FUGA PER LA VITTORIA: PER UNA RIFORMA SERIA E PROFONDA DELLA GIUSTIZIA PENALE – DI GIOVANNI FLORA
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FUGA PER LA VITTORIA: PER UNA RIFORMA SERIA E PROFONDA DELLA GIUSTIZIA PENALE
di Giovanni Flora*
La vera riforma della giustizia penale non può farsi intervenendo su questo o quel settore del diritto penale sostanziale e del processo penale, ma occorre intervenire con riforme di sistema che si propongono l’obiettivo di resettare gli equilibri dei poteri dello Stato così come essi sono scolpiti nella Costituzione repubblicana. La cosiddetta “Riforma Cartabia” segna certo un progresso rispetto alla precedente situazione legislativa del diritto penale sostanziale. Sul piano del processo, gli ‘attentati’ alle impugnazioni e al diritto di difesa non sono del tutto scongiurati, anzi. La riforma del CSM non affronta seriamente il problema, grave, dell’attuale delegittimazione sociale della magistratura. Alcune considerazioni sulla recente riforma.
- Spiegazione del titolo. 2. La situazione attuale. 3. Le cause principali da rimuovere. 4. Che fare?
- Spiegazione del titolo.
L’immagine che ci restituisce oggi il quadro della giustizia penale è quanto di più lontano non solo dai principi costituzionali che governano gli assetti del diritto penale sostanziale e del processo penale, ma anche dai principi che presidiano gli assetti dei poteri dello Stato, con un conseguente sconvolgimento (se non sovvertimento) degli equilibri costituzionali fondativi del sistema democratico che essi disegnano.
La vera riforma della giustizia penale non può farsi dunque intervenendo su questo o quel settore del diritto penale sostanziale e del processo penale, interventi di cui v’è comunque bisogno; ma occorre intervenire con riforme di sistema che si propongono l’obiettivo di resettare gli equilibri dei poteri dello Stato così come essi sono scolpiti nella Costituzione repubblicana che – non dimentichiamo mai – è frutto di battaglie che sono costate lacrime e sangue e che hanno segnato il passaggio da un sistema autoritario-dittatoriale a un sistema liberal-democratico-sociale. Ma, come nel film di John Huston non si può (ri)trovare la libertà (ovvero un sistema penale e processuale liberale) senza combattere e sperando di farcela da soli con uno stratagemma (la galleria scavata sotto i lavatoi dello spogliatoio); si combatte contro le forze espressione del sistema autoritario-dittatoriale (nel film di Huston simboleggiato dalla squadra di calcio di una base militare dell’esercito nazionalsocialista, i soldati della Wehrmacht), [fuor di metafora: il sistema autoritario, populistico, giustizialista] si tiene testa fino all’ultimo, si vince (il pareggio, nella sceneggiatura del film, suona come una vittoria morale) e si conquista la libertà con l’aiuto della popolazione che ha compreso e apprezzato chi si è battuto contro i più potenti e ha ottenuto un risultato “contro ogni pronostico”.
Si tratta certo di un’iperbole, mi rendo conto che sia una provocazione, ma quello che intendevo sottolineare con questo titolo (scelto assieme a Guido Casaroli, anche – dico la verità – per suscitare un po’ di curiosità in più rispetto a un titolo più elegante, ma anche un po’ stantio tipo: “verso una vera riforma del sistema penale?”) è proprio la necessità che i temi cruciali della riforma del sistema penale vengano presentati e dibattuti non solo tra gli addetti ai lavori (gli scritti di professori di diritto e procedura penale sulla “riforma Cartabia” si sprecano, i convegni si accavallano a ritmo vertiginoso), ma cercando di “comunicare” il processo penale (il diritto penale vive nel processo!) ai non giuristi di professione, alle associazioni culturali, alle rappresentanze di professionisti e di lavoratori; agli studenti, alla gente comune[1]. E oggi, in questa meravigliosa sede, ho l’occasione di farlo.
Il problema è, infatti, innanzitutto, culturale.
- La situazione attuale.
Nell’abstract del mio intervento mi sono permesso di mettere in evidenza i segni patognomici più evidenti della crisi della giustizia penale, sotto il profilo del diritto penale sostanziale, del diritto processuale penale e dell’ordinamento giudiziario.
Su questi tre piani si è recentemente tentato di intervenire. La cosiddetta “Riforma Cartabia” segna certo un progresso rispetto alla precedente situazione legislativa del diritto penale sostanziale: l’abbandono del sistema rigidamente carcerocentrico, con previsione di soluzioni alternative di definizione del processo diverse da quelle di una sentenza di condanna a pena detentiva. Ma certo non basta: i reati sono ancora troppi e le norme incriminatrici continuano a essere prodotte a getto continuo inseguendo i bisogni di punizione reclamati dalla opinione pubblica (populismo legislativo).
Sul piano del processo, gli ‘attentati’ alle impugnazioni e al diritto di difesa non sono del tutto scongiurati, anzi. La riforma del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), poi, piccola parte di una necessaria riforma organica dell’ordinamento giudiziario, non affronta seriamente il problema, grave, dell’attuale delegittimazione sociale della magistratura. Non basta certo ‘eliminare’ Palamara come classico ‘capro espiatorio’.
Va poi da sé che bisogna intervenire dotando la giustizia penale di maggiori risorse umane e finanziarie (ma ‘l’ufficio del processo’ peggiorerà, anziché migliorare la situazione).
Il problema serio è poi quello della qualità della giurisdizione (e per vero anche dell’avvocatura).
Il tema della formazione è uno dei più rilevanti: formazione universitaria e post-universitaria (preparazione di esame e concorsi) sono assolutamente inadeguate. La formazione universitaria, stretta nella morsa della semestralizzazione (che è di fatto una trimestralizzazione) dei corsi e della ‘conta’ dei crediti (non si può richiedere allo studente un impegno superiore a quello idealmente scandito dal peso in crediti che la materia possiede all’interno dell’ordinamento didattico) non è in grado di far assimilare sufficientemente le radici profonde degli istituti penalistici e processualpenalistici. Al più può aspirare a lasciar traccia di qualche pallida nozione fondamentale. I corsi di preparazione post-universitaria puntano più che altro alla ‘memorizzazione’ acritica delle massime della Cassazione, considerata sicuro viatico di successo. O a cercar di ‘indovinare’ i temi oggetto delle prove di esame o di concorso.
- Le cause principali da rimuovere.
Quello che io ho provocatoriamente chiamato ribaltamento dell’equilibrio dei poteri costituzionali fondativi del sistema liberal democratico, trova innanzi tutto fondamento in una vera e propria perversione del sistema delle fonti del diritto e del processo penale.
Possiamo ben dire che da “Mani Pulite” in poi (ma certo anomalie erano presenti da sempre), il monopolio delle fonti non appartiene più al Parlamento. Lo studente che rispondesse oggi alla domanda: “mi parli della riserva di legge” che la riserva di legge attiene alla disciplina delle fonti di produzione che la Costituzione attribuisce al Parlamento darebbe una risposta sbagliata.
Di fatto, da tempo, l’officina dove si progettano e si producono le leggi penali (e processuali penali) non ha più sede né a Montecitorio, né a Palazzo Madama. Sta in via Arenula, nelle stanze del Ministero della Giustizia, presidiato da anni, manu militari, da magistrati. L’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia è presieduto e composto da magistrati, oltre cento. Magistrati certo, di solito, di altissima qualificazione e che poi, a fine mandato, possono tranquillamente tornare, a fare i magistrati. Solo chi ha ricoperto cariche elettive o di governo, pare che, in base a una delle numerose ipotesi di delega progettate, non vi potrà più rientrare (è il tema delle cosiddette ‘porte girevoli’).
Ben inteso anche in altri ministeri e in altre amministrazioni dello Stato abitano magistrati ‘fuori ruolo’ che sono circa 200 (in futuro il numero massimo sarà minore). Alla faccia della separazione tra politica e magistratura! È seriamente pensabile che chi ricopre quei ‘fuori ruolo’ non abbia alcuna cooptazione politica?
Non solo, ma – è un fenomeno ben conosciuto – l’ANM (il ‘sindacato dei giudici’) non manca mai di far sentire una vivace voce oppositiva alle proposte di riforme sgradite. Clamorosa la recente iniziativa della proclamazione di uno sciopero (che per vero non è certo stato un successo) contro una proposta di modifica del CSM e dei Consigli giudiziari. Sciopero – si badi – indetto da chi aveva ipotizzato a carico degli avvocati che si astenevano dalle udienze a difesa dei diritti dei cittadini, il delitto d’interruzione di pubblico servizio. Le novità legislative, poi, sono subito accolte nella culla dell’ufficio del Massimario (di cui parlerò poi) in modo che possano, fin dai primi vagiti, crescere abbeverandosi al latte della sapienza dei magistrati che ne fanno parte. Come se non bastasse è ormai da anni conclamato il fenomeno del ‘diritto penale giurisprudenziale’, ovvero quello della tendenza della giurisprudenza a creare essa stessa la norma da applicare al caso concreto, al di fuori e al di là del significato sensatamente attribuibile al testo legislativo, certo sempre più spesso indecoroso.
Quanto alla legalità processuale poi, l’attività ‘creativa’ è ancor più spiccata attraverso un’interpretazione ‘funzionalistica’ delle norme a garanzia dei diritti della difesa. Questa passione creativa della giurisprudenza dà poi luogo a un altro fenomeno che influenza profondamente la formazione dei magistrati e degli avvocati e, incidendo sulla soluzione dei casi concreti, la vita delle persone. Quello della supremazia della massima della Cassazione (meglio se a sezioni unite) sul testo della legge. Giudici di merito, avvocati, aspiranti giudici, aspiranti avvocati, si cibano di massime. Se non si trova la massima che regola il caso, il caso è insolubile.
Ma come viene creata la massima e da chi? L’ufficio del Massimario è composto da 70 magistrati, nominati dal CSM, tra magistrati idonei a ricoprire il ruolo di consiglieri di Cassazione, sulla base dello scrutinio dei titoli che essi presentano (‘sentenze-merito’, anche indicate dagli stessi aspiranti, pubblicazioni, altri meriti curriculari). Ci fosse non dico un avvocato, ma un ricercatore o un professore universitario magari ‘a tempo pieno’ perché non vi siano sospetti di connivenza avvocatesca. Ebbene, l’esperienza dimostra che vengono mandate al Massimario non tutte le sentenze, ma, in sostanza, solo le sentenze i cui principi di diritto si ispirano alla linea di politica criminale giudiziaria prevalente in magistratura e vengono massimate sovente non in conformità al principio di diritto espresso nella sentenza ai fini della decisione del caso[2].
Si pensi poi che i detentori di cotanto potere sono sostanzialmente irresponsabili (Pubblici Ministeri che hanno condotto indagini con richieste (accolte) di misure cautelari personali e reali, indagini poi terminate dopo lungo tempo con assoluzioni, non hanno mai risposto nemmeno sul piano disciplinare, nemmeno in termini di giudizio negativo di professionalità).
Altro tema scottante: se tutti i magistrati (oltre il 99%) ottengono valutazioni positive, al momento di scegliere a chi conferire un ufficio direttivo quali saranno i criteri di scelta? Meritocratici o politici?
Si pensi alla scelta del Procuratore Capo di Roma che ha il potere davvero temi- bile di mettere sotto inchiesta i parlamentari e comunque i ‘politici’ della Capitale. Ma più in generale è lo strapotere del Pubblico Ministero che, complice una ‘svista’ del codice del 1988, può ‘andare alla caccia’ della notizia di reato e, complice la so- stanziale indeterminatezza o comunque poca chiarezza di molte norme incriminatrici, può sulla base di meri indizi (o meglio sospetti) inviare, o più spesso far recapitare ‘a mezzo stampa’, un’informazione di garanzia (talora accompagnata da una misura cautelare richiesta e concessa) – per carità – ‘atto dovuto’ a chicchessia, rovinando però carriere politiche (il caso del sindaco Marino, tanto per fare un esempio tra i moltissimi, ce lo siamo scordati?), vite personali, familiari, professionali e imprenditoriali.
- Che fare?
Certe riforme drastiche come la distribuzione dei magistrati in due diverse organizzazioni di ordinamento giudiziario potrebbero certamente aiutare. Come forse stabilire una durata delle indagini non eccessivamente dilatata (sei mesi) con obbligo, a pena di decadenza, di esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione in termini perentori dopo avere svolto le eventuali indagini resesi necessarie a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. Come pure certamente aiuterebbe un vero controllo di legalità delle indagini da parte di un giudice davvero terzo e indipendente.
Si potrebbe poi pensare di richiedere il presupposto dei gravi indizi anche per la concessione delle misure cautelari reali, assecondando e completando un percorso sul quale sembra avviarsi, sia pure molto timidamente, anche la giurisprudenza di legittimità.
Sul piano del diritto penale sostanziale, una drastica depenalizzazione, attuata senza cedimenti alle inevitabili pressioni volte a mantenere questo o quel reato, è assolutamente indispensabile. Sa bene chi scrive che tutte le leggi di depenalizzazione non sono certo state un successo. Ma si tratta d’intervento ineludibile. A meno che si voglia puntare sulla discrezionalità dell’azione penale, vincolata a criteri selettivi legislativamente predeterminati. Come pure ineludibile si presenta la necessità di aumentare ancora gli spazi di quella che viene chiamata la “depenalizzazione in concreto”, che consenta di sottrarre al circuito del processo penale i fatti, pur costituenti reato, che in concreto si rivelino di rilevanza trascurabile. Così come un deciso ampliamento della possibilità di ricorrere ai riti alternativi del ‘patteggiamento’ e del giudizio abbreviato, rendendoli più ‘appetibili’ ed eliminando alcune persistenti preclusioni, potrebbe alleggerire il carico dei processi da celebrare con rito dibattimentale, consentendo così ai tribunali di concentrare risorse finanziarie e umane sui casi più importanti.
Ma è soprattutto necessario che il Parlamento si riappropri a pieno titolo della funzione legislativa. Il che richiede però, non solo un salto di qualità della ‘politica’ che oggi sembra assai difficile pronosticare, ma anche che in un prossimo futuro il Parlamento sia in grado di produrre norme scritte in un italiano almeno decoroso e dotate di quel sufficiente grado di determinatezza che non finisca per delegare l’individuazione del significato precettivo della norma alla giurisprudenza.
La revisione dei componenti dell’ufficio del Massimario sarebbe un’altra riforma da attuare urgentemente.
L’introduzione della responsabilità dei magistrati, almeno in termini di progressione di carriera, potrebbe essere un’altra minima riforma da prevedere. La ‘separazione delle carriere’ – ripeto – anche.
Ma il problema di fondo è culturale, senza la penetrazione della cultura del diritto e del processo penale liberale, a cominciare dalla presunzione d’innocenza (che non è solo una regola di giudizio), nella comunità sociale non ci potrà essere la spinta dei cittadini che aiuti chi da anni si sta adoperando per uscire dal campo paludoso del diritto penale autoritario e del populismo penale verso il diritto penale della libertà.
* Già ordinario di diritto penale nell’Università di Firenze, corresponsabile dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane
[1] Petrelli, Francesco. Critica della retorica giustizialista, prefazione di Biagio De Giovanni, Milano, Giuffrè, 2021
[2] Si rinvia a: Micheletti, Dario. Le fonti di cognizione del diritto vivente, in Criminalia, 2012, p. 619 segg. nonché agli scritti contenuti nel volume L’ufficio del Massimario e la forza dei precedenti, atti del convegno di Roma, 13-14 dicembre 2019, organizzato dall’Osservatorio sulla Corte di Cassazione dell’UCPI, a cura di Adelmo Manna-Fabio Alonzi, Milano, Giuffrè, 2020.