QUALCHE CONSIDERAZIONE IN MARGINE ALLE LINEE-GUIDA DELLA PROCURA DI TIVOLI IN MATERIA DI REATI SOGGETTI ALLA DISCIPLINA DEL C.D. CODICE ROSSO. A PROPOSITO DELL’ATTENDIBILITÀ DELLA PERSONA OFFESA – DI ALDO FRANCESCHINI
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QUALCHE CONSIDERAZIONE IN MARGINE ALLE LINEE-GUIDA DELLA PROCURA DI TIVOLI IN MATERIA DI REATI SOGGETTI ALLA DISCIPLINA DEL C.D. CODICE ROSSO. A PROPOSITO DELL’ATTENDIBILITÀ DELLA PERSONA OFFESA.
di Aldo Franceschini*
Prendendo spunto dalle recenti linee guida sui “reati di violenza domestica e di genere” della Procura di Tivoli, lo scritto analizza in modo critico alcune pronunce della Corte di cassazione in cui si è affermato la c.d. presunzione di veridicità della testimonianza, con particolare riguardo a quella resa dalla persona offesa dal reato. Il contributo, evidenziando il contrasto di tale assunto con la presunzione di non colpevolezza e il principio del libero convincimento del giudice, finisce per mettere in luce come al fondo di orientamenti del genere vada individuata una visione ideologica espressiva dell’attuale cultura della giurisdizione. Per propiziare un allineamento della cultura dei giudici al paradigma costituzionale – denso di princìpi controintuitivi – e fare in modo che essa finalmente esibisca “credenziali accusatorie credibili”, la separazione delle carriere, al centro dell’attuale dibattito pubblico e scientifico, appare una svolta tanto essenziale quanto ineludibile.
This paper, inspired by recent guidelines on crimes of gendered and domestic violences issued by the public prosecutor’s office in Tivoli, critically analyses some decisions delivered by the Court of Cassation in which it was stated the presumption of truth of witness, specially that given by the victim. The work, highlighting the contrast of this assertion with the presumption of innocence and the principle of free appraisal of the judge, clarifies that at the base of this kind of court decisions is there an ideological vision expressive of the current jurisdictional culture. To propiziate an alignment of the judicial culture to the constitutional paradigm – full of counterintuitive principles –, ensuring that it finally shows “credible accusatory credentials”, the separation of careers (the topic of current public and scientific debate) appears an essential and inescapable change.
Sommario. 1. Dal paniere della soft law, un eccentrico strumento di moral suasion; 2. La presunzione di attendibilità della persona offesa (rectius, del testimone comune), tra giurisprudenza di legittimità e giurisprudenza di merito; 3. Principio di diffidenza vs presunzione di veridicità; 4. Critica dell’attuale cultura della giurisdizione, per un’autentica cultura del giudice.
- Dal paniere della soft law, un eccentrico strumento di moral suasion.
Questo breve scritto prende spunto dalle recenti linee guida confezionate dalla Procura della Repubblica di Tivoli (d’ora in avanti, per brevità Linee guida 2024)[1] in materia di reati rientranti nel cono operativo della disciplina differenziata etichettata dall’ormai nota locuzione Codice rosso[2]. E, in particolare, dalle pagine riservate alla valutazione di attendibilità della testimonianza resa dalla persona offesa dal reato, collocate in una intera sezione dedicata alle tematiche di natura procedurale (Questioni procedimentali/processuali)[3]. In questa porzione del documento, si propone una lettura ragionata di un discreto repertorio di arresti della giurisprudenza di legittimità e una valorizzazione dei princìpi di diritto che se non possono, in qualche modo, enucleare.
Poiché reputo una buona abitudine quella di non dare nulla per scontato, adotterei anche in questa occasione un approccio improntato a tale metodo, iniziando con l’interrogarmi sulla natura di tale documento. D’altra parte non può non saltare subito all’occhio che si tratta di un testo particolarmente articolato e ricco di contenuti, una sorta di piccolo trattato (sfiora le cento pagine!).
In questa operazione tassonomica sono agevolato dalla pubblicazione della recente Circolare approvata a luglio 2024 dal Consiglio superiore della magistratura in tema di organizzazione degli uffici requirenti[4]. Viene subito in rilievo l’art. 14, dedicato agli Atti di indirizzo e protocolli investigativi, nel quale si prevede, in incipit, che «il procuratore della Repubblica, ai fini della maggiore efficacia nell’esercizio dell’azione penale e della completezza delle indagini preliminari, promuove l’elaborazione di linee guida e protocolli investigativi con particolare riferimento ai settori di maggiore rilevanza e alle materie di più elevata complessità tecnica»[5]. Il comma successivo chiarisce che «le linee guida e i protocolli contengono atti d’indirizzo, sia di carattere organizzativo che di carattere investigativo, e vengono elaborate sulla base delle esperienze maturate nei gruppi di lavoro, sezioni o dipartimenti a cui esse si riferiscono, a seguito delle periodiche riunioni dei magistrati che ne fanno parte, tenendo conto degli eventuali protocolli d’intesa e degli accordi di cooperazione interistituzionale» (il corsivo è nostro).
Dalla lettura di tali enunciati si evincono chiaramente due aspetti. Il primo riguarda il contenuto: l’oggetto delle linee guida e dei protocolli investe aspetti dell’organizzazione del lavoro dei pubblici ministeri e attività di tipo investigativo. Il secondo concerne i destinatari: tali documenti, elaborati anche con il contributo delle risorse dell’ufficio, si rivolgono ai magistrati in servizio presso la procura.
E allora è facile osservare come le Linee guida 2024 della Procura di Tivoli presentino, almeno in una sua ampia parte, un’anima per così dire esuberante rispetto al paradigma tracciato nella Circolare del Consiglio superiore della magistratura. Per un triplice ordine di ragioni. Perché: includono una raccolta ragionata, ma anche “orientata”[6] di precedenti giurisprudenziali; si riferiscono anche (e in larga misura) a profili diversi da quelli organizzativi e investigativi; sono potenzialmente destinate (anche) a soggetti diversi dai Sostituti procuratori appartenenti all’Ufficio.
Insomma un documento che, emancipandosi dalle coordinate impresse ad atti di questa natura, si propone come un ibrido, che ingloba in sé aspetti tipici dei protocolli investigativi, si arricchisce con contenuti propri delle pubblicazioni in materie giuridiche[7] e ambisce ad esercitare un’efficacia divulgativa con finalità di persuasione (almeno questa è la sensazione che genera nel lettore). Un documento che si inserisce a pieno titolo nel paniere ormai molto ricco degli strumenti di soft law[8] (che stanno contribuendo a demolire il sistema delle fonti della procedura penale[9]), ma che sembra tradire l’ambizione ad esercitare una certa influenza nella materia, anche sui soggetti chiamati ad esercitare la funzione giurisdizionale. Un documento che non riesce a dissimulare una intima vocazione alla moral suasion; in fondo, verrebbe da dire – “giocando” con il primo termine di questa espressione e correndo il rischio di essere politically incorrect – che la materia si presta molto a torsioni moralizzatrici.
D’altra parte il confronto comparativo con le precedenti linee guida diramate dalla Procura di Tivoli sulla medesima materia[10] restituisce la sensazione di un significativo up-grade. In effetti, in queste versioni ci si limitava, più o meno, ad offrire indicazioni di carattere investigativo, in (tendenziale) aderenza al paradigma para-normativo tratteggiato dalla produzione consiliare poc’anzi rammentata. Addirittura, nella prima versione, per descrivere la fisionomia del documento, si indicavano la sua «finalità di carattere pratico-operativo» e la scelta di evitare «approfondimenti di rilievo dogmatico e di inquadramento sistematico, se non strettamente indispensabili»[11]. Nella “edizione” 2024, invece, si affronta la materia a tutto tondo, toccando, in particolare, molti profili che rilevano nell’ambito del giudizio in senso stretto. Così da ampliare, come si diceva poc’anzi, la platea dei suoi potenziali “destinatari”: non solo i Sostituti procuratori in servizio presso la Procura di Tivoli, ma anche i Giudici del Tribunale di Tivoli e gli avvocati. Una sorta di manifesto urbi et orbi.
Così come le linee guida licenziate nel 2018 dal Consiglio superiore della magistratura per la trattazione dei procedimenti relativi ai reati di violenza di genere e domestica[12] e la risoluzione del 2021 sugli esiti del successivo monitoraggio[13] non si occupano affatto degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità sugli istituti che rilevano ai fini applicativi. In essi, va rimarcato, si tengono anche ben distinti gli uffici interessati dall’iniziativa, requirenti e giudicanti[14].
Ultima annotazione. Sul sito web della Procura, nella sezione in cui risulta pubblicata la notizia delle nuove linee guida, compare questa precisazione: «Il documento è pubblicato anche in formato modificabile per consentire di riprendere agevolmente le parti di interesse, nella sezione Contrasto alla violenza di genere, Linee guida». Comunicazione che suona come una sorta di invito ad attingere a piene mani da esso, all’insegna del “copia e incolla”, da parte di chiunque si riconosca nei princìpi snocciolati nel denso vademecum[15].
- La presunzione di attendibilità della persona offesa (rectius, del testimone comune), tra giurisprudenza di legittimità e giurisprudenza di merito.
Fatta questa premessa di carattere generale sul documento, veniamo subito al tema su cui voglio concentrare la mia attenzione: la valutazione delle dichiarazioni rese dalle (presunte[16]) vittime di reati riconducibili al genus di quelli soggetti alla disciplina speciale del c.d. Codice rosso (uno dei tanti “binari” in cui è stata ormai disarticolata la Procedura penale in Italia e che noi, per raffinatezza, denominiamo modelli differenziati). In particolare, le Linee guida 2024 enunciano, “incorniciandolo”, il seguente principio: «la testimonianza della persona offesa è sorretta da una presunzione di veridicità, stante l’obbligo giuridico di deporre il vero ai sensi dell’art. 198 c.p.p.»[17]. E a sostegno dell’assunto vengono subito evocate diverse pronunce della Corte di cassazione, che, per il sol fatto di essere tali, solitamente si stimano essere ammantate da un’aurea di particolare autorevolezza (anche se non sempre si rivelano dotate di altrettanta persuasività dal punto di vista argomentativo).
L’istinto accusatorio che alberga in molti di noi, sospinto da un afflato di ingenuità, stenta a metabolizzare un’affermazione del genere, e vorrebbe scoprire che si tratti di fake news; magari, complice la suggestione di un recente “incidente” registrato oltreoceano[18], che si tratti di sentenze generate dall’intelligenza artificiale. Le cose, sorprendentemente, non stanno così; anche se – precisiamolo subito – il principio contenuto in alcune sentenze della Corte di cassazione suona in modo leggermente diverso, ed è per certi versi ancora più inquietante nelle sue potenziali dimensioni applicative. Vale la pena approfondire.
Le sentenze citate, nel corpo del testo e nelle note in calce, si approssimano alla decina e per raccapezzarci occorre metterle in fila. Per farlo seguiamo anzitutto il criterio cronologico e così ci si imbatte nelle sentenze: 1) n. 25429 del 2020[19]; 2) n. 6710 del 2021[20]; 3) n. 39578 del 2022[21]; 4) n. 3377 del 2023[22]; 5) n. 14247 del 2023[23]; 6) n. 37978 del 2023[24]; 7) n. 32042 del 2024[25].
Adottando un criterio “autorale” balza poi all’occhio che ben cinque sentenze di questo elenco[26] sono uscite dalla medesima penna[27].
Vengo alla enunciazione del principio in parola, sviluppata nei menzionati arresti giurisprudenziali, e agli argomenti che lo dovrebbero suffragare. Qui è interessante procedere ad una comparazione diacronica delle sentenze che compongono la sequenza di quelle che recano la medesima firma.
Nelle prime due pronunce[28], lo schema che si ripropone in modo pedissequo è il seguente. In prima battuta si evoca il consolidato principio secondo cui «il giudice può trarre il proprio convincimento, in ordine alla responsabilità penale dell’imputato e alla ricostruzione del fatto, anche in base alle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che siano sottoposte a vaglio positivo la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del suo racconto, in forza di idonea motivazione, senza la necessità di riscontri esterni» (il corsivo è il nostro)[29]; tra parentesi tonda, secondo il consueto stile redazionale, vengono poi citate alcune sentenze a titolo di precedenti conformi: la nota pronuncia a Sezioni unite del 2012, Bell’Arte[30], e due sentenze della Terza Sezione, la n. 6710 del 2021 e la n. 25429 del 2020.
Immediatamente dopo, senza alcuna soluzione di continuità, si afferma – ed ecco il punto cruciale – che «la testimonianza della persona offesa è sorretta da una presunzione di veridicità, stante l’obbligo giuridico di deporre il vero ai sensi dell’art. 198 c.p.p. per cui il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca consapevolmente il falso» (anche qui i corsivi sono nostri); precisando che la tesi della falsa dichiarazione testimoniale può essere accolta dal giudice «soltanto quando vi siano specifici e concreti elementi in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza»[31]. In coda viene ripetuta la citazione delle sentenze n. 6710 del 2021 e n. 25429 del 2020 della Terza Sezione, su cui ci soffermeremo a breve.
Una volta setacciati i passaggi enunciativi e argomentativi del principio in esame, viene facile articolare d’emblée due considerazioni.
La prima. Affermare la sussistenza di una presunzione di veridicità di una certa dichiarazione, evocando quindi uno specifico congegno tecnico-giuridico[32], equivale a sostenere che la proposizione probatoria x (ad esempio, il mio compagno mi ha colpita con un violento pugno sul volto[33]) sia, nel suo contenuto, veridica per il solo fatto di essere stata resa nel corso di una testimonianza, senza necessità di ostendere e giustificare tale inferenza, e fatta salva la prova contraria. Il meccanismo funzionerebbe più o meno in questi termini: se il testimone Tizio dichiara x, allora x è vero a meno che vengano allegati elementi che dimostrino positivamente ¬x (non x) o che Tizio mente. D’altra parte, atteso che la locuzione è stata impiegata da una giurisdizione superiore nel testo di un provvedimento risulta difficile immaginare che ad essa si sia inteso assegnare un significato che non sia tecnico-giuridico.
La seconda considerazione. L’enunciazione del principio di veridicità, inteso in questi termini, si pone in flagrante contraddizione logica sia con il principio di diritto affermato nella proposizione precedente sia con la precisazione fatta nel periodo seguente. Mi riferisco ai passaggi che poco fa ho evidenziato con il corsivo: se occorre sottoporre a vaglio positivo la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità del suo narrato, siamo al di fuori del ragionamento presuntivo.
Già queste prime osservazioni basterebbero a scardinare, sul terreno della persuasività, la tenuta del costrutto in esame. Ma intanto il principio sta lì, ben “incorniciato” nelle Linee guida 2024, à portée de main, con tutta la sua carica suggestiva.
Proseguendo poi nella lettura delle cinque sentenze, sembra potersi rilevare una piccola metamorfosi nell’orientamento in questione. In particolare, nella terza sentenza, nel passo corrispondente – ossia dove si affronta, in termini sovrapponibili alle prime due sentenze, il tema dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa – si notano due chirurgiche interpolazioni, atteso che scompare l’incidentale «la testimonianza della persona offesa è sorretta da una presunzione di veridicità, stante l’obbligo giuridico di deporre il vero ai sensi dell’art. 198 c.p.p.» e risulta elisa, dalla coda, la reiterazione del richiamo alle due sentenze n. 6710 del 2021 e n. 25429 del 2020 della Terza Sezione[34].
Infine, nelle ultime due sentenze, la porzione dedicata al tema subisce un ulteriore progressivo prosciugamento. In particolare nell’ultima pronuncia, il punto si esaurisce nel richiamo al consolidato orientamento relativo alla potenziale autosufficienza probatoria delle dichiarazioni rese dalla persona offesa (a condizione, giova ribadirlo, che siano sottoposte al duplice canonico vaglio di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca)[35].
Che questa evoluzione sia frutto di un sostanziale ripensamento del Consigliere estensore o, magari, di una scelta di maggiore prudenza da parte del Collegio, difficile a dirsi. Certo il sospetto – alimentato dalle intuitive criticità esibite dal c.d. principio di veridicità – che si sia comunque trattato di un passo indietro fa fatica a diradarsi.
Per completare il percorso ricognitivo, è opportuno ora ritornare alle prime due sentenze della Terza Sezione citate in questa parte delle Linee guida 2024, a cui, come chiarito, rinviano le cinque pronunce della Sesta Sezione redatte dallo stesso estensore.
Nella sentenza n. 25429 del 2020, l’esordio, sul tema specifico che occupa, è sempre lo stesso. Si prendono le mosse dal principio enunciato dalle Sezioni unite Bell’Arte del 2012 e si afferma: «la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede non necessita di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità»[36]. Subito dopo, però, si aggiunge: «essa, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso (salvo che sussistano specifici elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza)» (il corsivo è nostro).
Dunque, la teoria della presunzione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa discende dall’assunto in virtù del quale la testimonianza in generale si dovrebbe presumere veridica fino a prova contraria.
E proprio in questo punto della sentenza n. 25429 del 2020 si annida un punto delicato nella complessiva “radiografia” del formante giurisprudenziale che si sta pericolosamente stratificando sul tema dell’attendibilità della testimonianza. Vengono infatti citati due precedenti, il primo[37] dei quali è particolarmente significativo per due ordini di ragioni. Anzitutto perché questa sentenza è esplicitamente massimata proprio con riguardo alla c.d. presunzione relativa di attendibilità del teste comune[38]; in secondo luogo perché essa propone, al di là della sua persuasività, un apparato motivazionale ricco di argomenti. Si tratta della sentenza n. 3041 del 2017[39], la quale, per inciso, si inserisce in un trittico di sentenze gemelle[40].
Infine – ritornando all’elenco di precedenti citati nelle Linee guida 2024 –, la pronuncia n. 6710 del 2021. Dal punto di vista giurisprudenziale, essa finisce per richiamare i medesimi due precedenti valorizzati nella n. 25429 del 2020, ma pare meritevole di essere citata anche perché essa fa affiorare, in modo plastico, la contraddittorietà già sopra denunciata: dopo un ampio florilegio di richiami (più nutriti e insistiti del consueto) alla necessità di sottoporre ad approfondito vaglio le dichiarazione testimoniale della persona offesa, si predica, come ultimo passaggio del paragrafo dedicato al tema, la sussistenza di una presunzione di veridicità[41]. Repetita iuvant: se per il giudice è doveroso compiere un accertamento positivo in ordine alla complessiva attendibilità della deposizione e darne conto in motivazione, è chiaro che siamo al di fuori dell’istituto della presunzione.
Insomma, sondate in profondità, le sentenze passate in rassegna non dovrebbero destare particolare preoccupazione in chi veda nella valutazione di attendibilità della testimonianza un’operazione giammai riducibile ad un ragionamento meramente presuntivo. Ma la caratura suggestiva dell’enunciato, in uno con la consapevolezza di una progressiva (ma insidiosamente carsica) sedimentazione del pernicioso principio di veridicità[42], impongono di tenere alta l’attenzione e, soprattutto, di impegnarsi per neutralizzare un’elaborazione giurisprudenziale di tale genere. Ben venga, dunque, anche in quest’ottica la levata di scudi della Camera penale di Tivoli per censurare, nel contenuto, le Linee guida 2024[43].
La disamina qui proposta chiama anche ad un’altra riflessione, che potremmo considerare di metodo. È il problema, non certo raro, delle citazioni chirurgiche (o selettive) e di quelle tralatizie. È la tecnica del cherry picking[44], per usare un efficace anglicismo.
E proprio per avere esatta contezza del “peso specifico” dei precedenti di legittimità snocciolati nelle Linee guida 2024, è anche opportuno chiarire che nessuna delle sentenze citate è massimata sul punto relativo alla c.d. presunzione di veridicità della testimonianza della persona offesa (o, in generale, del teste comune). Anche nei casi in cui il documento riporta il numero di una massima, in realtà essa si riferisce alla enunciazione di un principio di diritto relativo ad altro tema (alcune, ad esempio, attengono agli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti)[45].
Non sfugge la carenza, nelle Linee guida 2024, di precedenti di merito tra quelli evocati a suffragio dell’assunto in questione. Non credo che essa sia (solo) frutto della scelta degli Autori di spendere la fonte giurisprudenziale più autorevole. Anche perché, ai tempi di un decisivo potenziamento e di una forte sponsorizzazione delle banche dati di merito “istituzionali”[46], non sarebbe stato difficile effettuare una ricerca per arricchire il corredo delle pronunce a sostegno dell’assunto con quelle individuate nei data lake disponibili.
La verità è che i giudici di merito, almeno sino ad oggi, non si sono arrischiati ad enunciare postulati del genere. Questo, però, non significa che nella quotidiana amministrazione della giustizia lo disconoscano. Tutt’altro. A questo livello della giurisdizione, la presunzione di attendibilità del testimone comune, specie laddove rivesta determinate “qualifiche” (persona offesa, polizia giudiziaria et similia), è latente, ma traspare in modo marcato da alcuni sintomatici atteggiamenti processuali e dal repertorio delle formule di stile impiegate per riempire le porzioni motivazionali delle sentenze.
Prima di concludere questo ampio paragrafo, è opportuno segnalare che, nello sviluppo delle Linee guida 2024 – dopo l’affermazione della c.d. presunzione di veridicità e in perfetta coerenza con l’humus da cui sgorga – seguono alcuni paragrafi dedicati al tentativo di svalutare situazioni di fatto e dinamiche processuali che invece, secondo consolidate massime di esperienza[47], solitamente incidono in modo significativo sulla credibilità: 1) la condizione di tossicodipendenza della persona offesa[48]; 2) le ritrattazioni[49] e i ridimensionamenti[50]; 3) la pendenza di una separazione coniugale[51]; 4) c.d. strumentalità delle denunce/querele e l’intento manipolatorio; 5) la mancanza di precedenti denunce; 6) la progressione dichiarativa.
Leggendo le pagine delle Linee guida 2024 dedicate a questi temi si percepisce nitidamente la “spinta gentile”[52] a non prenderle in considerazione; un ammonimento a non farsi influenzare da esse e a non dubitare della credibilità della persona offesa. Ciascuna di queste situazioni meriterebbe di essere approfondita, anche in considerazione della loro incidenza statistica in processi di questo genere, ma, per ragioni di opportuno contenimento dimensionale, non può essere questa la sede per attardarsi su di esse.
Volendo ora tirare le fila del discorso e proporre una sinossi dell’analisi compiuta sui precedenti “sventolati” nelle Linee guida 2024, potremmo dire: 1) la giurisprudenza è consolidata (esclusivamente) nel ritenere che le dichiarazioni della persona offesa possano da sole essere poste a base della condanna; 1.1) con la contestuale specificazione che le dichiarazioni promananti da tale fonte vanno sempre sottoposte a un vaglio particolarmente rigoroso in punto di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca; 2) si annoverano diverse pronunce che teorizzano la c.d. presunzione di veridicità del testimone comune, escludendo che, in assenza di specifici elementi dimostrativi, si possa assumere che egli riferisca scientemente il falso; 3) alcune isolate pronunce della Terza e della Sesta Sezione (non massimate sul punto), muovendo da quest’ultimo postulato e considerato che la persona offesa riveste la qualifica di testimone comune, ritengono che anche alle dichiarazioni rese dalla stessa si estenda la c.d. presunzione di veridicità.
- Principio di diffidenza vs presunzione di veridicità.
La scrematura e le precisazioni proposte nel paragrafo precedente non esauriscono il nostro compito. Arrivati a questo punto, tuttavia, il terreno sembra sufficientemente arato, per sviluppare agevolmente alcune sintetiche annotazioni, rinviando alle pagine di un mio recente contributo per la serrata confutazione argomentativa della c.d. presunzione di attendibilità del teste comune[53].
Voglio andare subito al sodo. Predicare la presunzione di veridicità[54] della testimonianza della persona offesa o, più in generale, del dichiarante “comune” comporta lo sgretolamento della presunzione di non colpevolezza[55], costituzionalmente presidiato, e del principio del libero convincimento del giudice[56].
Sul primo versante è chiaro che la presunzione di attendibilità fa scivolare l’onere probatorio da una parte processuale all’altra, con la conseguenza che essa, laddove favorisca l’accreditamento di fonti accusatorie, si traduce in un sostanziale aggiramento della presunzione di non colpevolezza nella sua dimensione di regola di giudizio[57]. E indubitabilmente, quando la fonte è rappresentata dalla persona offesa, non è difficile immaginare quale sia il “colore” della testimonianza.
Difficile, poi, negare che l’idea di assegnare alla testimonianza una presunzione di forza probatoria piena tradisca dalle fondamenta il principio del libero convincimento[58]. Né si può liquidare, tale scelta ermeneutica, come un tradimento tutto sommato veniale, tenuto conto che il principio in parola rappresenta una delle travi portanti del moderno e democratico paradigma di accertamento della responsabilità penale.
E, ancora, c’è il tema della legalità processuale[59]. Proprio in un sistema improntato al principio del libero convincimento è fin troppo semplice osservare che qualsiasi presunzione – ammesso che sia configurata in termini costituzionalmente compatibili – non possa che trovare la sua legittimazione in una espressa disposizione normativa. Non è un caso che le presunzioni vincolanti (id est, appartenenti al genus di quelle legali[60]) siano solo quelle previste dal codice di rito[61]: si pensi, a titolo esemplificativo, a quelle previste dall’art. 275, comma 3, c.p.p., in materia cautelare (con un assortimento vario di presunzioni relative e assolute)[62], e dall’art. 420-ter, comma 5-bis, c.p.p., in materia di impedimento professionale per ragioni di maternità. E a proposito della presunzione qui scrutinata, inutile a dirsi, difetta qualsiasi addentellato normativo.
Va anche segnalato che la c.d. presunzione di attendibilità si esaurisce, al fondo, in un meccanismo volto a generare una semplificazione del ragionamento probatorio e, di riflesso, dello sforzo motivazionale, rispetto al quale il giudice non dovrebbe mai deflettere; né egli dovrebbe ambire a ricevere sconti su questo terreno.
Proprio in vicende giudiziarie di questa matrice, lo sforzo valutativo dovrebbe, al contrario, essere massimo, perché risulta alto il rischio che «il contesto valoriale del giudicante», con le «sue esperienze di vita e di relazione», prenda il sopravvento e sia «causa di incomprensione o di pre-comprensione»[63].
Non sorprende, dunque, la netta presa di posizione dell’avvocatura penale di Tivoli per avversare l’iniziativa della locale Procura[64].
Merita spazio un’ultima considerazione sul punto, dal sapore tranchant. In una prospettiva epistemologica, un atteggiamento di prudente “diffidenza” nei confronti della testimonianza[65] – a prescindere dal suo “colore” (accusatorio o liberatorio) – appare l’unico davvero coerente con un approccio di tipo falsificazionista[66]. In senso diametralmente opposto, la linea giurisprudenziale che si colloca sul registro della presunzione di attendibilità è invece sintonica con un approccio di tipo verificazionista[67] e confermativo[68].
E proprio con riguardo alla prova dichiarativa – probabilmente la più ardua da valutare[69] – occorrerebbe predicare, e scrupolosamente osservare, quanto meno un sano “agnosticismo”, nel senso che il giudice dovrebbe porsi in una condizione di rigorosa astensione dal giudizio di attendibilità sino a quando, sulla base di elementi probatori di natura eterogenea (in gran parte elaborati sulla scorta delle c.d. massime di esperienza)[70], si possa, in positivo[71], concludere per l’attendibilità, in tutto o in parte, delle dichiarazioni. Condizione mentale che potremmo descrivere, utilizzando gli strumenti della logica, in termini di negazione passiva[72], nel senso che la singola dichiarazione testimoniale (probatoriamente rilevante ai sensi dell’art. 187 c.p.p.) non dovrebbe essere considerata attendibile fino a quando non ne venga positivamente accertata tale connotazione.
In altre parole l’attendibilità rappresenta, nell’alternativa decisoria, il termine c.d. marcato, mentre la non attendibilità identifica il termine c.d. consequenziale[73]. La prima integra la proposizione (sempre di natura intermedia[74]) da dimostrare affinché si possa giungere alla conclusione probatoria. Lo schema dovrebbe essere questo: la dichiarazione x resa dal testimone Tizio è attendibile e, dunque, il fatto y (l’enunciato fattuale in essa racchiuso)[75] può considerarsi provato. Da questa impostazione deriva che, laddove la prova dell’attendibilità «non sia raggiunta o si versi in situazione di incertezza, la scelta viene a cadere sul termine ‘consequenziale’»[76] (il corsivo è nostro).
In definitiva, con un metodo epistemico di questo genere ci collochiamo agli antipodi rispetto alla visione in cui è immerso il postulato contenuto nelle Linee guida 2024: la opzione a favore del primo suggerirebbe di arricchire la classica griglia dei parametri valutativi della prova testimoniale[77], piuttosto che indulgere in semplificazioni del ragionamento probatorio ricorrendo al meccanismo presuntivo.
- Critica dell’attuale cultura della giurisdizione, per un’autentica cultura del giudice.
Ma se, al fondo, le sgrammaticature che ruotano attorno al c.d. principio di veridicità sono così evidenti, l’interrogativo sulle loro cause non può che condurre ad indagare il profilo culturale che ne rappresenta il background.
E allora viene spontaneo parlare – quasi come se fosse un riflesso pavloviano – di “cultura della giurisdizione”[78]. Sintagma piuttosto abusato, specie quando si discorre del divisivo (e oggi quanto mai attuale) tema della separazione delle carriere.
Ebbene, se con questa espressione intendiamo l’insieme dei valori espressi, in un dato momento storico, dai protagonisti della giurisdizione in senso stretto (id est, il ceto dei giudici) nell’esercizio della loro funzione, si devono anzitutto saggiare i provvedimenti che rappresentano il prodotto istituzionale di tale attività.
In questa prospettiva di indagine, anche il rilevamento di una certa inclinazione a prediligere la versione della (presunta) persona offesa e “blindarla” da possibili tentativi di confutazione, costituisce un momento sintomatico di tale cultura. Oltre che un chiaro tradimento[79] dei precetti costituzionali.
Così come – per allargare l’orizzonte e tracciare un quadro più ampio – anche una spiccata tendenza a favorire esiti di inammissibilità degli atti di impugnazione costituisce un indice rivelatore di tale cultura. E il pensiero non può che correre alla ormai conclamata propensione alla inammissibilità esibita dai giudici di legittimità[80]. Non a caso parte autorevole della dottrina, per denotare il fenomeno, ha adoperato l’efficace locuzione “cultura della inammissibilità”[81]. Metro che stride fragorosamente con quello che si registra in tema di nullità, governate da uno sfrontato impulso di conservazione all’insegna del test sul c.d. pregiudizio effettivo[82].
Per non parlare, tornando al tema della prova, di alcuni diffusi atteggiamenti processuali, altrettanto sintomatici e rivelatori. Si pensi all’interventismo ostruzionistico/protettivo di alcuni giudici in sede di controesame della persona offesa (specie se esso rischi di rivelarsi demolitivo) oppure a condotte attive di tipo costruttivo/poietico al termine dell’esame (o nel bel mezzo dello stesso). In quest’ultima tipologia rientra anche la ben nota e tuttora irrisolta patologia delle domande suggestive rivolte al teste dal giudice[83]. Non sono forse tutti contegni che mortificano l’imparzialità imposta dall’art. 111, comma II, Cost.?
Con queste posture ermeneutiche e con queste prassi giudiziarie – e, si badi, la esemplificazione qui proposta non esaurisce certo i casi emblematici – possiamo forse dire che “il re è nudo”. Sono questi i comportamenti processuali che svelano – per riprendere una famigerata e icastica metafora[84] – il “cuore” di chi, con i suoi atti e con le sue parole, è bocca della giurisdizione. Difficile abbandonare l’idea che nell’interno psichico di molti giudici pulsi ancora una cultura di matrice larvatamente inquisitoria.
E ritornando al tema specifico di cui qui si discorre (la c.d. presunzione di veridicità), il nodo, il punto su cui occorrerebbe aprire una profonda riflessione, è che un assunto così eversivo delle coordinate assiologiche e sistematiche non scandalizza, come dovrebbe, il ceto dei magistrati nella sua interezza. Evidentemente si tratta di un enunciato coerente con la sensibilità e con la cultura di cui molti di essi sono portatori.
E allora ben venga la separazione delle carriere[85], nella prospettiva di contribuire allo sviluppo di una cultura della giurisdizione che sia finalmente allineata al paradigma costituzionale del giudice penale, tracciato sull’asse ideale che corre dall’art. 27, comma II, all’art. 111 (in tutti i suoi commi), passando per il 101, comma II: terzo, imparziale e intimamente calibrato sui princìpi controintuitivi[86] di cui dovrebbe nutrirsi il suo abito mentale.
La verità è che, nell’attuale assetto, il corpo sociale chiamato all’esercizio della funzione giurisdizionale non presenta credenziali accusatorie credibili[87], soprattutto perché i criteri di reclutamento non sono affatto funzionali a selezionare profili corrispondenti al modello ideale disegnato dalla Costituzione, bensì solo a intercettare abilità e competenze tecnico-giuridiche; e perché la formazione non è improntata al culto di quelle scelte assiologiche ed epistemologiche (contraddittorio, oralità, immediatezza). Inutile immaginare qualcosa di diverso da una palingenesi: come è stato detto in modo estremamente efficace, «ogni modello ha bisogno del suo interprete»[88].
Sul terreno del diritto delle prove penali, l’obiettivo da perseguire dovrebbe consistere nell’affrancarsi radicalmente da approcci tesi alla semplificazione valutativa e al conformismo giudiziario e, in senso diametralmente opposto, nell’affinare allo spasmo le abilità decisionali, sfruttando i contributi di scienze “altre” e puntando ad un approccio multidisciplinare al tema della prova. Partendo dalle importanti acquisizioni offerte dalle scienze cognitive e favorendo, grazie ad esse, la maturazione di un sufficiente grado di consapevolezza delle trappole cognitive, dei bias e delle euristiche in cui tutti noi, magistrati compresi, rischiamo di incappare[89].
Anche in questa ottica di specializzazione professionale, la separazione delle carriere rappresenta un ingrediente essenziale[90]; unitamente, è chiaro, alla radicale riscrittura dei criteri di reclutamento dei giudici: a partire dalle prove concorsuali, senza dimenticare il c.d. reclutamento laterale[91].
È dunque possibile, con percorsi e statuti separati, selezionare in modo mirato soggetti dotati di attitudine deliberativa, per poi curare che vengano addestrati all’impiego di specialistiche competenze decisionali.
Chiudo. Non ci si può rassegnare a una deriva della cultura della prova, corrotta da increspature inquisitorie. Ed è giusto reagire e stigmatizzare posture che, cercando di sdoganare meccanismi presuntivi e scorciatoie motivazionali, evidentemente la alimentano.
Non sfugge che la riforma costituzionale[92] – nell’auspicabile prospettiva che giunga a compimento – potrà in ogni caso produrre i suoi frutti sul terreno della cultura del giudice solo in un orizzonte temporale di lungo periodo. Nel frattempo, allora, vale certamente la pena battersi per avanzare, centimetro dopo centimetro, verso l’ancora atteso inveramento dei princìpi del giusto processo penale e non arretrare di un millimetro nella strenua difesa del suo nocciolo duro, di quelle poche certezze che nessuno dovrebbe mettere in discussione. Tra di esse, nei primi ranghi, includerei senz’altro la presunzione di non colpevolezza e il libero (rigorosamente razionale) convincimento del giudice.
*Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
[1] Procura di Tivoli, Linee guida sull’applicazione del delitto di cui all’art. 572 c.p. e su questioni procedimentali/processuali relative ai reati di violenza di genere, domestica e contro le donne. Esposizione ragionate della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, 8 novembre 2024, su giurisprudenzapenale.it, 14 novembre 2024, e su sistemapenale.it, 25 novembre 2024. Il documento si può consultare anche sul sito della Procura di Tivoli.
[2] Per un’approfondita analisi della materia, e anche per ulteriori riferimenti bibliografici, si vedano B. Romano – A. Marandola (a cura di), Codice rosso. La violenza domestica e di genere alla luce della l. 19 luglio 2019, n. 69, della l. 8 settembre 2023, n. 122, e della l. 24 novembre 2023, n. 168, II ed., Pacini giuridica, 2024; P. Di Nicola Travaglini – F. Menditto, Il nuovo codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere e ai danni delle donne nel diritto sovranazionale e interno. Commento aggiornato alla l. n. 168/2023 e alla direttiva UE del 2024, Giuffrè, 2024, recensito da C. Pecorella, Il nuovo Codice Rosso, di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto: un libro da leggere, non da consultare, in sistemapenale.it, 12 settembre 2024. In particolare, questo secondo volume tornerà ad occupare la nostra attenzione nelle pagine seguenti, considerando che uno degli Autori ricopre il ruolo di facente funzioni di Procuratore della Repubblica di Tivoli, ed è dunque firmatario delle Linee guida 2024 (rectius, cofirmatario unitamente al Sostituto Procuratore Coordinatore del “Gruppo Uno”, ossia la task force di cinque magistrati che si occupa di «reati sessuali, di violenza di genere e ai danni di minori»), mentre la Coautrice è il Consigliere estensore (o, come si legge in calce alle pronunce, la «Consigliera estensora») di alcune significative sentenze citate nelle Linee guida 2024 in tema di valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. Sempre in materia di reati da c.d. Codice rosso, si può ricordare il precedente lavoro degli stessi Autori, P. Di Nicola Travaglini – F. Menditto, Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi. Commento alla legge 19 luglio 2019 n. 69, Giuffrè, 2020.
[3] Procura di Tivoli, Linee guida, cit., §§ 11 ss., pp. 53 ss.
[4] CSM, Circolare sull’organizzazione degli uffici di procura (delibera plenaria 3 luglio 2024, così come modificata con delibere del 9 ottobre 2024 e del 23 ottobre 2024), reperibile sul sito istituzionale del Consiglio.
[5] Vale la pena sottolineare che, nella precedente versione della circolare afferente tali aspetti, non era disciplinato lo strumento delle linee guida. Si veda CSM, Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura, delibera del 16 novembre 2017 e successive modifiche al 18 giugno 2018, la quale, all’art. 4, si limitava a prevedere la «eventuale elaborazione di protocolli investigativi ed organizzativi».
[6] Non vengono indicati eventuali precedenti difformi e vengono riportate anche sentenze non massimate; tutti segnali di una precisa selezione del materiale proposto.
[7] Il riferimento è anzitutto alle pubblicazioni di carattere divulgativo, come ad esempio i c.d. instant book editi all’indomani della introduzione di novelle normative.
[8] Per un approccio al tema si veda R. Bin, Soft law, no law, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Giappichelli, 2009, pp. 31 ss. Il tema della soft-law come fonte della procedura penale è diffusamente approfondito in F. Trapella, Fondamenti e limiti della fonte protocollare nella gestione dell’emergenza, in Id. (a cura di), La rivoluzione digitale. Processo penale telematico e processo penale da remoto, Aracne, 2021, pp. 363 ss.
[9] Per una denuncia dei profili di criticità insiti nell’utilizzo di tali strumenti rispetto al principio di legalità processuale, volendo, A. Franceschini, Per l’affermazione della legalità processuale, contro la giurisprudenza creativa, in Rass. Pen., 2019, n. 4, pp. 7 ss., il tema specifico è affrontato a pp. 14-15.
[10] Cfr. Procura di Tivoli, Prime linee guida per l’applicazione della legge n. 69/2019 (cd. Codice Rosso), Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, 31 luglio 2019; Id., Linee guida per l’applicazione della legge n. 134/2021 (cd. Riforma penale) limitatamente alla parte che entra in vigore il 19 ottobre 2021, con particolare riferimento alla tutela della persona offesa nei delitti di violenza di genere, 11 ottobre 2021; Id., Aggiornamento delle linee guida per l’applicazione della legge n. 69/2019 (cd. Codice Rosso), a seguito dell’approvazione della legge n. 122 del 2023, 22 settembre 2023. Anche questi documenti, come le Linee guida 2024 (si veda nota 1) ricevevano una certa attenzione da parte di alcune riviste scientifiche. Si vedano così: Linee guida della Procura di Tivoli per l’applicazione della l. n. 69/2019 (cd. Codice rosso), in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in dirittopenalecontemporaneo.it, 26 settembre 2019; Indagini in materia di codice rosso: un aggiornamento delle linee guida della Procura di Tivoli alla luce delle novità della legge n. 122/2023, in sistemapenale.it, 29 settembre 2023.
[11] Cfr. Procura di Tivoli, Prime linee guida per l’applicazione della legge n. 69/2019 (cd. Codice Rosso), Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, cit., § 1, p. 4.
[12] Cfr. CSM, Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, delibera 9 maggio 2018. In effetti, l’utilizzo di questo strumento riscuote, ormai da diversi anni, un enorme successo nella pratica giudiziaria, anche da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo impiega con una certa frequenza. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, si veda D. Cavallini, Linee guida e best practices in materia organizzativa e processuale: le nuove frontiere del CSM, in archiviopenale.it, 10 novembre 2020, la quale, però, non manca di rilevare diversi profili di criticità, sul piano costituzionale e ordinamentale, legati alla «trasformazione del Consiglio superiore della magistratura verso un nuovo modello di organo di governo della magistratura», realizzata anche attraverso l’utilizzo di tali strumenti regolativi (cfr. § 6, pp. 31 ss.). L’Autrice di recente è poi ritornata sul tema nell’ambito di un saggio di ampio respiro, Ead., Il CSM tra ordinamento e organizzazione della giustizia. L’ampliamento delle competenze nella gestione degli uffici giudiziari, pp. 27 ss.
[13] Cfr. CSM, Risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, delibera 3 novembre 2021.
[14] Agli uffici requirenti sono riservati il § 4.1 della delibera del 2018 e il § 3.1 di quella del 2021, mentre agli uffici giudicanti sono dedicati, rispettivamente, il § 4.2 e il § 3.2.
[15] Esattamente in questo senso paiono le osservazioni critiche che si possono leggere in O. Mazza, Quelle linee guida dei pm ignorano la presunzione di innocenza…, in Il Dubbio, 4 dicembre 2024, pp. 1 e 3.
[16] In effetti, tenuto conto della presunzione di non colpevolezza sancita dalla nostra Costituzione, appare quanto meno una forzatura “assicurare” lo status di persona offesa prima che l’accertamento dei fatti sia conclamato in una sentenza definitiva. Sviluppa in modo anche più radicale il ragionamento O. Mazza, Sub art. 129-bis c.p.p., in A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, VI ed., Ipsoa, 2023, p. 1970, il quale, analizzando la disciplina della giustizia riparativa, osserva che, «per la logica del processo penale», i ruoli di colpevole e vittima «non solo non possono essere affermati fino all’accertamento definitivo di responsabilità, ma sono addirittura ribaltati dalla previsione costituzionale per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato». L’Autore ha ripreso questo stesso concetto in O. Mazza, Delitto e morale nella nuova sintassi penale della giustizia riparativa (in margine all’ordinanza del Tribunale di Genova), in dirittodidifesa.eu, 20 maggio 2024, p. 6, e, più di recente, proprio intervenendo sulle Linee guida 2024, in Id., Quelle linee guida dei pm ignorano la presunzione di innocenza…, cit., p. 3.
[17] Cfr. Procura di Tivoli, Linee guida, cit., § 11, p. 53, La valutazione dell’attendibilità della persona offesa, in generale. Il principio di presunzione di veridicità.
[18] Il riferimento è all’ormai noto caso di un avvocato newyorkese che, per sostenere la propria tesi, aveva allegato sei precedenti giurisprudenziali estrapolati con l’utilizzo (non dichiarato) di ChatGPT; peccato che tutti e sei i precedenti erano risultati artefatti. Dell’episodio parla D. Amidani, ChatGPT bocciato all’esame di diritto processuale penale. Attendibilità e trasparenza dei sistemi di intelligenza artificiale alla luce di un esperimento, in sistemapenale.it, 3 ottobre 2024, p. 16, nota 82, il quale segnala il provvedimento “cautelativo” adottato da un giudice texano dopo la divulgazione del caso in questione, citando D. Coldewey, No ChatGPT in my court: Judge orders all AI-generated content must be declared and checked, in techcrunch.com, 31 maggio 2023.
[19] Cass. pen., Sez. III, 13 luglio 2020 (dep. 9 settembre 2020), n. 25429, Pres. Ramacci, Est. Noviello, non massimata.
[20] Cass. pen., Sez. III, 18 dicembre 2020 (dep. 22 febbraio 2021), n. 6710, Pres. Sarno, Est. Scarcella, Rv. 281005. Le due massime estrapolate dalla sentenza non enunciano il principio di veridicità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
[21] Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2022 (dep. 19 ottobre 2022), n. 39578, Pres. Di Stefano, Est. Di Nicola Travaglini, non massimata.
[22] Cass. pen., Sez. VI, 14 dicembre 2022 (dep. 26 gennaio 2023), n. 3377, Pres. Capozzi, Est. Di Nicola Travaglini, non massimata.
[23] Cass. pen., Sez. VI, 26 gennaio 2023 (dep. 4 aprile 2023), n. 14247, Pres. Ricciarelli, Est. Di Nicola Travaglini, non massimata, su questionegiustizia.it, 4 ottobre 2023, con nota di F. Filice, L’analisi di genere passa la soglia sovranazionale e approda in Cassazione.
[24] Cass. pen., Sez. VI, 3 luglio 2023 (dep. 15 settembre 2023), n. 37978, Pres. Calvanese, Est. Di Nicola Travaglini, Rv. 285273. La massima estratta non si riferisce alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali, bensì agli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia.
[25] Cass. pen., Sez. VI, 8 luglio 2024 (dep. 6 agosto 2024), n. 32042, Pres. Criscuolo, Est. Di Nicola Travaglini, Rv. 286854. Delle due massime tratte dalla sentenza, una si riferisce ai requisiti integrativi del delitto di maltrattamenti in famiglia, mentre l’altra enuncia il seguente principio: «In tema di maltrattamenti in famiglia aggravati dalla presenza di figli minori, la pendenza di ricorso per separazione coniugale con richiesta di affidamento esclusivo dei figli, promosso, dalla persona offesa, non inficia per sé sola l’attendibilità di questa».
[26] Precisamente si tratta delle seguenti pronunce: n. 39578 del 2022, n. 3377 del 2023, n. 14247 del 2023, n. 37978 del 2023, n. 32042 del 2024.
[27] Così come non può non colpire che proprio il Giudice estensore di queste pronunce sia la Coautrice dei due volumi scritti, nel 2020 e nel 2024, a quattro mani con il Procuratore di Tivoli facente funzioni, menzionati sopra in nota 2. Non sembra una sterile precisazione, tenuto conto che ben quattro delle cinque sentenze in questione si ritrovano puntualmente citate nel più recente volume, nella parte relativa all’attendibilità della persona offesa nei procedimenti per il reato di maltrattamenti e in quelli per il reato di violenza sessuale (cfr. P. Di Nicola Travaglini – F. Menditto, Il nuovo codice rosso, cit., pp. 214-216, pp. 313-314). Ed è proprio in questa parte del “manuale” che viene esplicitamente affermato il c.d. principio di veridicità della testimonianza della persona offesa (cfr. P. Di Nicola Travaglini – F. Menditto, Il nuovo codice rosso, cit., pp. 215 e 313). Colpisce anche, e non poco, la citazione bibliografica scelta dagli Autori per l’apertura del volume: «Ti rifiuti di credere a una persona. Questa diventa estrema per dimostrare la sua tesi. Le esagerazioni e affermazioni ingigantite minano la sua credibilità e alla fine, col tempo, anche lei comincerà a dubitare di sé stessa come tutti quelli che assistono a questa continua messa in scena». Essa è tratta da E. Ensler, Chiedimi scusa, Il Saggiatore, 2019.
[28] Cfr. Cass. pen., n. 39578 del 2022, cit., e n. 3377 del 2023, cit.
[29] Cfr. Cass. pen., n. 39578 del 2022, cit., § 4.1.
[30] Cfr. Cass., Sez. un., 19 luglio 2012 (dep. 24 ottobre 2012), n. 41461, Pres. Lupo, Re. Cassano, Rv. 253214, di cui vale la pena trascrivere la massima (quella, tra le quattro estrapolate, che riguarda il nostro tema): «Le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi)».
[31] Ibidem.
[32] Sul concetto di presunzione e sulle sue classificazioni, si vedano: F. Caporotundo, Presunzioni legali e onere della prova nel processo penale, in Giur. pen., 2017, n. 1, pp. 10 ss.; A.R. Eremita, Il sindacato della Cassazione sulle presunzioni semplici, Cacucci editore, 2022, pp. 29 ss.; C. Gamba, voce Presunzioni (dir. proc. civ.), Treccani, Diritto on line, 2016; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, IX ed., Edizioni Scientifiche Italianze, 2001, p. 103; S. Patti, Presunzione nel processo civile, in Il diritto. Enciclopedia giuridica, IlSole24Ore, 2012, p. 413 ss.; M. Taruffo, voce Presunzioni. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 1991, pp. 1 ss. Di grande interesse un recentissimo lavoro collettaneo di carattere monografico sul tema, S. Patti – R. Poli (a cura di), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, Giappichelli, 2023.
[33] Corre l’obbligo di precisare subito che l’esempio proposto nel testo ha, con tutta evidenza, natura complessa, come la maggior parte delle dichiarazioni testimoniali, nel senso che al suo interno possiamo isolare una serie di circostanze: 1) la dichiarante è stata colpita; 2) è stata colpita dal compagno; 3) è stata colpita con un pugno; 4) il pungo è stato violento; 5) il pugno ha attinto il volto. Ed è altrettanto banale rilevare che ciascuna delle predette circostanze può rivelarsi vera o falsa.
[34] Cfr. Cass. pen., n. 14247 del 2023, cit., § 2.3.
[35] Cfr. Cass. pen., n. 32042 del 2024, cit., § 3.1.
[36] Cfr. Cass. pen., n. 25429 del 2020, cit., § 1.1.
[37] La seconda pronuncia, tra quelle richiamate nella sentenza n. 25429 del 2020, è Cass. pen., Sez. VI, 27 marzo 2014 (dep. 23 giugno 2014), n. 27185, Pres. Milo, Est., De Amicis, Rv. 260064, massimata come segue: «In tema di valutazione della prova testimoniale, il giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente, verificandone l’attendibilità, il contenuto della testimonianza, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, o si inganni su ciò che forma l’oggetto essenziale della sua deposizione, salvo che sussistano elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi».
[38] Il tema della valutazione della prova testimoniale, con specifico riguardo alla (predicata) presunzione di attendibilità del testimone comune, è approfondito, volendo, in A. Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, in legislazionepenale.eu, 10 dicembre 2024, ove sono illustrati numerosi argomenti di natura censoria (spec. §§ 5-8).
[39] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 3 ottobre 2017 (dep. 23 gennaio 2018), n. 3041, Pres. Paoloni, Est., Silvestri, Rv. 272152, massimata come segue: «In tema di valutazione della prova testimoniale, non essendo necessari elementi di riscontro esterni, il giudice deve limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità della testimonianza – avuto riguardo alla logicità, coerenza ed analiticità della deposizione nonché all’assenza di contraddizioni con altre deposizioni testimoniali o con elementi accertati con i caratteri della certezza – sulla base della presunzione che, fino a prova contraria, il teste, ove sia in posizione di terzietà rispetto alle parti, riferisce di solito fatti obiettivamente veri (principio di affidabilità) e mente solo in presenza di un sufficiente interesse a farlo (principio di normalità), specialmente nel caso in cui dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità)». Per una serrata critica della sentenza n. 3041 del 2018, si veda l’accuratissimo saggio di G. Carlizzi, L’analisi argomentativa e l’analisi giuridica della motivazione del giudice comune. I. Analisi della motivazione qualificatoria e analisi della motivazione censoria di quella relativa alla forza probatoria della testimonianza, in Dir. Quest. Pubbl., 2021, n. 2, pp. 217 ss.
[40] Le altre due sono: Cass. 15.9.2021 n. 46079, Tuccillo, Pres. Fidelbo, Est. Silvestri, non massimata, e Cass. 14.10.2022 (dep. 17.1.2023) n. 1599, Errami, Pres. Ricciarelli, Est. Silvestri, non massimata. Analizza, in chiave critica, gli argomenti che si ritrovano nelle tre sentenze gemelle A. Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, cit.
[41] Cfr. Cass. pen., n. 6710 del 2021, cit., § 3.1.
[42] Si veda, ad esempio, anche Cass. pen., Sez. II, 22 giugno 2021 (dep. 2 novembre 2021), n. 39256, Pres. Cervadoro, Est. Pellegrino, non massimata.
[43] Cfr. Camera penale di Tivoli, Proclamazione dello stato di agitazione, 27 novembre 2024, il cui testo, accompagnato dalla nota La Camera penale di Tivoli sulla pubblicazione delle linee guida della Procura in tema di violenza di genere, è stato pubblicato su sistemapenale.it, 9 dicembre 2024.
[44] Usa tale locuzione, a proposito della discrezionalità dell’Ufficio del Massimario nel selezionare le sentenze da massimare e i princìpi poi enunciati, L. Massari, Quali criteri per la selezione delle sentenze da massimare?, in dirittodidifesa.eu, 31 gennaio 2025, p. 10, il quale osserva che «[n]ella molteplicità delle massime, e talvolta nella poliedricità delle motivazioni, è agevole pescare il precedente attraverso un cherry picking che trascura il ragionamento e si fa scudo dell’autorevolezza della provenienza».
[45] Si vedano le informazioni riportate supra nelle note 20, 24 e 25.
[46] Sul tema, di grande attualità, delle banche dati di merito, si vedano, volendo A. Franceschini, Banche dati di merito: circolarità evolutiva o conformismo giudiziario?, in archiviopenale.it, 15 marzo 2024; C. Perago – M. Orlando – A. Albanese, Banca dati di merito tra automatismo decisionale e umanità della decisione, in Judicium, 15 maggio 2024; M. Ciccarelli, Ufficio per il processo e banche dati di giurisprudenza, in C. Castelli (a cura di), L’ufficio per il processo, Pisa, 2024, 93 ss. Per una panoramica sullo stato dell’arte dei vari progetti si veda CSM, Relazione sullo stato della giustizia telematica 2024 (delibera 24 luglio 2024), 52 ss.
[47] Sul tema, molto affascinante, delle massime di esperienza occorre anzitutto rammentare il noto saggio di M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime d’esperienza», in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, pp. 123 ss. Guardando alla letteratura più recente, si segnalano due saggi che dedicano grande attenzione all’argomento: R. Palavera, Scienza e senso comune nel diritto penale. Il ricorso problematico a massime di esperienza circa la ricostruzione della fattispecie tipica, Edizioni ETS, 2017, e F. Falato, I saperi del giudice. A proposito dell’uso della scienza privata nel processo penale, Satura editrice, 2020. Indagano in modo molto proficuo il funzionamento delle “massime” i lavori di S. Morisco, L. Saponaro, voce Regole di giudizio e massime d’esperienza, in Dig. disc. pen., Agg., Utet, 2008, pp. 1326 ss.; F.M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Giuffrè, 1997, pp. 183 ss.; Id., La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, 2013, pp. 316 ss.; M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, pp. 551 ss. In argomento, volendo, si possono anche leggere A. Franceschini, Le massime d’esperienza nell’accertamento dei reati tributari: la necessità di un rigoroso protocollo probatorio per arginare pericolose osmosi, in S. Schlitzer (a cura di), La disciplina penale in materia tributaria tra diritto positivo e diritto vivente, Editoriale Scientifica, 2021, pp. 3 ss.; Id., Massime d’esperienza: i rischi di abuso nell’utilizzo di un ineliminabile strumento conoscitivo (nota a Cass., Sez. V, 14 settembre 2020, n. 28559), in Dir. dif. Riv. UCPI, 2021, n. 1, pp. 125 ss.; Id., Il peso probatorio del movente a delinquere (nota a Cass., Sez. V, 15 settembre 2020, n. 29877), in Cass. pen., 2022, n. 3, pp. 1109 ss.
[48] Cfr. Procura di Tivoli, Linee guida, cit., § 12.2, p. 56.
[49] Su questo specifico argomento, è utile compulsare il recentissimo E. Licata, Un’indagine giurisprudenziale sulla rilevanza delle ritrattazioni ne processi per violenza di genere, in Sis. pen., 2025, n. 2, pp. 5 ss., anticipato su sistemapenale.it, 27 febbraio 2025, il quale, pur osservando che «[l]’origine di tali ritrattazioni è spesso individuabile nei condizionamenti che la persona offesa subisce poiché legata all’imputato da un rapporto ambivalente o perché gravata dal timore di subire ritorsioni conseguenti ad una deposizione a suo carico» (p. 6), afferma, in modo chiaro, che «[n]el valutare le deposizioni con cui la vittima di violenza domestica ridimensiona o ritratta quanto denunciato, il giudice deve comunque esercitare il proprio libero convincimento valutando se e quali fattori abbiano inciso sulla testimonianza. La dissonanza tra le dichiarazioni originariamente rese e il contenuto della deposizione testimoniale può essere considerata alternativamente come sintomatica dell’assenza di credibilità del teste o frutto di interferenze illecite, idonee a minare la genuinità della testimonianza» (ibidem).
[50] Cfr. Procura di Tivoli, Linee guida, cit., §§ 12.3-12.4, pp. 56 ss.
[51] Cfr. Procura di Tivoli, Linee guida, cit., § 12.5, pp. 62-63.
[52] R.H. Thaler – C.R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, 2014.
[53] Mi riferisco al già ricordato A. Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, cit., nel quale, tra le altre cose, vengono analizzate in modo puntuale la sentenza n. 3041 del 2018 e le sue due sentenze “gemelle”, tutte citate supra in note 39 e 40.
[54] Dal punto di vista epistemologico, una presunzione del genere affonda le sue radici nel principio di credulità (credulity), secondo cui siamo propensi a credere agli altri, affermato da Thomas Reid come pendant al principio di veracità (veracity), secondo cui siamo propensi a dire la verità. Riprendendo questa impostazione e prendendo le mosse proprio dal principio di credulità, Richard Swinburne ha elaborato il principio di testimonianza (principle of testimony), a mente del quale bisogna credere quanto altri ci dicono se non vi sono ragioni contrarie sufficienti. Per un approccio a queste riflessioni di natura epistemologica, si vedano R. Di Ceglie, Da Reid a Plantinga e ritorno. Nota sul problema della filosofia cristiana, in N. Giorn. Fil. Rel., 2021, n. 1, pp. 130 ss.; A.V. Fabriziani, Per una epistemologia della testimonianza. L’approccio “antiriduzionista” di Ernest Naville, in E. Naville, La logica della testimonianza, a cura di A.V. Fabriziani, Cleup, 2015, pp. 7 ss.; R. Pisanty, Per una semiotica della testimonianza, in Riv. it. fil. ling., 2014, pp. 323 ss.; V. Vassallo, Perché è interessante l’epistemologia della testimonianza, in Ling. Stil. Riv. storia lingua it., 1999, n. 3, pp. 359 ss.; Ead., Applicazioni dell’epistemologia della testimonianza all’Olocausto, in D. Padoan (a cura di), Il paradosso del testimone, Rivista di estetica, numero monografico, 2010, n. 45, pp. 139 ss. Il principio di credulità è analizzato, sul doppio versante normativo e descrittivo, da G. Tuzet, La prova ragionata, Giuffrè, 2023, pp. 167 ss., che lo raffronta al suo opposto, ossia il principio di diffidenza.
[55] Non va mai sciupata l’occasione per ricordare, almeno in parte, la ricca letteratura scientifica su questo fondamentale principio: G. Caneschi, L’imputato, Giuffrè 2021, pp. 39 ss., pp. 63 ss.; E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione, Giuffrè, 2016, pp. 173 ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari 2000, 561 ss.; G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli 1979; E. Marzaduri, Considerazioni sul significato dell’art. 27, comma 2, Cost: regola di trattamento e regola di giudizio, in F.R. Dinacci (a cura di) Processo penale e Costituzione, Giuffrè, 2010, pp. 314 ss.; O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 9 aprile 2019; R. Orlandi, La duplice radice della presunzione d’innocenza, in A. Boldrin – M. Bolognari – M. Daniele – P.P. Paulesu – S. Signorato (a cura di), Studi in onore di Roberto E. Kostoris, Giappichelli, 2022, pp. 11 ss., il quale conduce un’interessante analisi delle concezioni probabilistica e normativa del principio; P.P. Paulesu, Presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Giappichelli, 2008.
[56] Anche su tale nevralgico principio, vale la pena cogliere l’opportunità di richiamare preziosi lavori che hanno sondato il tema. Impossibile, allora, non ricordare anzitutto il lavoro di M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffrè, 1974. Per uno studio recente, con un taglio di analisi originale, si veda G. Carlizzi, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale, Bonomo Editore, 2018, pp. 9 ss., il quale esalta la caratura costituzionale del principio del libero convincimento (pp. 42 ss.) e ne tratteggia un duplice contenuto essenziale: da un lato esso «vieta al legislatore e al giudice di introdurre, nell’esercizio dei rispettivi poteri, presunzioni probatorie assolute (o regole di prova legale positiva)»; dall’altro «impone al legislatore di introdurre norme di promozione della razionalità della decisione in fatto, e al giudice di applicare tali norme per il perseguimento del medesimo scopo» (p. 103) (i corsivi sono dell’Autore). Evidenzia il «contenuto precettivo meramente “negativo”» della «regola del “libero convincimento”», A. Sammarco, Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Giuffrè, 2001, pp. 150 ss., spec. pp. 155. Per interessanti spunti storici e comparatistici, si veda E. Amodio, Processo penale, diritto europeo e common law, Giuffrè, 2003, pp. 121 ss.
[57] In tal senso, con specifico riferimento alle Linee guida 2024, O. Mazza, Quelle linee guida dei pm ignorano la presunzione di innocenza…, cit., p. 3.
[58] A tal proposito G. Carlizzi, L’analisi argomentativa e l’analisi giuridica della motivazione del giudice comune. I. Analisi della motivazione qualificatoria e analisi della motivazione censoria di quella relativa alla forza probatoria della testimonianza, cit., p. 236, nel commentare la sentenza n. 3041 del 2018 della Sesta sezione (sopra citata in nota 39), svela in modo molto chiaro il carattere fallace del richiamo al principio del libero convincimento per giustificare la predicata presunzione, stigmatizzandolo non solo come «improprio», ma addirittura, per altro verso, addirittura «paradossale», laddove, nel fissare i requisiti di attendibilità – e nel concepirli come condizioni necessarie e sufficienti – «sottrae al giudice quell’autonomia nella individuazione dei criteri probatori che […] costituisce il vero obiettivo dell’idea di libero convincimento. Più precisamente, la motivazione in esame, nell’invocare tale idea, finisce per stabilire una vera e propria presunzione assoluta di matrice giurisprudenziale, ossia qualcosa che la contraddice in maniera radicale» (il corsivo è dell’Autore).
[59] Sul tema della legalità processuale la letteratura non è molto vasta, e questa mancanza di ricchezza è purtroppo specchio di una scarsa attenzione riservata dalla dottrina all’argomento. Possiamo però contare su alcuni contributi di altissimo pregio: F.R. Dinacci, I tortuosi percorsi della legalità mancata: dalla flessibilizzazione del “tipo” alla libertà delle forme probatorie e alla imprevedibilità della decisione, in archiviopenale.it, 3 maggio 2022; Id., Legalità processuale e nomofilachia tra limiti ermeneutici e diritto giurisprudenziale, in archiviopenale.it, 19 novembre 2019; D. Negri, Il processo penale italiano a venticinque anni dalla riforma del codice, in Criminalia, 2014, 219 ss. (spec. 228-229); Id., Delle procedure criminali: parte di legislazione così principale e così trascurata, in Cassazione Penale, 2014, 3946 ss.; Id., Dallo scandalo della vicenda Taricco risorge il principio di legalità processuale, in A. Bernardi – C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, Napoli, 2017, 297 ss.; Id., Splendori e miserie della legalità processuale. Genealogie culturali, èthos delle fonti, dialettica tra le Corti, in Archivio Penale, 2, 2017, 421 ss.; O. Mazza, I diritti fondamentali dell’individuo come limite della prova nella fase di ricerca e in sede di assunzione, in Diritto penale contemporaneo, 3, 2013, 4 ss.; Id., Il crepuscolo della legalità processuale al tempo del giusto processo, in Studi senesi, CXXIX, 2017, 112 ss.; S. Lorusso, Interpretazione, legalità processuale e convincimento del giudice, in penalecontemporaneo.it, 10 giugno 2015; C. Valentini, Contro l’invenzione del diritto: piccolo elogio della legalità processuale, ricordando Piero Calamandrei, in archiviopenale.it, 2018, n. 2. Volendo, si può anche consultare A. Franceschini, Per l’affermazione della legalità processuale, contro la giurisprudenza creativa, cit.
[60] Per la distinzione tra presunzioni semplici e presunzioni legali, resta fondamentale la lettura degli artt. 2727, 2728, 2729 c.c. e delle definizioni che essi contengono. Le seconde, come noto, sono tradizionalmente distinte in relative e assolute.
[61] Su questo profilo sarà molto interessante leggere, appena saranno depositate, le motivazioni del recente arresto delle Sezioni unite sulla questione rimessa a proposito dell’incidente probatorio relativo ai testi vulnerabili volto a evitare (o ridurre) il fenomeno della c.d. vittimizzazione secondaria. Nell’informazione provvisoria (n. 18 del 2024, pubblicata, tra l’altro, su giurisprudenzapenale.com, 16 dicembre 2024) si legge la seguente soluzione: «è viziato da abnormità ed è, quindi, ricorribile per cassazione il provvedimento con il quale il giudice rigetti la richiesta di incidente probatorio, avente ad oggetto la testimonianza della persona offesa di uno dei reati compresi nell’elenco di cui all’art. 392, comma 1-bis, primo periodo, cod. proc. pen., motivato con riferimento alla non vulnerabilità della persona offesa e alla rinviabilità della prova, trattandosi di presupposti presunti dalla legge».
[62] Sul delicato argomento si vedano gli approfonditi lavori di G. Della Monica, Le presunzioni cautelari, Giappichelli, 2023, e M. Ingenito, Le presunzioni cautelari nel processo penale, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017.
[63] E. Canevini, Il ragionamento giuridico stereotipato nell’assunzione e nella valutazione della prova dibattimentale, in questionegiustizia.it, 3 marzo 2023, p. 4.
[64] Cfr. Camera penale di Tivoli, Proclamazione dello stato di agitazione, cit. Nel documento si legge che l’affermazione della presunzione di veridicità delle dichiarazioni della persona offesa esprime una «pericolosa deriva interpretativa che dimostra un pregiudizio di colpevolezza nei confronti dell’imputato e che si risolve in una inversione dell’onere delle prova: dalla presunzione di non colpevolezza si passa alla presunzione di colpevolezza sulla base di dichiarazioni, rese in fase di indagini preliminari e contraddittorio con i difensori che, se anche ritrattate, dovrebbero prevalere su quelle divergenti rilasciate in aula o nel corso dell’incidente probatorio. Se così fosse, l’imputato sarebbe automaticamente condannato sulla base della denuncia, considerato che le linee guida ritengono sostanzialmente irrilevanti sia le ritrattazioni che i ridimensionamenti».
[65] Sul principio di diffidenza, si veda G. Tuzet, La prova testimoniale, in Ragion pratica, 2016, n. 47, pp. 279 ss., il quale afferma: «in un contesto come quello processuale vale piuttosto il Principio di diffidenza: non crediamo e non dobbiamo credere ai testimoni per default, ma solo a date condizioni». In un altro lavoro l’Autore spiega: «il Principio di diffidenza implica che non si debba accogliere una testimonianza a meno che questa non si mostri attendibile e a questo fine giovano le dinamiche processuali del controllo dialettico e del confronto critico. Il principio processuale del “contraddittorio” […] costituisce una garanzia fondamentale in tal senso» (G. Tuzet, La prova ragionata, cit., pp. 176 ss.).
[66] Sul falsificazionismo come metodo epistemologico del processo penale, P. Ferrua, Presentazione, in G. Carlizzi – G. Tuzet (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Giappichelli, 2018, pp. 12 ss. In argomento si vedano anche E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione, cit., pp. 84 ss.; C. Naimoli, Principio di falsificazione tra prova indiziaria e prova scientifica. Riflessioni sul caso Garlasco e M. Kercher, Pacini giuridica, 2017. Per un recente ridimensionamento dell’importanza del pensiero di Popper, G. Boniolo – G. Gennari, Ahi Popper! Ripensando criticamente al suo mito tra i giuristi, anticipato in sistemapenale.it, 9 marzo 2022, e poi in Sis. pen., 2022, n. 3, pp. 5 ss.
[67] A tale proposito si veda P. Catellani, Strategie cognitive nel ragionamento del giudice: prospettive di ricerca e di formazione, in Arch. Psicologia Neurologia e Psichiatria, 1987, n. 3, pp. 419 ss., la quale fa rientrare nel concetto di “errore” «formulare decisioni sulla base di una sistematica tendenza a confermare anziché a falsificare le ipotesi».
[68] L. de Cataldo Neuburger, Esame e controesame nel processo penale. Diritto e psciologia, II ed., Cedam, 2008., pp. 137 ss. Si sofferma sulla confirmation bias, come scorciatoia cognitiva o euristica che favorisce la “decisione confermativa”, R. J. Gloeckner, L’accelerazione del processo penale: un’analisi dei diritti fondamentali, in Dir. e Gius. Min., 2014, n. 2-3, p. 67 ss. (il tema è trattato, in particolare, a pp. 72 ss.).
[69] A proposito della fisiologica “inaffidabilità” della testimonianza, si vedano i celebri rilievi di F. Cordero, Procedura penale, VIII ed., Giuffrè, 2006, che mettono in luce le difficoltà di valutazione e il fondo “fideistico” (o residuo alogico) delle prove dichiarative, da lui ribattezzate funzioni narrative. Tra le tante pagine si possono qui ricordare quella in cui segnalava «lo scarso credito tradizionalmente accordato a questa fonte (ad esempio, nell’antica common law). Sono innumerevoli gli esempi di quanto sia infìda» (p. 671); così come quella in cui, rimarcandone i più evidenti profili di criticità, considerava la testimonianza una «fonte malsicura […] insidiata da fallibilità percettivo-mnemonico-linguistica, a supporla soggettivamente veridica, ma sono frequenti anche le menzogne, anche gratuite» (p. 1023). Si è occupato di indagare in modo proficuo, con un’analisi molto raffinata, questo importante “capitolo” del pensiero corderiano, difficile da cogliere nel suo autentico significato, V. Aiuti, Cordero e l’“atto di fede”, in archiviopenale.it, 14 dicembre 2024.
[70] Quelli che G. Ubertis, Principi di epistemologia giudiziaria, Giuffrè, 2015, p. 83, pp. 114-115, colloca nel novero dei c.d. fatti secondari. L’Autore segnala anche l’aspetto evidenziato nel testo (tra parentesi), ossia che «nell’adempiere al proprio compito valutativo, l’organo procedente deve sostanzialmente operare su base argomentativa, con ampio impiego delle massime d’esperienza» (p. 115).
[71] Sembra dell’avviso che la valutazione di attendibilità debba essere consistere in un accertamento da compiere in positivo, F. Cordero, Procedura penale, cit., pp. 1023-1024, secondo il quale «bisogna sapere, o almeno esserselo domandato, fin dove meritino credito le fonti. Tale quesito implica due analisi: sul locutore e sulla locuzione» (il corsivo è nostro).
[72] Utilizza tali concetti, per ragionare sull’effettivo significato della presunzione di non colpevolezza, P. Ferrua, La prova nel processo penale. Volume I. Struttura e procedimento, II ed., Giappichelli, Torino, 2017, pp. 56-57, secondo cui «c’è un netto divario tra dire che l’imputato ‘è considerato non colpevole’ (negazione attiva) o che ‘non è considerato colpevole’ (negazione passiva). Nel primo caso si predica un giudizio di ‘non colpevolezza’ del tutto equivalente a quello di innocenza; nel secondo si predica l’agnosticismo, l’astensione dal giudizio di colpevolezza», precisando poi che «[i]n tutti i verbi epistemici (credere, ritenere, provare, presumere, pensare, ecc.) le negazione attiva o passiva assume un significato ben diverso» (p. 57).
[73] Sulla distinzione tra termine marcato e termine consequenziale, si veda P. Ferrua, La prova nel processo penale. Volume I. Struttura e procedimento, cit., p. 107, secondo il quale «in ogni alternativa decisoria si può distinguere: a) un termine ‘marcato’ che veicola la proposizione o le proposizioni da provare, ossia il tema del giudizio; b) un termine opposto che si pone come ‘consequenziale’ all’impossibilità di affermare il termine ‘marcato’, quindi alla mancata prova (oltre ogni ragionevole dubbio) della proposizione da provare. In altre parole, il termine ‘consequenziale’ non dispone di un’autonoma proposizione da provare, perché i presupposti per la sua affermazione si riassumono nel fallimento della prova relativa al termine ‘marcato’» (il corsivo è nostro).
[74] Sulla distinzione tra proposizioni finali e intermedie, si veda P. Ferrua, La prova nel processo penale. Volume I. Struttura e procedimento, cit., pp. 81-83.
[75] Ossia il c.d. risultato di prova, per usare la terminologia di G. Ubertis, Principi di epistemologia giudiziaria, cit. pp. 106, 113.
[76] Ibidem.
[77] Propone, ad esempio, una «checklist di valutazione della qualità della narrazione testimoniale», G. Sartori, La memoria del testimone. Dati scientifici utili a Magistrati, Avvocati e Consulenti, Giuffrè, 2021, pp. 369 ss. In tale prospettiva si veda, volendo, anche A. Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, cit., pp. 47 ss.
[78] Sul significato della locuzione si sofferma, di recente, con grande autorevolezza T. Padovani, Separare le carriere? La domanda è: perché mai sono unite?, su L’Unità, 3 febbraio 2025, p. 5. Anche su questo tema non si può fare a meno di leggere le limpide osservazioni di L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Editori Laterza, 2024, p. 250, secondo il quale: «[l]a separazione vale a impedire […] la possibilità che la cultura dei giudici, anche per la preminenza che oggi tutti riconoscono ai pubblici ministeri, venga inquinata – come mostra l’eccessiva acquiescenza dei giudici delle indagini preliminari alle richieste dei loro “colleghi” pubblici ministeri – della cultura dell’inquisizione. Le due funzioni, benché entrambe di carattere cognitivo, sono del resto totalmente diverse, essendo l’una istituzionalmente di parte e l’altra imparziale e super partes». E ancora, si veda V. Maiello, Separazione delle carriere, così salviamo il giusto processo, in disCrimen, 22 gennaio 2025 (già apparso su Il Quotidiano del Sud, 22 gennaio 2025), p. 3, il quale afferma: «L’unicità delle carriere favorisce una rappresentazione della giustizia penale schiacciata sul racconto che ne fanno gli organi – le Procure della Repubblica – che, grazie agli spazi di manovra comunicativa che gli sono consentiti, fa presa sull’opinione pubblica e contribuisce a contaminare la cultura del giudice, rendendola permeabile alla visione dell’accusa e, perciò, alimentando nocive pratiche interpretative delle norme orientate alla loro massima estensione contra reum e, dunque, elusive della presunzione di non colpevolezza e dell’in dubio pro reo».
[79] E qui il pensiero non può che correre, ancora una volta, ai tanti intollerabili pervertimenti del modello accusatorio denunciati da O. Mazza, Tradimenti di un codice. La Procedura penale a trent’anni dalla grande riforma, Giappichelli, 2020, passim.
[80] Sul punto sono molto eloquenti i numeri che vengono fuori da Cass. Uff. statistica, La Cassazione penale. Annuario statistico 2023, Tab. 5.4: Procedimenti definiti: classificazione per esito: nel 2023 l’inammissibilità ha colpito circa il 71,2% dei ricorsi e lo ha fatto in modo marcatamente asimmetrico tra ricorsi presentati dal pubblico ministero e quelli interposti dalle parti private, atteso che i primi non sono andati oltre il 34,1% di tutte le inammissibilità, mentre i secondi hanno sfondato la quota del 72,8% sul totale di tali esiti. Questi dati, di recente, sono stati segnalati da A. De Caro, Ricorso per cassazione e clausole di inammissibilità non formali, relazione tenuta all’ultimo convegno annuale dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale, dal titolo Dove va la giustizia penale, svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano, 12-14 dicembre 2024.
[81] O. Mazza, La nuova cultura dell’inammissibilità fra paradossi e finzioni legislative, in Cass. Pen., 2017, n. 10, pp. 3472 ss.
[82] Cfr. Cass., Sez. un., 24 novembre 2016 (dep. 2017), n. 7697, Amato, Pres. Canzio, Rel. Izzo, che ripercorre gli arresti più significativi che hanno progressivamente stabilizzato l’orientamento del c.d. pregiudizio effettivo (o della c.d. lesività in concreto o, ancora, della c.d. offensività processuale).
[83] In argomento si vedano, tra gli altri: P. Ferrua, Lacune ed anomalie nelle regole dell’esame incrociato, in Proc. pen. giust., 2016, n. 4, pp. 1 ss., il quale, nel segnalare l’impropria formulazione dell’art. 499 c.p.p., auspica una sua riscrittura per far in modo che il divieto di domande suggestive risulti applicabile anche al giudice (p. 6); G. Gulotta, Divieto di domande suggestive anche per il giudice. Commento a Cass., Sez. IV, 6 febbraio 2020 (dep. 19 maggio 2020), n. 15331, Pres. Di Salvo, Est. Dawan, in sistemapenale.it, 1 luglio 2020; C. Naimoli, Le domande suggestive poste dal giudice nell’esame testimoniale, in Giur. it., 2020, n. 11, pp. 2565 ss.; E. Randazzo, Insidie e strategie dell’esame incrociato, Giuffrè, 2008, pp. 8 ss.
[84] M. Nobili, L’accusatorio sulle labbra, l’inquisitorio nel cuore, in Crit. Dir., 1992, n. 4/5, p. 11 ss. Piccola curiosità per gli appassionati: leggendo lo scritto, in nota 10, si scopre che in realtà l’espressione icastica risalirebbe al dibattito della seconda metà degli anni ’60 e la paternità andrebbe attribuita al Nuvolone (Aa.Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale. Atti del IV convegno di studi Enrico de Nicola, Giuffrè, 1965, p. 86), secondo cui era «evidente che molti hanno il cosiddetto processo accusatorio sul labbro, ma il processo inquisitorio nel cuore». Identica espressione, sempre in quegli anni, fu impiegata anche dal Pisapia, come egli stesso ricorda in G. Pisapia, Verso una nuova giustizia penale. Atti del XVI Convegno di studi Enrico de Nicola, Giuffrè, 1989, p. 25.
[85] In argomento, rifuggendo dalla tentazione di dilagare su di un tema così attuale e nevralgico, siano consentite tre citazioni molto significative. Innanzitutto G. Frigo, Separazione delle «carriere» o separazione delle «funzioni», in Dir. pen. proc., 1997, n. 6, pp. 732 ss. (opportunamente riproposto su dirittodidifesa.eu, 21 febbraio 2020), secondo cui la separazione delle carriere è «una implicazione razionale» e se non si realizza «il modello processuale, per quanto si distinguano le funzioni, entra fatalmente in crisi: si involve e regredisce»; l’Autore poi ammonisce: «[a] qualunque giurisdizione si voglia fare riferimento, la relativa cultura – per essere davvero un valore – dovrebbe essere comune non solo a giudici e pubblici ministeri, ma anche a tutti gli altri soggetti chiamati ad esercitare funzioni processuali (in particolare, agli avvocati difensori) e, in definitiva, a tutti i cittadini, prescindendo dall’appartenenza o meno ad un unico corpo burocratico». Tra i contributi più recenti, si rivela estremamente prezioso S. Lorusso, Separazione delle magistrature giudicante e requirente e modello accusatorio, in sistemapenale.it, 23 gennaio 2025, il quale non solo ribadisce con nitore l’ineludibilità e l’urgenza di realizzare la separazione delle carriere (§ 4, pp. 7 ss.), ma propone anche una scientifica demolizione delle principali obiezioni mosse alla riforma (§ 3, pp. 5 ss.). Terza citazione, imprescindibile anche in considerazione della sua particolare autorevolezza, L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Editori Laterza, 2024, p. 28, secondo il quale «la separazione tra giudice e accusa […] è un tratto caratteristico del processo accusatorio e richiede la netta distinzione delle loro funzioni e delle loro carriere onde sia assicurato il corretto accertamento della verità processuale, tramite la parità delle parti e l’imparzialità del giudice nella valutazione delle prove che è onere dell’accusa produrre diritto della difesa confutare»; più avanti l’Autore è, se possibile, ancora più perentorio, affermando che la separazione «è il primo requisito del processo accusatorio, indispensabile al corretto accertamento del vero sulla base della parità delle parti nel contraddittorio e alla terzietà, l’equidistanza, e l’estraneità del giudice alle finalità da esse perseguite: un’estraneità che deve essere di tipo istituzionale, non dovendo il giudice subire alcun condizionamento di parte e tanto meno da parte dell’accusa». L’Autore insiste poi su di un aspetto apparentemente sottile, ma tutt’altro che secondario, affermando che la «garanzia statutaria» deve essere volta ad assicurare che tra giudici e pubblici ministeri «non si formino»
[86] Sulla «cifra ‘controintuitiva ed antilogica’» di molte delle regole della «‘ragione pubblica penalistica’» si veda V. Maiello, Il liberalismo penale di Sciascia alla prova del pentitismo. Tra letteratura e militanza civile, in L. Zilletti – S. Scuto (a cura di), Le ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia, Leo S. Olschki, 2022, p. 9. Da ultimo si veda anche V. Manes, Destinati a navigare controcorrente, in dirittodidifesa.eu, 2 aprile 2024, il quale osserva che i princìpi del garantismo non rispondono «ai convincimenti diffusi, né all’orizzonte d’attesa dei consociati» e spesso «risultano controintuitivi o persino antilogici» (p. 2).
[87] Manipolando una bella espressione usata da un autorevole politologo A. Panebianco, L’equilibrio (perduto) dei poteri, in CorSera, 27 dicembre 2019, che afferma: «un segmento ampio del pubblico, degli elettori comuni ma anche una consistente fetta delle cosiddette élites (politiche ma anche intellettuali, della comunicazione, eccetera) non dispongono di credenziali democratiche credibili. In altre parole, la democrazia (l’unica possibile, quella rappresentativa) è – oggi come in passato – avversata da molti italiani». Si tratta di un articolo in cui l’Autore, nel descrivere il «rovesciamento dei rapporti di forza fra potere giudiziario (ciò che la Costituzione chiama «ordine» ma che, di fatto, è diventato un potere) e potere politico- rappresentativo a favore del primo», descrive l’attuale situazione con la nota locuzione «Repubblica giudiziaria». Piace ricordare che proprio questo articolo di Panebianco è stato ripreso, tra gli altri, da G. Insolera, È l’epoca dei giudici o dei pubblici ministeri?, in dirittodidifesa.eu, 7 dicembre 2021.
[88] Riprendiamo il felice aforisma di F. Petrelli, Ogni modello ha bisogno del suo interprete, in dirittodifesa.eu, 2 giugno 2024, secondo cui «[s]e le carriere uniche hanno offerto una base ideologica e culturale del tutto coerente con il processo inquisitorio, le stesse hanno successivamente costituito un insormontabile ostacolo alla effettiva realizzazione del nuovo modello accusatorio. Ogni modello processuale ha, infatti, bisogno del suo interprete e l’interprete del modello accusatorio è il giudice terzo».
[89] Su questi temi sono davvero centrali, per un primo approccio, G. Cevolani – V. Crupi, Come ragionano i giudici: razionalità, euristiche e illusioni cognitive, in Criminalia, 2017, pp. 181 ss., anche in disCrimen, 22 ottobre 2018; G. Gulotta – P. Egnoletti – B. Niccolai – L. Pagani, Tendenze generali e personali ai bias cognitivi e la loro ricaduta in campo forense: fondamenti e rimedi, in sistemapenale.it, 11 giugno 2021. Per approfondire sono preziosissimi R. Rumiati – C. Bona, Dalla testimonianza alla sentenza. Il giudizio tra mente e cervello, Il Mulino, 2019; A. Forza – G. Menegon – R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, 2017; G.M. Baccari – P. Felicioni (a cura di), La decisione penale tra intelligenza emotiva e intelligenza artificiale, Giuffrè, 2023. Per una lettura di questi aspetti con le lenti della filosofia e della epistemologia, si veda V. Marzocco, Nella mente del giudice. Il contributo di Jerome Frank al realismo giuridico americano, Giappichelli, 2018, spec. 207 ss., 214 ss.
[90] In ordine a tale aspetto, risultano molto lucide le risalenti riflessioni di G. Falcone, Il pubblico ministero nel nuovo processo penale, in Interventi e proposte (1987-1992), Sansoni Editore, 1994, p. 179, il quale evidenzia che tra magistrati inquirenti e giudicanti sono profondamente diverse «le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi»; per rimarcare poi che «disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti». Da ultimo, insiste molto sul tema della specializzazione, evidenziando come la separazione delle carriere sia «legata anche ad un’esigenza di assicurare una elevata e provata professionalità a chi svolge tali funzioni», D. Airoma, Riformare la giustizia, si può, in centrostudilivatio.it, 27 febbraio 2025.
[91] G. Di Federico, Reclutamento dei magistrati: disfunzioni e proposte di modifica, in archiviopenale.it, 13 gennaio 2020; C. Guarnieri, Ruolo della giurisdizione e modelli di reclutamento della magistratura, in Criminalia, 2016, pp. 235 ss.; C. Guarnieri – P. Pederzoli, La magistratura nelle democrazie contemporanee, Editori Laterza, 2002, pp. 41, 80 e 110 (in quest’ultima parte si parla del fenomeno della c.d. ventilazione esterna del corpo giudiziario, volta anche ad evitare tendenze corporative).
[92] Il riferimento, ça va sans dire, è al disegno di legge costituzionale C-1917 di iniziativa governativa, rubricato Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare, presentato alla Camera dei deputati il 16 giugno 2024 e approvato in prima lettura il 16 gennaio 2025.