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DISSE LA DEA ATENA: “NON POSSO GIUDICARE”. COSÌ NACQUE IL PROCESSO – DI FRANCESCO PETRELLI

DISSE LA DEA ATENA: “NON POSSO GIUDICARE”. COSÌ NACQUE IL PROCESSO – DI FRANCESCO PETRELLI

L’articolo del Direttore Francesco Petrelli, pubblicato oggi sul quotidiano Il Riformista consultabile al seguente link

Disse la Dea Atena: “Non posso giudicare”. Così nacque il processo.

Titolo originale: GIUSTIZIA E RAGIONE: ORESTE E LA NASCITA DEL PROCESSO.

Portata in scena per la prima volta nel 458 a.C. in quel teatro di Dioniso posto sulle pendici dell’Acropoli di Atene, l’Orestea di Eschilo ci parla dei conflitti che agitano il mondo della Giustizia e di come la Ragione può governarli, generando nuovi equilibri per la Polis. Dopo quasi duemilacinquecento anni quest’opera ha ancora qualcosa da dirci circa le insopprimibili pulsioni emotive della collettività ed il loro rapporto con le nuove contrastanti ma indeclinabili esigenze della ragione e della democrazia.

La storia di Oreste costituisce l’epilogo di un terribile delitto: sua madre Clitennestra, con la complicità dell’amante Egisto, aveva infatti ucciso il suo sposo, Agamennone, re di Argo e Micene, mentre questi, reduce vittorioso dalla guerra di Troia, era immerso nel tiepido abbraccio di un bagno ristoratore. Su Oreste, unico figlio maschio del vecchio re, incombeva ora il terribile onere della vendetta. Fu così che, “immerso il suo collo nel collare della necessità”, spinto dal seme e dal sangue, assieme al suo fedele amico Pilade, Oreste giunse ad Argo per compiere il suo terribile dovere e, penetrato nella reggia, uccise Egisto, assassino del padre ed usurpatore del trono. E, tuttavia, Oreste, nel compiere la sua vendetta, assieme ad Egisto uccide anche la madre Clitennestra, gettando così la sua esistenza – come narra Eschilo – in un gorgo di tormenti.  Le Erinni, spietate persecutrici dell’ordine divino che si assume violato, rimproverano infatti ad Oreste di aver calpestato la sacra legge del ghenos che non tollera l’uccisione di un consanguineo. Che Oreste avesse vendicato il padre uccidendone l’assassino, nulla quaestio, era anzi questo che faceva di Oreste, per Omero, un esempio da additare. Oggetto d’orrore è il matricidio, l’uccisione di colei che gli aveva dato la vita. Braccato da questi esseri mostruosi e sanguinari che inoculano nel suo animo visioni terrifiche, in preda alla follia, Oreste fugge di paese in paese, finché stanco di fuggire non decide di  chiedere all’oracolo di Apollo, la Pizia, cosa avrebbe potuto liberarlo dall’ossessione delle sue persecutrici. Ed è a questo punto che la tragica vicenda di Oreste, la colpa di un terribile crimine, si tramuta in una nuova esperienza collettiva. Narra, infatti, Eschilo una storia diversa da quella narrata da altri autori. Giunto a Delfi, approfittando del sonno prodigiosamente disceso sulle Erinni, Oreste interpellò l’oracolo: Apollo lo invitò a recarsi da Atena chiedendo alla dea stessa di giudicare il suo terribile delitto, liberandolo così, nel caso di un giudizio favorevole, dalla oscura persecuzione dei demoni materni (“dove sia fra le due parti il giusto vedrà Pallade Atena”; Eschilo, Eumenidi). Fatto sta che Atena, interpellata da Oreste, sentendo il peso di un conflitto irrisolvibile fra due ragioni evidentemente contraddittorie, si rifiuta di giudicare una simile colpa (“se qualcuno pensa che troppo grave sia per gli uomini mortali giudicare questa contesa, neanche a me conviene dare giudizio di una uccisione che suscita così acute collere vendicatrici”, Eschilo, Eumenidi). Troppo gravoso è dunque il compito di giudicare? E lo è addirittura anche per una dea? E’, tuttavia, proprio da questo inatteso e sorprendente rifiuto che nasce qualcosa di nuovo: nasce il processo. Atena pensa infatti ad un gesto collettivo più complesso come soluzione di questa inaudita tensione fra le regole antiche, che il furore delle Erinni rappresenta, e la necessità di un nuovo equilibrio all’interno della collettività: il giudizio degli uomini è cosa che gli uomini stessi possono e devono risolvere fra di loro (“poiché la lite a tal punto è precipitata, io eleggerò giudici giurati e fonderò un istituto di giustizia”, Eschilo, Eumenidi). Con la necessità di giudicare il matricidio di Oreste nasce per gli uomini la facoltà di trarre verdetti, la presunzione di tracciare nell’agorà il nuovo confine fra il giusto e l’ingiusto. Il ghenos, il vincolo tribale che lega le generazioni con le sue antiche regole sanguinarie, proprie della vendetta privata, entra in conflitto con le nuove regole della Polis e con i suoi nuovi difficili equilibri democratici. Un nuovo istituto deve dunque placare questo attrito. Il divino che ha sino ad allora governato il cosmo, ha ora bisogno degli uomini. Non è forse Themis, la dea della giustizia, figlia di Urano e di Gea, e figlia, dunque, tanto del cielo che della terra? E non è forse vero che Themis stessa, la giustizia divina, per scendere fra gli uomini deve farsi Dike, “l’atto concreto del giudicare”, che altro non è che un pallido riflesso della sua Giustizia? Ecco allora che Atena, consapevole della necessità di questo arretramento, nega il suo giudizio, si rifiuta scandalosamente di giudicare da sola Oreste, sostituendo al proprio giudizio un nuovo ordine delle cose, che costituisca un limite alla furia vendicativa degli uomini e degli dei, una forma nuova di giudizio che offrirà un modello per tutti gli uomini a venire (“Debbono costoro – le Erinni – apprendere le leggi che io qui, per sempre, stabilisco”, Eschilo, Eumenidi). E non è neppure un caso, ancora, che autrice di questo nuovo “istituto di giustizia” non sia Themis stessa, la dea che da sempre governa la Giustizia celeste, né Dike, la sua apostasi terrena, e neppure Nemesis, colei che ristabilisce l’ordine violato, ma proprio lei, Atena, dea della Ragione. Come dire che Giustizia e Processo sono termini distinti, figli di due diverse necessità, le quali generano tensioni a volte armoniosamente composte, ma mai del tutto risolte. Atena fornisce agli uomini il know how del processo: il luogo sarà l’Areopago, luogo sacro e conchiuso, i giudici saranno dodici, le Erinni sosterranno l’accusa, Apollo stesso sarà il difensore di Oreste. Sappiamo anche come nella rielaborazione del mito il processo nasce già accusatorio e nasce governato dalla Ragione (dice Atena: “accusatore ed accusato vedo qui presenti, ma di uno solo odo la voce … tu ospite, cosa hai da dire? … rispondi con chiarezza su tutto”, Eschilo, Eumenidi). L’accusa è mossa invece da un furore di vendetta per l’ordine cosmico violato: per le Erinni ogni legge umana sta come una legge fisica, riflesso delle leggi che regolano il cosmo, colui che la infrange è vittima di un contrappasso, come ogni corpo che sollevato a dispetto della gravità riprecipiti verso il centro (“immutabile è la Erinni, abili e tenaci al compito nostro, memori delle colpe e sorde al pianto degli uomini”, Eschilo Eumenidi). Le Erinni che un tempo più arcaico aveva descritto come “spiriti malvagi intenti a danneggiare l’uomo” (la radice del nome, Eris, indica la ferocia della contesa sottratta ad ogni mediazione razionale), sono creature legate ai primitivi culti ella terra. Nella prima parte delle Eumenidi esse appaiono dominate da una legge primordiale ed oscura. Le Erinni sono divinità psicopompe, portatrici dello spirito dell’uomo ucciso che compare sotto forma di serpente e che in esse torna “bramoso di vendicarsi” (“ti supplico madre, non scatenarmi addosso quelle donne dagli occhi sanguinanti, con dei serpenti sulla testa”, Eschilo, Agamennone). E’ la stessa Atena, ispiratrice del processo, a presiedere il collegio di giudici ateniesi sull’Areopago. Come a dire che non è giudice la Giustizia e che il processo è affare che riguarda la Ragione soltanto ed in essa si risolve. Se la giustizia, come desiderio di vendicare il torto subito, la spinta a sanare la ferita lacerata del delitto, ispira le ministre di Themis, essa trova nel processo un “limite” invalicabile (“ogni azione ha un termine fisso”, Eschilo, Eumenidi), il limite estremo della Ragione. Il processo non è dunque vendetta, ma ragionevole contesa. Le Erinni, tuttavia, si opporranno con tutte le forze al tentativo di introdurre il nuovo ordine delle cose. Alle Eumenidi/Erinni il nuovo gioco non piace. Non piace che la Giustizia sia lasciata in mano ad una tenzone dialettica, al verdetto di un giudice “terzo”. Sotto la superficie benigna del nuovo nome, Eumenidi, conservano ancora un rancore irriducibile, vogliono vedere Oreste condannato ed annientato (“furore e collera, nessun altro respiro è in me”, Eschilo, Eumenidi). A loro non piace l’idea della sfida e della contesa dialettica, fondata sulle ragioni argomentative dell’uno e dell’altro, l’idea stessa di un possibile esito assolutorio. Insorgono con argomenti di “difesa sociale”: “vedrete voi ora a quali rovine porteranno le nuove leggi, se la causa di questo matricida dovrà prevalere, agli uomini sarà facile ogni audacia … la casa di giustizia è crollata!” (Eschilo, Eumenidi). Le accusatrici di Oreste presentono la disfatta: il primo processo si risolverà, infatti, con una clamorosa assoluzione (decisivo, nel determinare la parità dei voti che condurrà all’esito favorevole, il voto di Atena), quasi a simboleggiare la sua funzione salvifica di garanzia piuttosto che il suo asservimento ad uno strumento di afflizione.

Oreste, scagionato dall’accusa, tornerà al suo regno sui monti e governerà saggiamente i suoi sudditi. Non ci rende, dunque il processo la verità del delitto, la verità di Oreste e della sua anima, tuttavia placa la furia vendicatrice delle Erinni, razionalizza i conflitti. Nel cammino del mito il passaggio risulta evidentemente benevolo. Tanto è chiaro che ciò che Atena ha donato agli ateniesi è un frutto benefico, un nuovo ordine delle cose umane, che le Erinni stesse, “use da tempo ad esprimersi solo con maledizioni”, abbandonano l’aspro furore di Eris, ed “imparano un nuovo canto” (Eschilo, Eumenidi). Nella nuova dialettica secolare del processo, nell’Areopago, non è più possibile che le Erinni conservino l’illimitato potere della persecuzione del colpevole senza sottoporre la loro legittima aspettativa ai limiti del giudizio:   “tu – rimprovera Atena alla Erinni – preferisci aver nome di persona giusta anzichè praticare giustizia” (Eschilo, Eumenidi). Esse, dunque, dovranno apprendere una nuova armonia, un “nuovo canto”, dovranno essere assoggettate a un termine, ad una nuova legge. Non devono perdere le loro prerogative di accusatrici e non perdono, infatti, nella tragedia eschilea, le loro maschere terrifiche fino alla fine, e per l’avvenire) ma devono accettare le regole nuove della Polis, moderare il loro furore, rifiutare le radici sanguinarie del ghenos che le ispira. Accordandosi alla nuova  convivenza civile, le Erinni avranno un santuario adatto alla loro natura ctonia,  scavato nella profondità della terra, nell’antro di Ogigio posto fra l’Acropoli e l’Areopago (“qui rimani ad abitare con me … in questa terra devota a giustizia avrete la vostra sede, avrete il vostro adito sacro e quivi sedute presso gli altari su lucidi seggi da tutti i cittadino avrete devozione ed onori”, Eschilo, Eumenidi). E’ la Ragione, dunque, che dona agli uomini il processo e ne fa uno strumento di salvezza per il cittadino e per la Polis, sempre che gli uomini ne sappiano con coraggio riconoscere i limiti e le virtù. Perché, forse, come scrive Salustio, “queste cose non furono mai, ma sono sempre”.