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DESTINATI A NAVIGARE CONTROCORRENTE – DI VITTORIO MANES

DESTINATI A NAVIGARE CONTROCORRENTE – DI VITTORIO MANES

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DESTINATI A NAVIGARE CONTROCORRENTE

di Vittorio Manes

Il primo editoriale del Direttore Vittorio Manes.

È un grande onore assumere la direzione della rivista Diritto di Difesa, e raccogliere il testimone del Presidente Francesco Petrelli, al quale mi preme rivolgere un sentito ringraziamento anche e soprattutto per la sua brillante direzione di questi anni.

La rivista dell’Unione delle Camere Penali, e della maggioranza dei penalisti italiani, sta consolidando – e dovrà sempre più consolidare – il proprio ruolo scientifico e culturale nel panorama della dottrina e nel dibattito pubblico, grazie ad un autorevolissimo gruppo di studiosi e avvocati che partecipano attivamente alle diverse attività (Comitato di direzione, Comitato scientifico, Comitato dei revisori e Comitato di redazione), e che si amplierà ancor più con nuovi, preziosi innesti: sempre offrendo il punto di vista dell’avvocatura sulle principali problematiche che attraversano, e spesso affliggono, la “questione criminale”.

Da un primo punto di vista, e dall’angolatura scientifica, le opinioni e i commenti qui ospitati alle novità legislative e giurisprudenziali aspirano ad offrire un contributo critico che permetta di misurarne il grado di condivisione, e di accettazione, nella “comunità degli interpreti”: consapevoli che la prospettiva dell’avvocato è un punto di riferimento essenziale ed imprescindibile – nella “dialettica del dubbio” che contrassegna ogni contraddittorio che voglia dirsi proficuo – per verificare l’adeguatezza delle opzioni legislative, la correttezza delle ricostruzioni giurisprudenziali, le conferme e le modifiche eventualmente necessarie, o urgenti.

Ancor più significativo il ruolo che questa Rivista aspira a svolgere nella prospettiva culturale: in queste pagine hanno trovato e troveranno spazio contributi che, forti del proprio bagaglio tecnico ed esperienziale, cercano di contrastare il mainstream, la “retorica giustizialista”, le opinioni “veloci e frugali” con cui, sempre più, il problema “giustizia” viene affrontato, bagatellizzato e svilito, specie in campo penale.

Dovrà dunque proseguire un cammino da tempo intrapreso, che ha preso forma anche in concrete proposte di rinnovamento culturale come la redazione, cinque anni fa, del Manifesto del diritto penale e del giusto processo, ormai tradotto e diffuso anche in diversi paesi europei.

Consapevoli, come siamo, che i valori liberali di cui siamo portatori – nonostante la caratura costituzionale – sono, purtroppo, non solo minoritari, ma appaiono persino paradossali, in senso etimologico, giacché si scontrano con una opinione diffusa – con una doxa – sempre più schierata in direzione ostinatamente contraria.

Lo sappiamo bene: il “garantismo” non risponde ai convincimenti diffusi, né all’orizzonte d’attesa dei consociati: i suoi principi appaiono sempre meno compresi, accettati, e – come ormai più volte abbiamo evidenziato – spesso risultano controintuitivi o persino antilogici, tanto da non poter essere più considerati – come tutti vorremmo – “premesse liberali” scontate in uno Stato di diritto.

Basti pensare alla presunzione di innocenza, ossia ad un elementare principio di civiltà giuridica che è sempre più contestato nel dibattito pubblico, se non autenticamente rovesciato al semplice ricorrere di una iscrizione nel registro degli indagati: un accadimento ormai ubiquitario che dovrebbe considerarsi “atto neutro” – come ha recentemente evidenziato la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 41 del 2024) e come prevede lo stesso art. 335 bis c.p.p. – e che invece grava come una condanna anticipata sull’indagato, specie quando all’apertura delle indagini fa eco – come sempre più spesso accade – la grancassa mediatica, dove di fatto l’in dubio pro reo finisce con l’essere sovvertito, a furor di popolo, nell’in dubio pro republica.

La stessa idea di proporzionalità della pena appare poco congeniale alla communis opinio, atteso che la vox populi invoca semmai – specie al cospetto di reati odiosi – la simmetria della “legge del taglione” (“occhio per occhio, dente per dente”) ma non certo la proporzionalità o la mitezza del castigo; e tollera poco o nulla la stessa idea che la pena debba tendere a recuperare il reo, come testimonia l’inquietante proposta di revisione costituzionale volta ad emendare l’art. 27/3 Cost.

Più in generale, è da tempo messo all’angolo il principio di extrema ratio, della pena in generale e del carcere in particolare: una idea sempre più riottosa a penetrare nel sedime delle convinzioni diffuse, visto che ormai si scontra con una narrazione che elegge la pena a risposta elettiva ad ogni problema o ogni irritazione sociale, trovando costante sostegno e ricezione acritica nell’agenda della politica, che ne cavalca gli accenti più irrazionali, degenerando sempre più in una opinione scomposta e virulenta che vede il carcere non come luogo di recupero e come strumento di risocializzazione, bensì come luogo di marcescenza in cui rinchiudere il reo per poi “gettare la chiave”.

Gli effetti di questo declino culturale non hanno mancato, nostro malgrado, di manifestarsi in concreto.

I dati sui tassi di carcerizzazione dimostrano una progressiva e inarrestabile discesa agli inferi, una autentica catàbasi che si è consumata senza significative soluzioni di continuità negli ultimi anni. I numeri parlano chiaro: negli ultimi trent’anni la cifra dei detenuti – nonostante la significativa riduzione del numero di delitti commessi – è sostanzialmente raddoppiata: mentre nel 1991 i detenuti erano 31.053, il numero è oggi salito a 58.083, dunque a livelli analoghi al contesto precedente alla celebre sentenza di condanna della Corte EDU nel caso Torreggiani contro Italia; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1.867, due terzi dei quali espiati in regime di ostatività.

Ne emerge un contesto dove ad essere messa in discussione non è solo la seconda parte dell’art. 27/3 Cost., ma – prima e più in alto – la sua prima parte, quel valore cardinale per uno Stato di diritto che è il principio di umanità della pena. Quando la Costituzione afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità […]” offre una indicazione assiologica non solo programmatica ma precettiva che, da un lato, risulta intimamente riconnessa alla dignità umana, ossia ad un valore che non si acquista per meriti né può perdersi per demeriti; ed al contempo fissa un precetto che, dall’altro, impegna lo Stato a garantire che l’esecuzione della pena non si converta in un trattamento inumano.

L’emergenza drammatica che stiamo vivendo, segnalata dall’intollerabile numero di suicidi, testimonia dolorosamente quanto siano a rischio questi valori, quanto esasperata sia la deriva, e conferma l’urgenza di affrontare fattivamente questi problemi.

Per questo, nel primo fascicolo redatto sotto il nuovo corso della rivista, abbiamo ritenuto opportuno offrire uno spazio particolare a queste tematiche, con un “focus” sul “problema carcere”, ospitando diverse ed autorevoli riflessioni: sullo “stato di salute” dei principi sanciti nell’art. 27/3 Cost., sull’esigenza di ripensare – e superare – il regime delle ostatività, sulla recente, coraggiosa presa di posizione della Corte costituzionale in punto di umanità della pena ed affettività in carcere (sentenza n. 10 del 2024, sui colloqui intimi dei detenuti), sulle misure urgenti che possono essere esplorate per superare tassi di sovraffollamento ormai esorbitanti e restituire la pena custodiale, appunto, ad una dimensione più umana.

A noi appare necessario un salto di qualità interpretativo, che ricavi dall’art. 27 Cost., nelle sue diverse componenti, corollari coerenti, e perentori.

Dal principio di umanità della pena (art. 27/3, prima parte, Cost.), dovrebbe ricavarsi – crediamo – un preciso obbligo positivo di intervento statale, immediatamente attivabile – anche sul piano giuridico – per corresponsabilizzare lo Stato ove la pena, appunto, assuma tratti di inumanità: una positive obligation non diversa da quella che la Corte EDU ricava da diverse disposizioni convenzionali (ed anche dall’art. 3 CEDU), ossia una “obbligazione solidale” che dovrebbe coerentemente condurre a ricavare precisi obblighi rimediali (risarcitori, indennitari, etc.), declinabili anche in chiave di riduzione della pena inflitta, ove appunto le condizioni di espiazione non garantiscano che questa sia espiata in un contesto e con modalità dignitose.

Dal principio rieducativo, poi, dovrebbe essere ricavata una autentica “presunzione di rieducabilità” – come è stato da più parti autorevolmente suggerito – valevole per ogni condannato, al di là del titolo di reato e dalla astratta gravità del reato commesso: senza spazi, dunque, per meccanismi ostativi o automatismi presuntivi che inibiscano l’accesso ai benefici penitenziari in ragione di specifiche tipologie delittuose, spesso inserite nel “catalogo terribile” dell’art. 4 bis ord. pen. in ragione di sollecitazioni politiche, mediatiche o elettorali del tutto destituite di ogni razionalità.

A monte, si impone però un analogo ripensamento sui criteri di controllo che dovrebbero – che devono – guidare il legislatore nel controllo sulla misura della sanzione, e nella stessa scelta di incriminazione, per cercare di frenare una overdose punitiva che ormai si manifesta in tutte le direzioni: numero esorbitante di reati (overcriminalization), numero abnorme di procedimenti penali aperti (overprosecution), conseguente eccessività delle pene inflitte, anche in termini di severità (oversentencing), con gli effetti accennati sulla penalità secondaria, ossia sui tassi di carcerizzazione (overcrowding).

Qui, ancora, una recente posizione della Corte costituzionale (sentenza n. 46 del 2024) sembra aprire una nuova via, in seno ad una decisione che ha fulminato una delle tante “impennate punitive” della c.d. “legge spazzacorrotti” (l. n. 3 del 2019), esempio paradigmatico del più retrivo “populismo punitivo”, ossia il sensibile aumento della pena per il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), improvvisamente elevato, nel minimo edittale, da 15 giorni a due anni di reclusione (con un innalzamento, dunque, di ben “quarantotto volte”): scelta motivata facendo leva sulla asserita, fantomatica natura di “reato spia” che (anche) tale fattispecie avrebbe il relazione ai fenomeni corruttivi ed in generale ai reati contro la pubblica amministrazione.

È proprio questa irragionevole “impennata punitiva” – manifestamente sproporzionata anche in comparazione con fattispecie analoghe – che ha condotto la Corte ad alcune affermazioni originali, e dense di ricadute in ordine al controllo sulle scelte di incriminazione, sul bilanciamento con i diritti fondamentali incisi e sulla complessiva razionalità dell’equilibrio che ogni opzione punitiva deve rispettare: ribadita “l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della propria politica criminale”, la Consulta precisa che “[d]iscrezionalità, tuttavia, non equivale ad arbitrio”, ed evidenzia che “[q]ualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore”, con la conseguenza che “i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”, e rivendicando a sé – soprattutto – “il controllo sul rispetto di tali limiti”, controllo che deve farsi tanto più rigoroso “quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona”, “[…] il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.

Da queste innovative argomentazioni discende, appunto, la declaratoria di incostituzionalità della norma impugnata: con una scelta condivisibile nel merito, ma ancor più apprezzabile per il bagaglio metodologico che, oggi, ci consegna.

Se ne trae infatti che è la scelta di incriminazione a dover essere motivata, secondo uno “scrutinio stretto”, ed un rigoroso bilanciamento con gli interessi contrapposti, perché una tale forma di ingerenza statale incide in modo penetrante, e contundente, sulla sfera dei diritti fondamentali, e può considerarsi legittima se – e solo se – questa compressione risulti razionalmente giustificata e proporzionata in ragione degli interessi perseguiti.

Sembra dunque aprirsi un nuovo approccio, che arriva a porre in capo al legislatore un più chiaro onere di preventiva giustificazione dell’opzione punitiva, assoggettandolo non più solo ad un vaglio di “non manifesta irragionevolezza”, bensì ad uno scrutinio positivo di ragionevolezza e proporzionalità che misuri tale opzione al metro dell’extrema ratio e dell’incisione dei sottostanti diritti e libertà: in modo tale che siffatte scelte possano “apparire razionalmente collegabili a una qualche discernibile finalità”, perché “l’assenza di qualsiasi plausibile giustificazione” di un “inasprimento di pena” – come di ogni intervento punitivo in quanto tale – “rende di per sé costituzionalmente illegittima” l’opzione legislativa.

Un nuovo approccio, in definitiva, che dovrebbe rappresentare un monito ed un freno – munito di immediata “giustiziabilità costituzionale” – contro il dissennato dilagare dell’ipertrofia punitiva, contro la ormai conclamata epifania di un “diritto penale massimo” (N. Mazzacuva) e l’affermarsi di un “diritto penale totale” (F. Sgubbi); e soprattutto contro la conseguente erosione delle sfere di libertà individuali, giunta ormai a livelli intollerabili, ed incompatibili con gli equilibri di un diritto penale liberale, non solo nell’esperienza italiana; con le ricadute sui tassi di carcerizzazione che abbiamo, sinteticamente, evidenziato.

Questi, dunque, alcuni temi di incandescente attualità, e gli approdi più recenti del dibattito, che ad un tempo rappresenteranno oggetto delle nostre prime riflessioni.

Vedremo dove la riflessione saprà condurci: consapevoli, sin d’ora, che ci attende una navigazione in mare aperto e che ci è imposta una rotta controcorrente, ma altrettanto pronti ad affrontare il viaggio, insieme, con gli strumenti della parola e del dialogo, dell’argomentazione e della critica.