatto illecito quale è il reato – possano rampollare innumerevoli questioni, di tipo assai diverso e proteiforme.
Escludendo perciò ci si volesse riferire dal legislatore alle Quaestiones, che tanta nobile parte ebbero nello sviluppo e nella affermazione del sapere filosofico e giuridico delle Università medievali, di quali questioni si parla?
Ancora una volta – dal momento che il lessico giuridico penalistico non è avvezzo ad usare un tale termine (di taglio sociologico), perché manca del concetto – di tutte e di nessuna.
Se, per esempio, un amico della vittima di un incidente automobilistico, avendo avuto intenzione – non più che intenzione – di entrare in società con costui per commercializzare monopattini di uso urbano, non potrà più farlo a causa dell’incidente subito dal malcapitato, questa è senza dubbio – dal punto di vista sociologico, psicologico e familiare – una questione da risolvere: ma tale questione, di certo fattualmente “derivante dal reato”, è degna di assurgere a livello di valutazione giuridica? Oppure no? E, in entrambi i casi, perché?
Certo, visto che oggi una bella costituzione di parte civile non la si nega a nessuno, questo anonimo amico potrebbe pure provare a chiedere i danni nel processo penale e magari la sua costituzione sarebbe ammessa (giammai lo sarebbe stata due o tre decenni fa): ma in sede di (in)giustizia riparativa? Quid iuris?
La sola risposta plausibile suona: nihil iuris! Il diritto, infatti, non ha nulla da dire in proposito, perché ci si muove nel campo sociologico e non giuridico e, nonostante la perdurante testardaggine di molti, quello non è riducibile a questo, se non al modo delle rette parallele, le quali (a differenza delle “convergenze” di democristiana memoria) non si incontrano mai (se non all’infinito).
E poi: in che senso le questioni sarebbero “derivanti” dal reato? Il reato ne sarebbe la causa? L’origine? L’occasione? È appena il caso di rilevare come il participio presente plurale sopra menzionato lasci una notevole indeterminatezza semantica, la quale, se in sede letteraria può anche svolgere una meritoria funzione allusiva, in sede giuridica suscita soltanto incertezze e aporie.
4) Appare infine sulla scena, da tutti atteso come Godot, colui che, denominato mediatore, ha il compito di aiutare tutti gli altri alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato.
Gli altri sarebbero i soggetti che in un modo o nell’altro possano restare coinvolti in questa procedura e che sopra abbiamo cercato – invano – di definire con contorni più netti e perciò tendenzialmente si deve ritenere siano tutti gli appartenenti alla comunità.
Quale comunità? Non si sa, ma non importa e andiamo pure avanti…
- Noia e osservazioni aggiuntive.
Al punto in cui è giunta questa pur breve riflessione, vengo però assalito da una invincibile noia, da quello che Leopardi definiva “il più sublime dei sentimenti umani”[9], dal momento che – aggiunge ancora il Recanatese – “più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile”[10].
E infatti diviene per me penoso e forse anche terribile continuare a chiosare criticamente articolo per articolo, comma per comma, i contenuti di quel decreto tanto giuridicamente squilibrato, quanto processualmente dannoso, anche perché proseguire su questa strada appare di facilissima spedizione, perfino ripetitivo se non addirittura scontato e perciò, alla fine, davvero noioso non solo per me che scrivo, ma probabilmente anche per chi avesse la cortesia di leggere queste note.
Sicché – aliis reiectis – reputo opportuno aggiungere due osservazioni a questa breve riflessione, che possono compendiarsi come segue.
1) Tralasciando infatti una miriade di altre aporie che nascono dalle norme del decreto, credo occorra soffermarsi sull’art. 58, nel quale brilla ancora – e in modo inusuale – la sagacia del nostro legislatore, capace di contraddirsi in pochissime righe, con l’inaugurare l’ennesimo bizantinismo, affidandolo alle elucubrazioni di un interprete ormai assuefatto ad ogni arzigogolo e perciò immune da ogni sorpresa.
Infatti, il primo comma ci dice che l’autorità giudiziaria, per le proprie determinazioni, deve valutare lo svolgimento del programma e, “anche ai fini di cui all’art. 133 del codice penale, l’eventuale esito riparativo”.
Tuttavia, il secondo comma afferma che “in ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa”.
Ne viene allora che mentre il secondo comma dell’art. 133 – di cui il giudice deve tener conto – impone di valutare la capacità a delinquere del colpevole, desunta – ai sensi del n. 3) – “dalla condotta contemporanea e susseguente al reato”, l’art 58, anche qui al secondo comma, vieta la produzione di effetti sfavorevoli verso la persona indicata come autore dell’offesa “in ogni caso”.
In quale caso? Evidentemente nel caso in cui l’esame della “condotta contemporanea e susseguente al reato” – si presume nel corso della procedura riparativa – importerebbe un effetto sfavorevole per chi sia indicato come autore del reato.
Insomma, con una mano si prende e – come usa dire – con l’altra si dà: segno ulteriore della confusione concettuale in cui pericolosamente versa un legislatore ormai preoccupato unicamente di prendere le distanze dall’esigenza di giustizia, vista come un’utopia del tutto irrealizzabile.
Risulta perciò falso ciò che affermano gli entusiasti della (in)giustizia riparativa – non ultimi i sedicenti interpreti della cultura politica di tradizione cattolica, i quali tendenzialmente abdicano acriticamente alla ragione appena avvertano il profumo di accordi e compromessi[11] – e cioè che la mancata conclusione di un accordo non influisca in alcun modo sul giudizio di merito in danno dell’imputato.
E risulta falso perché, anche ammesso che la motivazione di un provvedimento sfavorevole non possa espressamente menzionare un comportamento oppositivo o indifferente dell’imputato, è inevitabile che la coscienza del giudice ne rimanga “impressionata”, nel senso etimologico di “segnata da un’impronta” e che per via di questa impressione si motivi in altro modo una pronuncia comunque sfavorevole.
È insomma il ben noto fenomeno che si registra allorché di fronte al divieto di utilizzare determinate prove irritualmente assunte, il giudice – nella impossibilità di espellere dalla coscienza ciò che nella rappresentazione personale vi ha pur fatto ingresso – tende, in perfetta buona fede, a confezionare una diversa e imprevista motivazione, che comunque conduca alla condanna dell’imputato: ciò che era uscito dalla porta rientra dalla finestra[12].
Un caso “di scuola”, riproposto dalle norme sulla (in)giustizia riparativa: ma nessuno sentiva davvero il bisogno di tornare ad indurre una prassi tanto involontaria, quanto antigiuridica (antigiuridica perché involontaria).
2) Il peccato irredimibile che macchia il decreto in esame e, ancor prima, il concetto stesso di (in)giustizia riparativa è tuttavia un altro: ed è quello di aver delegato le ragioni della verità e della giustizia (della giustizia quale verità del diritto e del processo) ad un labirinto inestricabile, consacrato ad una improbabile procedura tessuta di relazioni, comportamenti, consensi, dissensi, compromessi, valutazioni, tutti e ciascuno inequivocabilmente consegnati a soggetti privati, primo fra gli altri il soggetto passivo del reato.
Ora, che costui debba esser tenuto nella massima considerazione va da sé, costituendo un autentico topos dell’intera tradizione penalistica.
Che invece debba mutar d’identità, divenendo – come esige la (in)giustizia riparativa – una sorta di collaboratore del giudice o, per dir così, un suo ausiliare, dal soddisfacimento delle aspettative del quale trarre elementi di giudizio nel merito appare qualcosa di inesorabilmente aberrante ed inaccettabile.
Come ha infatti esattamente rilevato Paolo Prodi, ormai da tempo il diritto, nella nostra temperie culturale, non ha più la funzione di dichiarare la giustizia, per ristabilirla, ma quella ben diversa di affermare la vittoria dell’uno sull’altro[13].
In questa prospettiva, è con grande preoccupazione – causata sia dal constatare ciò che accade, sia dalla insensibilità degli entusiasti della ideologia del compromesso – che va denunciato ciò che la più accorta riflessione teorica ha rilevato: e cioè che la giustizia – quale principio veritativo del diritto destinato a fondare la coesistenza umana[14] – viene come sequestrata, per essere abbandonata alla più imprevedibile e capricciosa dialettica dei rapporti umani.
La giustizia, deposta dal suo seggio, tramonta così non per una temporanea ecclissi, ma per una progressiva e definitiva scomparsa.
Questo purtroppo l’esito nefando dall’operazione condotta nel nome della (in)giustizia riparativa, come hanno mostrato in modo esemplare due studiosi del calibro di Caroline Eliacheff – psicanalista – e Daniel Soulez Lariviere – giurista – allorchè hanno denunciato come la vittima sia divenuta ormai l’eroe del nostro tempo.
Oggi, quando una persona – essi chiariscono – patisce un danno, non solo giustamente chiede un risarcimento, ma diventa, con il supporto immancabile dei mezzi di comunicazione, un simbolo carico di emotività e capace di sottomettere alla propria volontà le dinamiche istituzionali e politiche dell’intera Nazione [15].
Insomma, il paradigma vittimario non è più quello delineato diversi decenni or sono dall’inimitabile capacità introspettiva di René Girard: esso non svolge più la funzione di identificare, svelare e depotenziare il meccanismo persecutorio presente in ogni società[16], ma, al contrario, ne diviene l’asse portante, la chiave di trasmissione necessaria per fondarne le dinamiche decisionali.
Ormai, «…essere vulnerabili è garanzia di invincibilità. La doglianza dà potere, anche se è solo il potere del ricatto emotivo, che crea un tasso di sensi di colpa sociali mai registrato in precedenza. Dichiàrati innocente, e ci rimetti la testa»[17].
E’ purtroppo esperienza comune contemplare, attraverso i canali televisivi, vittime di reati più o meno gravi e loro parenti e amici intenti ad assediare impavidi collegi giudicanti, a lor dire responsabili di aver inflitto all’imputato una pena non sufficientemente elevata o di averlo addirittura assolto, pronti peraltro ad inscenare manifestazioni pubbliche, con l’ausilio dei mezzi di comunicazione, allo scopo di ottenere condanne o pene esemplari: scene penose e fino a pochi anni fa letteralmente impensabili[18].
E’ stato di recente il compianto Filippo Sgubbi a notare: “In questo contesto (quello della (in)giustizia riparativa: n. d. A.), le aspettative della vittima diventano fonte di responsabilità penale, nel senso che dell’ambito della responsabilità penale di chi ha agito ( o di chi avrebbe dovuto agire ) delineano il perimetro.
Gli obblighi di fare o di non fare – come precetti penalmente significativi – vengono così forgiati dagli interessi delle vittime, il cui urlo sociale ‘vogliamo giustizia’ significa semplicemente ‘vogliamo avere ragione noi’. Con una indebita assimilazione fra ragione di giustizia quale risoluzione imparziale di un conflitto e ragione di parte quale soddisfazione unilaterale del proprio personale interesse. Giudici e parti in causa si identificano[19].
Sicché, essendo questo l’orizzonte di pensabilità di questi fenomeni, il pericolo insito nel concetto di (in)giustizia riparativa è esiziale per ogni possibilità di giustizia, la quale rischia appunto di tramontare, perché se c’è un soggetto processuale che mai va assimilato o semplicemente accostato al giudice e all’imputato, ebbene questi è proprio la persona offesa dal reato per cui si procede: le sacrosante spettanze di questi vanno certo riconosciute e tutelate, ma sempre e soltanto attraverso percorsi processuali che siano ben attenti a non propiziare pastiche del tipo di quello esemplato dalla (in)giustizia riparativa, nel cui ambito ogni cosa è confusa perché nulla è chiaro e distinto e ove la sorte dell’imputato non si può escludere in linea di principio possa essere condizionata dalle pretese e dalle aspettative – vane o soddisfatte – della vittima.
Da ultimo, due brevi corollari.
- A) La civiltà del diritto penale sorge proprio quando si ritenne necessario tenere ben distanti l’accusato, da un lato, e la vittima, dall’altro.
Nonostante le benemerenze comunque ascrivibili alla lex talionis[20], si cercò progressivamente di superare la logica della vendetta, per mezzo della quale la vittima si faceva giudice del reo e perfino giustiziere. Si comprendeva bene dunque che la persona offesa va tenuta ben lungi dall’accusato: oggi lo si è dimenticato. Anche perché se l’imputato sia o non sia colpevole lo si saprà (forse) soltanto alla fine del percorso processuale: non prima.
- B) Il giudice penale non è – e non dev’essere – imparziale dal punto di vista strutturale. Infatti, per quanto possano restarne scandalizzati i benpensanti, il giudice ha da portare a pienezza – in coerente ossequio alla presunzione di non colpevolezza – un solo compito: quello di verificare se l’ipotesi accusatoria sia in grado di resistere ad ogni possibile tentativo di falsificazione.
Se non lo fosse, sul giudice graverebbe il dovere di assolvere, pur nella contumacia o nel silenzio dell’imputato: actore non probante, reus absolvitur.
La posizione del giudice penale non è perciò equidistante fra accusa e difesa, ma strutturalmente rivolta alla tutela dell’imputato, il quale trova così proprio nel giudice (a patto che questi sia e rimanga custode della propria identità) la sua miglior garanzia[21].
L’dea stessa di (in)giustizia riparativa contribuisce a scardinare questi delicati equilibri, facendo del giudice un soggetto istituzionale pronto a supervisionare e a raccogliere ogni spunto possibile di accordo fra le parti contrapposte, allo scopo di riversarne gli effetti nel giudizio di merito.
Egli tutela in questo modo, propiziandola, la possibilità dell’accordo, non più l’imputato. Il giudice dilegua: resta soltanto la controfigura di un funzionario incaricato di travasare le aspettative più o meno soddisfatte del privato nel cuore della regiudicanda.
- Conclusioni.
Naturalmente, nessuna sorpresa dall’emergere politico-populistico e normativo della (in)giustizia riparativa, dal momento che il fenomeno va inquadrato all’interno di una cornice più ampia e che interessa svariate manifestazioni della cultura contemporanea già note e studiate.
E’ stato soprattutto Jurgen Habermas – di certo il più profondo pensatore vivente – ad individuare nell’agire comunicativo il luogo di emergenza di quella razionalità discorsiva pubblica e universale che – in opposizione a quella tecnologica – consente la nascita e il perdurare di un assetto sociale definito democraticamente: la sfera pubblica diviene perciò il luogo di necessaria intermediazione fra istituzioni e società e le deliberazioni assunte dagli organismi preposti – pubblicamente discusse – possono essere legittimate e accettate in quanto comuni[22].
È quanto accade nel processo penale, nel cui ambito l’affermazione di un principio di giustizia può essere legittimato proprio dal porsi come pubblico e dall’essere pubblicamente discusso prima che la decisione sia adottata dagli organi competenti: l’universalità e la razionalità del dibattito pubblico propiziano la legittimazione sociale della decisione.
Invece, nell’ottica della (in)giustizia riparativa – secondo le parole di Klaus Luderssen – «sembra dunque che il diritto e la procedura penale […] verranno ad assumere insieme quei compiti che primariamente, in effetti, si collocano al di fuori di tali ambiti giuridici, vale a dire, soprattutto, nel diritto e nella procedura civile. Con l’acquisizione da parte della vittima di un ruolo più definito in sede processuale appare forse avviata un’evoluzione la quale, nel lungo termine, condurrà a far si che il confine fra diritto penale (inteso in senso lato) e altri settori del diritto sarà più difficile da tracciare. La pretesa punitiva dello Stato – secondo una tendenza che già si delinea in certi ambiti – potrebbe passare sempre più in secondo piano rispetto all’esigenza della vittima di conseguire una composizione di ordine materiale»[23].
Tanto peggio per lo Stato! – si potrebbe maliziosamente pensare. Peccato vada a ramengo, insieme allo Stato, la giustizia, che esso è tenuto a proclamare e ad assicurare e, con la giustizia, ciascuno di noi.
Ma, come sopra accennato, nessuna eccessiva meraviglia, dal momento che questa sorta di confisca privatistica di un principio di carattere pubblico, quale la giustizia, trova i suoi correlati in altre articolazioni culturali tipiche del nostro tempo.
Un solo emblematico esempio, quello delle regole grammaticali (ma altri se ne potrebbero addurre in relazione alla politica, alla morale, all’estetica ecc.).
La linguistica contemporanea, ormai abitualmente, censura infatti come assurdo ed anacronistico purismo la segnalazione degli errori grammaticali, dal momento che, dietro ad ogni errore, si celerebbe una regola di diverso tipo che, per quanto nascosta, sarebbe comunque in grado di assicurare la comprensione fra i due soggetti dell’interlocuzione: gli errori sarebbero soltanto altre verità, verità nascoste [24].
Anche in questo caso – a somiglianza di quanto abbiamo descritto accadere nel mondo del diritto – il principio regolatore della lingua, garanzia di una comunicazione universale e pubblica, viene perciò ripudiato, a favore di una interlocuzione particolaristica e privatizzata, dotata certo di efficacia comunicativa, benché assai circoscritta e fatalmente interdetta a tutti coloro che ne rimangano esclusi.
Si consuma in tal modo, nell’indifferenza dei più e per primi degli studiosi di linguistica, il tramonto della grammatica come forma universale di conoscenza e di comunicazione.
Insomma, possiamo consolarci. A dileguare, la giustizia non sarà da sola. Può contare di farlo in buona e illustre compagnia!
* Già Magistrato e attualmente Avvocato del Foro di Catania
[1] f. sabatini – v. coletti, Dizionario essenziale della lingua italiana, Milano, Sansoni, 2007, voce Populismo, pag. 1032. Sarebbe più corretto, invece che di “populismo”, parlare di “sentimentalismo” giudiziario, prendendo in prestito la terminologia di Kant nel censurare l’umanitarismo penalistico di Beccaria: I. kant, La metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, 1973, pag. 168-169. Tuttavia, preferisco il termine “populismo” per significare la censura da me mossa alla (in)giustizia riparativa, riversando contro la stessa – retoricamente – l’accusa di populismo troppo spesso avanzata nei confronti dei suoi critici, in quanto si ergano a tutela del “buon senso” (il quale, come scrive Manzoni, c’è, ma se ne sta nascosto per paura del “senso comune”, quest’ultimo sì espressione autentica di populismo).
[2] La letteratura sul punto è oramai sterminata. Ex plurimis cfr.: AA.VV., La giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Il Mulino, 2015; f. fiorentin – c. fiorio, Diritto penitenziario e giustizia riparativa, La Tribuna, 2023; m. bouchard – f. fiorentin, La giustizia riparativa, Giuffrè, 2024; p. lattari, La giustizia riparativa, Key Editore, 2021; l. eusebi, Giustizia punitiva e giustizia riparativa: quali rapporti?, in Sistema Penale, 24 novembre 2023; g. fiandaca, Considerazioni su rieducazione e riparazione, in Sistema Penale, 25 ottobre 2023; r. bartoli, Una giustizia senza violenza, né Stato, né diritto, in Sistema Penale, 28 luglio 2023; r. bartoli, Giustizia vendicatoria, giustizia riparativa, costituzionalismo, in Sistema Penale, 22 marzo 2023; g. solinas, La giustizia riparativa secondo la visione del Pubblico Ministero, in Sistema Penale, 24 novembre 2023; l. bisori, La giustizia riparativa dalla prospettiva dell’avvocato, in Sistema Penale, 24 novembre 2023; a. menghini, Giustizia riparativa: i principi generali, in Sistema Penale, 24 novembre 2024; m. bouchard, Cura e giustizia dell’offesa ingiusta: riflessioni sulla riparazione, in Questione Giustizia, 27 luglio 2022; m. mancini – f. brunelli, La giustizia riparativa e il ruolo della magistratura, in Questione Giustizia, 27 giugno 2022; m. bouchard – m. fiorentin, Sulla giustizia riparativa, in Questione Giustizia, 23 novembre 2021; m. donini, Paradigma vittimario e idea riparativa. criteri di orientamento in una potenziale contraddizione di sistema, in Diritto di Difesa, 16 luglio 2024; l. luparia donati, L’ascesa della vittima, il crepuscolo dell’imputato. il pendolo alterato del processo penale, in Diritto di Difesa, 22 luglio 2024; e. amati, “Crudeli illusioni” e populismo vittimario, in Diritto di difesa, 21 luglio 2024; o. mazza, Delitto e morale nella nuova sintassi penale della giustizia riparativa, in Diritto di Difesa, 20 maggio 2024.
[3] L’originale terminologia inglese mette in risalto, invece della riparazione, il “ristoro”, il quale, nel lessico giuridico di tradizione continentale equivale a “risarcimento”, termine di stampo nettamente civilistico. Cfr. Cfr. aa.vv., The big book of restorative justice, Skyhorse Publishing, 2015; w. cragg, The practice of punishment. Towards a theory of restorative justice, Routledge, 1992; f. reggio, Giustizia dialogica, FrancoAngeli, 2010; f. reggio, Concordare la norma. Gli strumenti consensuali di soluzione della controversia in ambito civile: una prospettiva filosofico-metodologica, Cleup, 2017; f. zanuso – f. reggio, Per una nuova giustizia possibile. Un progetto per la città, Edizioni Scientifiche Italiane, 2014; h. zehr, Changing lenses. Restorative justice for our times, Herald Press, 2015.
[4] E la cosa appare tanto più grave quanto più inconsapevole, postulandosi qui la buona fede di siffatti populisti.
[5] Cfr. r. barthes, Sistema della moda, tr. it., Einaudi, 1972.
[6] La giustizia, in sé, non ripara nulla, ma conosce e dichiara, sicché destinarla ad una riparazione significa relegarla nel limbo – ossimorico – della autocontraddizione.
[7] Nel nostro Codice penale, il termine vittima appare soltanto due volte. La prima all’art. 131 bis, II comma, introdotto con D. Lgs. N. 28 del 2015. La seconda all’art. 62, I comma, n.6, introdotto proprio dal Decreto n. 150 del 2022 in tema di giustizia riparativa.
[8] Il fenomeno è simile alla traduzione pedissequa e pedestre che si suole leggere negli aeroporti, ove si avvisano i viaggiatori che la porta che stanno per attraversare è allarmata, dall’inglese alarmed: ovviamente, la porta non è, come parrebbe, preoccupata (e come potrebbe?), bensì dotata di allarme, unica traduzione corretta, ma per i nostri amministratori aeroportuali sconosciuta.
[9] g. leopardi, Pensieri, LXVIII.
[10] g. leopardi, Ivi, LXVII.
[11] Come se accordi e compromessi fossero sempre e in ogni caso il modo più acconcio – e rispettoso della persona – di risolvere i problemi della vita. In realtà non lo sono quando, come accade in questo caso, tentano goffamente, ma senza riuscirvi, di rimettere la giustizia pubblica nelle mani dei privati, con tutte le storture sopra accennate in danno proprio della persona umana e delle sue legittime spettanze, che la cultura cattolica ritiene peraltro giustamente inderogabili.
[12] Si tratta di dinamiche psicologiche ben note e investigate, per intendere la quali basta consultare un qualunque studio di psicologia giudiziaria. Sulla distinzione, nella interpretazione delle norme, fra “metodologia dei metodi” e “metodologia dei risultati”, che del fenomeno sopra descritto rappresenta il versante logico-filosofico, benché datato, rimane insuperato l. l. vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, 1975.
[13] p. prodi, Una storia della giustizia, Il mulino, 2015, pag. 480.
[14] Riprendo qui la ineguagliabile lezione teoretica di s. cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, 1995.
[15] c. eliacheff – d. soulez lariviere, Il tempo delle vittime. Come le vittime sono diventate i nuovi eroi della società democratica contemporanea, Ponte alle Grazie, 2008.
[16] r. girard, Il capro espiatorio, tr. it., Adelphi, 1987.
[17] Queste le sagaci notazioni di r. hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, tr. it., Adelphi, 2013, pag. 25.
[18] E domani, a cosa dovremo assistere oltre che all’assedio? Si dovranno forse dotare i giudici di apposite scorte dentro l’aula d’udienza, per proteggerli dagli assalti di vittime e di lor parenti o amici? E cosa si dovrebbe ribattere a chi in aula – dopo la lettura del dispositivo – essendo la pena irrogata non così elevata come quella da lui sperata, osi affermare pateticamente davanti alle telecamere – come accade – che, a seconda dei casi, il figlio, la figlia, il parente ecc., “è stato ucciso una seconda volta”? I giudici sarebbero così colpevoli di questo secondo delitto in danno della medesima vittima. Francamente, sono cose a tal segno assurde ed offensive che non si possono neppure ascoltare e che qui si fatica non poco a trascrivere.
[19] Cfr. f. sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi., Il Mulino, 2019, pag. 31. Corsivi non miei.
[20] In quanto stabiliva un limite oltre il quale il soggetto offeso non poteva spingersi nel vendicarsi: prima della affermazione di questo principio, la vendetta poteva consumarsi letteralmente senza alcun limite.
[21] Ho argomentato queste tesi – da nessuno mai contraddette – in un mio vecchio saggio ancora attuale: v. vitale, Purezza o imperfezione? Critica ad un’idea di giustizia procedurale pura, in “Sociologia del diritto”, 1988, I, soprattutto pag. 36 e ss.. In questa prospettiva, significativa la lezione di l. ferrajoli, Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Editoriale Scientifica, 2014. Ciò naturalmente non vuol in alcun modo adombrare che la difesa risulti inutile o superflua. Anzi, il ruolo del difensore sta proprio nel far sì che il giudice non trascuri mai la direzione che il proprio statuto ontologico lo induce ad assumere: la tutela dell’imputato.
[22] Il testo fondamentale di Habermas è naturalmente l’ormai classico j. habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad. it., Il Mulino, 2022. Ma si veda anche, Nuovo mutamento della sfera pubblica e politica deliberativa, trad. it., Raffaello Cortina Editore, 2023.
[23] k. luderssen, Il declino del diritto penale, Giuffrè, 2005, pag. 38.
[24] Per tutti, s. c. sgroi, Gli errori, ovvero le Verità nascoste, “Centro di studi filologici e linguistici siciliani”, 2019. Seguendo lo stesso solco teoretico, si veda ancora dello stesso autore, Dove va il congiuntivo? Il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet, 2013. Quale replica sul punto, mi sia consentito rinviare al mio breve saggio: v. vitale, Il congiuntivo: questo sconosciuto. Piccola apologia di un modo di pensare e di parlare, Algra, 2018.