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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 1/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 1/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU

A cura dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane

CORTE EDU, CAUSA BUTURUGA CONTRO ROMANIA, SENT. 11 FEBBRAIO 2020 (RIC. N. 56867/15)
Nella causa Buturuga c. Romania, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito, all’unanimità, che la c.d. cyberviolenza dev’essere considerata, a tutti gli effetti, come violenza contro le donne e che, di conseguenza, le autorità nazionali non possono trattare episodi quali l’utilizzo abusivo degli account di una donna da parte dell’ex marito o l’acquisizione di immagini e dati alla stregua di casi di violenza “comune”, ma devono prevedere l’applicazione delle regole più stringenti.
Dagli articoli 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata, che include quello alla riservatezza della corrispondenza) della CEDU deriva, invero, l’obbligo positivo di adottare misure preventive e sanzionatorie anche nei casi in cui una donna subisca intrusioni nel proprio computer e nei propri profili social, nonché furti di dati personali ed immagini intime.
Nel caso di specie, si era rivolta alla Corte una cittadina rumena che aveva denunciato l’ex marito per i ripetuti episodi di violenza domestica e per l’utilizzo abusivo dei suoi account informatici, inclusa la sua pagina Facebook, l’intromissione nel computer, lo stalking via web e l’acquisizione di dati e immagini. Il pubblico ministero aveva archiviato il procedimento perché i comportamenti dell’uomo non erano stati considerati come “particolarmente gravi”.
La decisione era stata impugnata dalla donna ed il tribunale di primo grado aveva disposto una misura di protezione applicabile per 6 mesi che, però, secondo i giudici di Strasburgo non era da ritenersi effettiva.


CORTE EDU, CAUSA FELLONI CONTRO ITALIA, SENT. 6 FEBBRAIO 2020 (RIC. N. 44221/14)
Nella causa Felloni c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto, all’unanimità, la violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto a un processo equo) della CEDU, e l’insussistenza della denunciata violazione dell’articolo 7 (nullum crimen sine lege).
Il caso riguardava un procedimento penale che aveva portato alla condanna del ricorrente per guida in stato di ebbrezza. Egli lamentava che la sua condanna alla pena detentiva sarebbe derivata dall’applicazione retroattiva di una legislazione penale più severa. In particolare, si doleva del fatto che non gli erano state concesse le circostanze attenuanti generiche in conformità con la legge in vigore al momento dei fatti e, solo successivamente, modificata dalla L. n. 125/2018. Egli, inoltre, censurava la mancanza di motivazione sul punto nella sentenza della Corte di Cassazione.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto che la Corte di Cassazione fosse venuta meno all’obbligo di motivare la sua decisione sulla richiesta concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Pur tuttavia, i Giudici alsaziani hanno ritenuto che il ricorrente non fosse stato penalizzato dalla sopravvenuta novella dal momento che la Corte d’Appello aveva motivato congruamente l’esclusione delle richieste attenuanti sulla base della disciplina vigente al momento della commissione del fatto.


CORTE EDU, CAUSA MAGOSSO E BRINDANI CONTRO ITALIA, SENT. 16 GENNAIO 2020 (RIC. N. 59347/11)
Nella causa Magosso e Brindani contro Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto, all’unanimità, la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il caso riguardava la condanna per diffamazione dei due ricorrenti, un giornalista e ed il direttore di una rivista, a seguito della pubblicazione di un articolo sull’omicidio del giornalista Walter Tobagi nel 1980 da parte di un gruppo terroristico contiguo alle Brigate Rosse.
Per quanto riguarda le notizie di cronaca basate su interviste, la Corte ha ribadito la sua precedente giurisprudenza secondo al quale è necessario distinguere tra dichiarazioni del giornalista stesso e quelle di terzi citate in un articolo. Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che i tribunali nazionali non avessero effettuato alcuna distinzione tra le dichiarazioni del primo ricorrente e quelle di D.C., citate nell’articolo.
La Corte ha, inoltre, osservato che i ricorrenti hanno prodotto un numero molto elevato di documenti e di prove concrete che consentono di considerare la versione dei fatti presentata nell’articolo come credibile e con una solida base fattuale. Va inoltre osservato che le dichiarazioni contestate riguardavano eventi risalenti alla fine del 1979 e che l’articolo era stato pubblicato 25 anni dopo, nel 2004.
Secondo il punto di vista della Corte, i giudici nazionali, che avevano ritenuto le osservazioni di D.C. false e contrarie “alla verità stabilita dai giudici in ultima istanza”, non avrebbero fornito motivazioni pertinenti e sufficienti per smentire le informazioni fornite dai ricorrenti.
I ricorrenti erano stati condannati per diffamazione al pagamento di una multa, sanzione penale che, in quanto tale, poteva avere un effetto dissuasivo sull’esercizio della libertà di espressione. I giudici nazionali avevano, inoltre, condannato i due ricorrenti e D.C. a pagare alle parti civili una provvisionale immediatamente esecutiva di €. 120.000 per il risarcimento dei danni ed €. 33.500 a titolo di rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nei tre gradi di giurisdizione, e avevano rinviato al tribunale civile la determinazione dell’esatta entità del danno non patrimoniale.
La Corte ha concluso che la condanna dei ricorrenti ha comportato un’interferenza sproporzionata col loro diritto alla libertà di espressione, non “necessaria in una società democratica” ai fini dell’articolo 10 della Convenzione.


CORTE EDU, CAUSA KAVALA CONTRO TURCHIA, SENT. 10 DICEMBRE 2019 (RIC. N. 28749/18)
Nella causa Kavala c. Turchia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistere: all’unanimità, la violazione degli artt. 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 5 § 4 (diritto a una decisione rapida sulla legittimità della detenzione) della CEDU; con sei voti contro uno, la violazione dell’art. 18 (limitazione dell’uso delle restrizioni alla detenzione); con sei voti contro uno, la violazione dell’art. 18 (limitazione dell’uso delle restrizioni alla detenzione (diritti) in combinato disposto con l’articolo 5 § 1.
La Corte, ha, altresì, statuito che lo Stato convenuto dovrà adottare ogni misura per porre fine alla detenzione del richiedente e disporre il suo immediato rilascio.
Nel caso di specie, il ricorrente – un uomo d’affari che ha dato vita a numerose organizzazioni non governative e movimenti della società civile attivi nella promozione e nella protezione dei diritti umani – aveva sostenuto che il suo arresto e la sua detenzione in custodia cautelare non fossero giustificati alla luce del diritto convenzionale.
Il ricorrente era stato posto in custodia cautelare a causa di un “forte sospetto” di aver commesso i reati di tentato sovvertimento del governo e di tentato sovvertimento dell’ordine costituzionale con la forza e la violenza.
La Corte ha ritenuto che le Autorità turche non siano state in grado di dimostrare che la custodia cautelare in carcere disposta e mantenuta nei confronti del ricorrente fosse giustificata da ragionevoli sospetti basati su un’obiettiva valutazione dei fatti ad esso attribuiti. Ha, inoltre, rilevato che tale misura si basava essenzialmente non solo su fatti che non potevano essere ragionevolmente considerati come comportamenti aventi rilevanza penale ai sensi della legge nazionale, ma che, anzi, erano in gran parte connessi all’esercizio pacifico e non violento dei diritti garantiti dagli articoli 10 e 11 della Convenzione. In assenza di fatti, informazioni o prove che dimostrassero come il signor Kavala fosse stato coinvolto in attività criminali, egli non poteva essere ragionevolmente sospettato di aver tentato di rovesciare il governo con la forza o con la violenza.
Quanto alla doglianza circa la durata complessiva del controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale – pari ad un anno, cinque mesi e ventinove giorni dalla data del deposito del ricorso a quella della notifica della decisione – la Corte di Strasburgo, tenuto conto del contesto individuale del ricorrente e della posta in gioco, ha concluso che il procedimento con cui la Corte costituzionale turca si era pronunciata sulla legittimità della custodia cautelare imposta al ricorrente non poteva essere considerato compatibile con il requisito della “rapidità” di cui all’articolo 5, comma 4.
Infine, la Corte ha valutato che, in considerazione del materiale contenuto nel fascicolo, è stato stabilito oltre ragionevole dubbio che i reati contestati nel caso di specie perseguissero un ulteriore scopo, contrario all’articolo 18, ossia quello di ridurre il ricorrente, e con lui tutti i difensori dei diritti umani, al silenzio.
Di conseguenza, tenuto conto delle particolari circostanze del caso, la Corte ha ritenuto che il governo turco dovesse adottare ogni misura idonea a porre fine alla detenzione del ricorrente e ne garantisse l’immediato rilascio.


CORTE DI GIUSTIZIA U.E., PRIMA SEZIONE, SENT. 12 DICEMBRE 2019 NELLE CAUSE RIUNITE C‑566/19 PPU E C‑626/19 PPU, JR E YC
La Corte ha precisato che l’art. 6, par. 1, della decisione quadro 2002/584/GAI relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che rientrano nella nozione di «autorità giudiziaria emittente», ai sensi di tale disposizione, i magistrati della procura di uno Stato membro, incaricati dell’azione pubblica e collocati sotto la direzione e il controllo dei loro superiori gerarchici, qualora il loro status conferisca loro una garanzia di indipendenza, in particolare rispetto al potere esecutivo, nell’ambito dell’emissione del MAE.
Inoltre, siffatta decisione quadro deve essere interpretata nel senso che i requisiti inerenti ad una tutela giurisdizionale effettiva di cui deve beneficiare una persona nei confronti della quale è emesso un MAE ai fini dell’esercizio di un’azione penale sono soddisfatti qualora, secondo la normativa dello Stato membro emittente, le condizioni per l’emissione di tale mandato e in particolare la sua proporzionalità siano oggetto di un sindacato giurisdizionale in detto Stato membro.