I NUOVI PERIMETRI DELL’APPELLABILITÀ OGGETTIVA, TRA DÉJÀ VU E DUBBI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE – DI MARCO D’AGNOLO E DANIELE LIVRERI
D’AGNOLO LIVRERI – I NUOVI PERIMETRI DELLA APPELLABILITÀ OGGETTIVA.PDF
I NUOVI PERIMETRI DELL’APPELLABILITÀ OGGETTIVA, TRA DÉJÀ VU E DUBBI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
di Marco D’Agnolo e Daniele Livreri*
Sommario: 1. Le novità della riforma Cartabia. – 2. Corsi e ricorsi normativi e intersezioni tra appellabilità oggettiva e soggettiva. – 3. I temi costituzionali di nuovo in gioco. – 4. Considerazioni finali, anche alla luce della “legge Nordio”.
- Le novità della riforma Cartabia.
Nel quadro del corposo intervento rinnovatore – in molti aspetti quasi una riscrittura ab imis del codice di rito – che da due anni a questa parte sta investendo il processo penale per garantire il rispetto degli impegni assunti dal nostro Paese con l’Unione Europea al fine accedere alle risorse finanziarie del Recovery Fund, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. riforma Cartabia) ha rimesso mano, nel solco di una “tradizione” connotata da andamenti ondivaghi e moti pendolari, al disposto dell’art. 593 c.p.p.[1], col dichiarato intento di migliorare l’efficienza del secondo grado di giudizio mediante la riduzione dell’area dell’appellabilità oggettiva.
Al riguardo, nella Relazione illustrativa allo «Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», si legge infatti che «In attuazione dei criteri di delega di cui all’art. 1, comma 13, lett. c), e), f), l) della legge-delega, le modifiche proposte in tema di appello puntano ad implementarne l’efficienza attraverso una riduzione dell’appellabilità oggettiva delle sentenze (…). Viene pertanto esclusa l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, nonché delle sentenze di condanna qualora sia stata applicata la sola pena dell’ammenda o la nuova pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità»[2].
In questa logica, la penna dei riformatori ha modificato il comma 3 dell’art. 593 c.p.p., ai sensi del quale, ora, «sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa».
Dunque, rispetto al previgente testo della norma, coniato dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11[3], secondo cui erano «in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa», se per un verso si è confermata la preclusione all’appello contro le condanne relative a contravvenzioni con le quali sia stata comminata la sola pena pecuniaria[4], per altro verso si è estesa l’inappellabilità alle condanne, sia per delitti sia per contravvenzioni, che abbiano applicato la nuova pena del lavoro di pubblica utilità sostitutivo di cui all’art. 20 bis c.p. (introdotto dalla stessa riforma Cartabia), e alle decisioni di proscioglimento concernenti delitti puniti in astratto con la multa, anche in alternativa alla reclusione.
Ora, se si considera che il limite di appellabilità delle condanne al lavoro sostitutivo appare la conseguenza del necessario consenso dell’imputato all’applicazione di tale pena, della natura non detentiva e della mitezza della stessa[5] – per cui risulta «un livello ridotto di garanzie in presenza di soglie minime di trattamento sanzionatorio»[6] –, non sfugge che la novità di maggior rilievo nell’ottica deflativa perseguita dal legislatore del 2022 sia rappresentata dall’espansione dell’area dell’inappellabilità oggettiva delle sentenze di proscioglimento: prima circoscritta alle sole decisioni liberatorie relative a contravvenzioni punite con l’ammenda o con pena alternativa, include oggi anche quelle relative a delitti puniti con la multa o con pena alternativa (delineando un insieme di preclusioni a cui si aggiungono gli specifici divieti di un secondo giudizio di merito stabiliti per il pubblico ministero e per l’imputato dall’art. 593, comma 2, c.p.p. – di recente modificato dalla l. 9 agosto 2024, n. 114, come si dirà infra – rispettivamente contro le sentenze di proscioglimento per i reati indicati dall’art. 550 c.p.p., e contro le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento per reati puniti con pena detentiva, nel caso in cui abbiano dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso)[7].
Si tratta, come accennato, dell’ennesima interpolazione di una norma destinata ad una ontologica instabilità[8], fintanto che verrà plasmata in funzione di mutevoli indirizzi di politica giudiziaria volti – a seconda del momento – ad allargare o a restringere i canali di accesso all’impugnazione di merito, confidando che assetti “a geometria variabile” possano di volta in volta offrire una momentanea soluzione a problemi di cui il giudizio d’appello soffre da lungo tempo, e che, forse proprio per questo, richiederebbero soluzioni di altro respiro [9].
Ed è quasi scontato, date queste pur sintetiche considerazioni “sul metodo”, che la novella normativa desti perplessità sotto più di un punto di vista, e innanzitutto rispetto alla sua reale capacità di incidere in termini positivi sulla crisi conclamata del giudizio di secondo grado, dato il numero presumibilmente ridotto di procedimenti su cui i nuovi limiti all’impugnativa potrebbero in concreto proiettarsi[10].
In secondo luogo, sul piano dei principi le perplessità derivano dal fatto che la modifica alla disciplina dell’appello qui in esame si inscrive nel generale programma di riduzione dei tempi del giudizio perseguito dal d.lgs. n. 150/2022. E quando il diritto di difesa viene eroso in nome della ragionevole durata del processo l’operazione può comprensibilmente sollevare dubbi circa gli equilibri che ne scaturiscono tra interessi primari fra loro confliggenti, e circa la tenuta costituzionale dei nuovi assetti proposti. In questa prospettiva, invero, «pare corretto ritenere che l’esigenza di bilanciare garanzie difensive (art. 24 comma 2 Cost.) e durata ragionevole del processo (art. 111 comma 2 Cost.) debba condurre a riservare la deflazione in seconde cure essenzialmente agli appelli inutili»[11].
In terza battuta, colpisce che la recente modifica dell’art. 593, comma 3, c.p.p. non sia affatto un inedito nel catalogo dei limiti all’appello ma, al contrario, rappresenti una disciplina già nota che ha conosciuto alterne vicende: più volte inserita ed espunta dal legislatore dal tessuto normativo, è stata anche dichiarata incostituzionale in passato al cospetto di esigenze di tutela della posizione dell’imputato; sicché appare legittimo chiedersi non solo perché reintrodurla ancora una volta nel codice, viste le pregresse altalenanti fortune, ma soprattutto, se essa possa ora ritenersi – pur in un contesto strutturale senz’altro diverso da quello in cui ne era stata stigmatizzata l’irragionevolezza – immune dalle censure illo tempore rilevate dal Giudice delle leggi.
- Corsi e ricorsi normativi e intersezioni tra appellabilità oggettiva e soggettiva.
A questi riguardi va ricordato come nella versione iniziale del codice, l’art. 593 statuisse che «1. Salvo quanto previsto dagli articoli 443, 448 comma 2, 469, il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna e di proscioglimento. 2. L’imputato non può appellare contro le sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. 3. Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa».
In seguito, al fine di uniformare il regime di appellabilità delle condanne a pena pecuniaria emesse all’esito del processo ordinario a quello previsto per il giudizio penale di pace, la l. 24 novembre 1999, n. 468 – che conferiva al Governo la delega “in materia di competenza penale del giudice di pace” – riscrisse il comma 3 della norma stabilendo che fossero «inappellabili le sentenze di condanna relative a reati per i quali è stata applicata la sola pena pecuniaria e le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa»[12].
Di lì a poco, però, il legislatore tornò sui propri passi e con la l. 26 marzo 2001, n. 128 (art. 13) ripristinò il dettato originario dell’art. 593, comma 3, c.p.p., prendendo atto che «tra le sentenze rese inappellabili [dalla precedente novella] erano finite anche le condanne per diffamazione a mezzo stampa o per lesioni colpose, i cui effetti extrapenali condizionavano pesantemente gli obblighi risarcitori in sede civile»[13].
Un testo identico all’attuale art. 593, comma 3, c.p.p. fu nuovamente riproposto alcuni anni dopo dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46 (cd. legge Pecorella), destinata nelle intenzioni a realizzare una rivisitazione profonda del sistema delle impugnazioni mediante l’introduzione di una regola generale di inappellabilità, tanto per il pubblico ministero quanto per l’imputato, delle sentenze dibattimentali di proscioglimento, salva l’ipotesi di emersione di nuove prove decisive. Una rivoluzione copernicana della disciplina dell’appello, tale da far osservare come, a partire da quel momento, l’art. 593 c.p.p., pur continuando – da rubrica – a regolare formalmente i «casi di appello», in realtà si sia trasformato in una norma contenente prescrizioni in tema anche di legittimazione soggettiva all’impugnazione di merito e, implicitamente, di definizione dei distinti interessi sottesi al potere attribuito alle parti, pubblica e privata, di promuovere il vaglio di seconde cure sul dictum giudiziale[14].
Come è noto, la legge Pecorella è caduta sotto la scure della Consulta. In particolare, per due aspetti.
Il primo, colto dalla sentenza n. 26/2007 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, l. n. 46/2006, nella parte in cui, modificando l’art. 593 c.p.p., privava il pubblico ministero del potere di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, se non in presenza di una prova decisiva sopravvenuta; il secondo, investito dalla sentenza n. 85/2008 con cui il Giudice delle leggi ha sancito l’incostituzionalità del medesimo art. 1, l. n. 46/2006 nella parte in cui, modificando l’art. 593 c.p.p. escludeva che, in assenza di una prova nuova decisiva, l’imputato potesse proporre appello contro le sentenze di proscioglimento pronunciate per reati diversi da contravvenzioni punite in astratto con la sola ammenda o con pena alternativa.
Nella sentenza n. 26/2007 la Consulta, dopo aver ribadito il proprio costante orientamento secondo il quale il principio di parità tra accusa e difesa non comporta una perfetta identità dei poteri processuali tra pubblico ministero e imputato, ma si traduce nella necessità che eventuali differenze non debordino nell’irragionevolezza, ha asserito che – pur non essendo costituzionalmente garantito alle parti un doppio grado di giurisdizione di merito[15] e pur non essendo riconducibile al principio di obbligatorietà dell’azione penale il potere di impugnazione del pubblico ministero, mentre quello dell’imputato è riconducibile al diritto costituzionale di difesa – l’impossibilità per il magistrato requirente di proporre appello contro le sentenze di assoluzione (salvo che in casi sporadici) costituiva una soluzione priva di adeguatezza e proporzionalità, in quanto lo privava del potere di dolersi nel merito di una pronuncia rispetto alla quale risultava totalmente soccombente, laddove, per converso, l’imputato, in maniera totalmente asimmetrica, non subiva limiti alla possibilità di sindacare in secondo grado le decisioni di condanna.
Di ancora maggiore interesse ai fini che qui occupano, la sentenza n. 85/2008, ancorata ai principi costituzionali cristallizzati dagli artt. 3, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost., ha preso le mosse dalla constatazione della natura non sempre pienamente liberatoria dei proscioglimenti. Su tale premessa, la Corte ha rilevato innanzitutto come la sua precedente sentenza n. 26/2007 avesse rimosso una rilevante asimmetria creata dalla l. n. 46/2006 nel trattamento delle parti rispetto ai limiti che le stesse incontravano nella possibilità di proporre appello contro sentenze totalmente sfavorevoli nell’ottica delle rispettive, distinte posizioni processuali. Quindi, ha ritenuto sussistente una analoga asimmetria nella previsione del divieto per l’imputato di chiedere (in assenza di una prova decisiva sopravvenuta) un secondo vaglio di merito contro decisioni formalmente non di condanna ma potenzialmente lesive di un suo interesse rilevante, ed ha però circoscritto la declaratoria di incostituzionalità alle sole sentenze di proscioglimento relative ai delitti (puniti con pena pecuniaria o alternativa) dal momento che una completa rimozione del divieto di appello avrebbe rappresentato una soluzione, per un verso, eccedente i poteri decisori del Giudice delle leggi, e, per altro verso, potenzialmente foriera di una nuova disparità irragionevole di trattamento tra accusa e difesa, dal momento che l’art. 593, comma 3, c.p.p. avrebbe continuato a prevedere, per l’imputato, l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a contravvenzioni per le quali fosse stata applicata la sola ammenda.
- I temi costituzionali di nuovo in gioco.
Così tracciate – per quanto sinteticamente – le coordinate ermeneutiche di riferimento, si possono sviluppare alcune riflessioni in ordine alla conformità o meno alla Carta costituzionale della estensione, ad opera della riforma Cartabia, dell’inappellabilità oggettiva alle sentenze di proscioglimento concernenti delitti astrattamente puniti con la sola multa o con pena alternativa, avendo riguardo alla posizione e agli interessi dell’imputato.
In proposito si può in primis osservare che «la categoria delle sentenze di proscioglimento (…) non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto»[16]. È evidente infatti che se l’imputato non patisce alcun pregiudizio da un proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso[17], non altrettanto può ritenersi rispetto a quelle formule liberatorie che invece hanno come presupposto un accertamento di responsabilità penale.
Orbene, alla luce di tale rilievo l’ampliamento dell’inappellabilità oggettiva anche alle sentenze di proscioglimento relative a delitti puniti con pena pecuniaria e financo alternativa, potrebbe integrare una lesione del diritto di difesa, ex art. 24 Cost., di cui l’appello è estrinsecazione[18], senza che tale lesione risulti più giustificabile sulla scorta dei limiti imposti all’imputato in tema di appellabilità della sentenza di condanna alla sola pena dell’ammenda. A tal proposito, infatti, va rammentato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 85/2008, ha ritenuto che sarebbe risultato irragionevole il sistema conseguente alla rimozione della appellabilità delle sentenze di proscioglimento inerenti le contravvenzioni punite con pena pecuniaria o alternativa, giacché l’art. 593 c.p.p. rendeva inappellabili le sentenze di condanna alla sola ammenda[19]; di talché la rimozione dell’appello al primo esito processuale, sicuramente meno pregiudizievole per l’accusato, avrebbe condotto ad una disciplina del sistema delle impugnazioni non razionale.
Vi è invero che l’interesse dell’imputato ad ottenere, anche attraverso l’appello, una pronuncia integralmente liberatoria viene compromesso dall’art. 593 c.p.p. a prescindere dal grado di responsabilità che emerge dalla pronuncia di primo grado.
Né a tale vulnus può dirsi ponga rimedio la ricorribilità per cassazione delle medesime pronunce, che l’art. 607 c.p.p. prevede in favore dell’imputato. Si tratta invero di un rimedio a critica vincolata e con devoluzione limitata ai motivi consentiti per legge, e non certamente ai punti investiti dalla censura, come avviene per l’appello, di talché l’impugnazione di legittimità potrebbe risultare inidonea a rimuovere l’ingiustizia del provvedimento[20].
La novella sembra inoltre potenzialmente lesiva anche del principio di uguaglianza e ragionevolezza, ex art. 3 Cost.
Tale lesione si apprezza avuto riguardo a due concorrenti profili.
Anzitutto, il principio de quo appare leso perché la norma di rito assoggetta al medesimo regime di inappellabilità esiti decisori tra loro ampiamente diversificati[21].
Inoltre, in conseguenza del nuovo assetto normativo, il prosciolto per una contravvenzione punita con sola pena detentiva avrebbe la possibilità di appellare la pronuncia, per ottenerne una riforma in melius all’esito della rivisitazione in fatto della vicenda; diversamente tale possibilità è adesso inibita all’imputato prosciolto per un delitto punito con pena detentiva alternativa a quella pecuniaria. Tuttavia, i delitti sono illeciti più gravi delle contravvenzioni, e pertanto la suddetta disparità potrebbe risultare irragionevole nel momento in cui si consente solo ai prosciolti per reati meno gravi di ottenere una sentenza di proscioglimento più favorevole, ivi compresa una pronuncia assolutoria[22].
La norma potrebbe poi prestare il fianco ad un’ulteriore censura di incostituzionalità.
Vi è invero che un’esegesi complessiva dell’art. 593 c.p.p. induce a ritenere che l’ultimo comma si riferisca esclusivamente alla parte pubblica e all’imputato, giacché i commi precedenti disciplinano la facoltà di impugnazione di costoro e quindi il terzo comma sembra precisare quali sentenze in ogni caso costoro non possano appellare. Ove così fosse, il potere di proporre appello delle altre parti private, segnatamente della parte civile, per quel che qui interessa, non patirebbe alcuna limitazione dall’art. 593 comma 3, dovendosi integralmente ricavare dalla previsione di cui all’art. 576 c.p.p.[23]. Tuttavia, in tal caso si assisterebbe ad una contrazione dei poteri di impugnazione delle parti necessarie del processo penale, lì dove invece la parte eventuale conserverebbe per intero il suo potere di appellare la sentenza di proscioglimento e di condanna. Peraltro, a volere ampliare il tema di indagine, si potrebbe osservare che la parte civile, parzialmente insoddisfatta da una pronuncia di condanna, potrebbe invocare un riesame di merito, lì dove invece analogo potere non competerebbe all’imputato comunque leso dalla sentenza di proscioglimento.
È evidente che in tale sistema si creerebbe un’asimmetria dei poteri di impugnazione non razionalmente giustificabile tra gli altri attori processuali con conseguente lesione dell’art. 111, comma 2, Cost.[24].
Nondimeno, a tale vulnus costituzionale potrebbe rimediarsi ove si accedesse ad una diversa lettura dell’art. 593. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che la norma citata «nel terzo comma, non individua le parti destinatarie della regolamentazione, disponendo con una formula generale che sono “in ogni caso” inappellabili le sentenze ivi indicate»[25]; dunque, i limiti in essa posti riguarderebbero tutti gli attori processuali senza che possa ritenersi leso l’uno o l’altro.
Giova poi considerare che il sacrificio al diritto di impugnazione dell’imputato non pare giustificabile sulla scorta delle esigenze di contrazione dei tempi processuali. Invero, l’esigenza di assicurare una decisione giusta risulta preminente rispetto a quella di celerità del processo[26]. Peraltro, per come rilevato dalla Corte costituzionale, il potere di appello dell’imputato, correlato al fondamentale valore del diritto di difesa, ha una «più accentuata forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso, legate alla realizzazione di obiettivi di speditezza processuale»[27]. E, d’altro canto, a differenza di quanto avviene nei riti speciali, nel giudizio ordinario la contrazione al diritto di impugnazione non può ritenersi riequilibrata da premialità tipiche di quei riti[28].
Così tratteggiate le questioni che si addensano attorno all’attuale previsione dell’art. 593, comma 3. c.p.p., va detto che il tema della compatibilità costituzionale dei limiti alla facoltà dell’imputato di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento è già stato esaminato dalla giurisprudenza costituzionale. La questione, infatti, era stata una prima volta, sebbene incidentalmente, affrontata dal Giudice delle leggi, allorquando, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 593 c.p.p., nella parte in cui escludeva che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento[29], aveva osservato come «l’inappellabilità – sancita per entrambe le parti – delle sentenze di proscioglimento» si prestasse «a sacrificare anche l’interesse dell’imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli»[30].
Come ricordato sopra, la Corte costituzionale ha poi scrutinato direttamente la questione della legittimità costituzionale dei suddetti limiti, dichiarando incostituzionale la norma citata nella parte in cui escludeva che l’imputato potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova risultava decisiva.
Nel frangente, la Consulta aveva rilevato la lesione di plurimi parametri costituzionali, tra cui appunto i «principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante l’evidenziata equiparazione di esiti decisori tra loro ampiamente diversificati – quali quelli ricompresi nel genus delle sentenze di proscioglimento – nel medesimo regime di inappellabilità da parte dell’imputato» nonché «il diritto di difesa (art. 24 Cost.), al quale la facoltà di appello dell’imputato risulta collegata come strumento di esercizio»[31].
Il Giudice delle leggi aveva inoltre ritenuto anche la lesione dell’art. 111 Cost. per via della sperequazione, non sorretta da alcuna razionale giustificazione, nei rapporti tra le parti necessarie del processo in ordine ai poteri di impugnazione[32]. Al riguardo, si noti che in un passaggio della pronuncia di incostituzionalità si era considerato che «la legge n. 46 del 2006 non ha inciso, in senso limitativo, sul potere di appello della parte civile contro le sentenze di proscioglimento (…). Ne consegue che anche rispetto a detta parte si riscontra un’analoga sperequazione, poiché la parte civile può appellare, a differenza dell’imputato, tanto la pronuncia assolutoria, quanto – ove vi abbia interesse – quella di condanna»[33].
- Considerazioni finali, anche alla luce della “legge Nordio”.
In conclusione si ritiene plausibile, e meritevole di riflessione, l’eventualità che l’art. 34, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150/2022 leda gli art. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui, sostituendo l’art. 593, comma 3, c.p.p., ha escluso la possibilità che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.
Un ultimo tassello al mosaico sin qui composto va, tuttavia, ancora considerato, e lo si deve alla l. 9 agosto 2024, n. 114, (c.d. legge Nordio), che ha ancora una volta modificato il testo dell’art. 593 c.p.p., escludendo il potere di impugnazione del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede a citazione diretta a giudizio. In specie, il nuovo comma 2 della norma prevede adesso che: «Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2. L’imputato può appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento, salvo che si tratti di sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso».
Ora, sebbene quest’ultima recente novella tocchi formalmente una sedes materiae leggermente diversa da quella qui in esame (il comma 2 dell’art. 593 c.p.p., e non il comma 3), non si può evitare di notare come la contrazione del potere di appello del pubblico ministero, tramite una sostanziale riproposizione, in parte qua, di quella voluta illo tempore dalla cd. legge Pecorella, possa rappresentare un ulteriore fattore di irragionevole squilibrio del sistema – a danno della parte pubblica – o, all’opposto, essere inteso quale fattore di bilanciamento complessivo, secondo letture già adottate dal Giudice delle leggi con le citate sentenze n. 26/2007 e n. 85/2008. In altri termini, nella seconda prospettiva segnalata la riflessione in nuce attiene alla eventualità che in una visione d’insieme i divieti in cui incorre ora il pubblico ministero rispetto al sindacato di merito di una quota non irrilevante delle sentenze di assoluzione emesse in primo grado, vengano percepiti come una ragionevole compensazione, per l’imputato, del divieto posto a suo carico di promuovere il secondo giudizio rispetto alle decisioni di proscioglimento relative ai delitti puniti con la sola pena della multa o con pena alternativa.
*Componenti dell’Osservatorio Corte costituzionale dell’Unione Camere Penali Italiane
[1] Com’è noto, si tratta del quinto intervento riformatore della norma in esame. In tema si veda, O. Murro, I nuovi limiti all’appello. Tra ambizioni e compromessi, in La Riforma Cartabia, a cura di G. Spangher, ed. Pacini giuridica, Pisa, 2022, p. 595 e ss., p. 598.
[2] Cfr. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, sub art. 34, comma 1, lett. i), dello schema di decreto, p. 159.
[3] Art. 2, comma 1, lett. b). Come è noto, il d.lgs. n. 11/2018 è stato emanato in forza delle disposizioni di delega contenute nella l. 23 giugno 2017, n. 103 (cd. riforma Orlando), la quale, oltre a dettare disposizioni direttamente incidenti sulla disciplina del processo penale, delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di riforma delle impugnazioni, nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 1, comma 84, lett. m-f) della legge stessa. In argomento, E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, in La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis e H. Belluta, ed. Giappichelli, Torino, 2018, p. 229 e ss.; F. Gaito, I casi di appello, in La riforma delle impugnazioni penali, a cura di G. Ranaldi, ed. Pisa University Press, Pisa, 2019, p. 111 e ss.
[4] Si rammenti che nel processo davanti al Giudice di pace la condanna a pena pecuniaria è suscettibile di appello, ove si impugnino anche i capi civili, ex art. 37 d.lgs. n. 274/2000.
[5] In tal senso, A. Capone, Le impugnazioni tra speditezza e garanzie, in Diritto penale e processo, n. 1/2023 (Riforma Cartabia), p. 184 e ss., p. 185.
[6] O. Murro, I nuovi limiti all’appello. Tra ambizioni e compromessi, cit., p. 605, la quale rileva pure come «sarebbe illogico consentire all’interessato la facoltà di impugnare [con l’appello] una pena alla quale egli stesso ha acconsentito» (p. 597).
[7] Come è noto, la stessa modifica relativa alle sentenze di proscioglimento introdotta nell’art. 593, comma 3, c.p.p., è stata apportata dalla riforma Cartabia anche all’art. 428, comma 3 quater, c.p.p., in materia di impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere, norma anch’essa a suo tempo interessata dalla riforma Orlando. In proposito, R. Fonti, L’appello della sentenza di non luogo a procedere, in La riforma delle impugnazioni penali, a cura di G. Ranaldi, cit., p. 215 e ss., la quale rileva come «il restyling del regime impugnatorio della sentenza di non luogo a procedere, realizzato con la l. 23 giugno 2017, n. 103 e il d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, si ascrive al novero degli interventi mediante cui il legislatore della “Riforma Orlando”, sconfessando la portata di precedenti novelle, ha ripristinato istituti già contemplati in passato, dal codice di rito. Ed invero, le innovazioni concernenti l’art. 428 c.p.p., lungi dall’introdurre un modello totalmente inedito, si sono sostanziate nella riviviscenza, sia pure con alcune significative varianti, del primigenio assetto codicistico – strutturato in due gradi di impugnazioni (appello e ricorso per Cassazione) – con consequenziale ripudio della scelta, attuata con la l. 20 febbraio 2006, n. 46, di convogliare nel solo giudizio di legittimità il vaglio sulla sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 425 c.p.p.».
[8] «Che il comma 3 dell’art. 593 c.p.p. sia una norma costantemente rimaneggiata è constatazione non confutabile»: così, O. Murro, I nuovi limiti all’appello. Tra ambizioni e compromessi, cit., p. 598. Definisce l’art. 593 c.p.p. una «cornice precaria», E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, cit., p. 239. Per alcuni utili excursus sull’evoluzione storica dell’art. 593 c.p.p., si vedano: V. Aiuti, Sub art. 593, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi, E. Lupo, ed. Giuffrè, Milano, 2020, vol. V, p. 261 e ss.; P. Gaeta, A. Macchia, L’appello, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, ed. Utet, Torino, 2009, vol. V, p. 270 e ss., III. Appellabilità oggettiva e soggettiva, p. 348 e ss.; S. Ciampi, Sub art. 593, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda, G. Spangher, ed. WKI, Milano, 2023, VI ed., tomo III, p. 1398 e ss.
[9] Cfr., ancora, O. Murro, I nuovi limiti all’appello. Tra ambizioni e compromessi, cit., p. 596: «il peccato originale è (…) insito nella confusione tra l’effettiva durata del giudizio (1 giorno) e i tempi del grado di appello (quasi 800 giorni). Si evince, quindi, come l’impugnazione non sia una malata cronica, ma piuttosto vittima di un errore diagnostico che per troppo tempo ha determinato il legislatore ad incidere solo su alcuni aspetti. In particolare (…) limitando i casi di appello ex art. 593 c.p.p., senza tuttavia intervenire sulle complessive criticità strutturali e organizzative delle singole corti».
[10] In senso critico: E.N. La Rocca, A. Mangiaracina, Le impugnazioni ordinarie tra “efficienza” e snellimento, in Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo, M. Donini, E.M. Mancuso, G. Varraso, ed. Cedam, Padova, 2023. p. 841 e ss., p. 842, secondo le quali «sembra persino superfluo riscontrare, già dalla lettura delle emende, la loro inidoneità a determinare qualche vantaggio che possa incidere sul dissesto che connota l’appello. Con riguardo alle regole in tema di inappellabilità degli esiti liberatori relativi a pena pecuniaria o alternativa, le quali estenderanno ai delitti l’interdizione oggettiva già esistente per le contravvenzioni, la materia del contendere è radicalmente ridotta dalle passate depenalizzazioni [mentre] per quel che concerne le condanne a pena sostituita (…) l’impatto dovrà pur sempre misurarsi con la circostanza per cui la misura sostitutiva potrà operare solo in casi di consenso del prevenuto (…)».
[11] In questi termini, E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, cit., p. 232.
[12] L’art. 17, lett. n), della l. n. 468/1999 stabiliva il seguente principio di delega: «previsione della appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati punti con la pena pecuniaria».
[13] V. Aiuti, Sub art. 593, cit., p. 269.
[14] In argomento, ancora, V. Aiuti, Sub art. 593, cit., p. 270.
[15] In tema, l’ampia e puntuale ricostruzione proposta da P. Gaeta, A. Macchia, L’appello, in Trattato di procedura penale, cit., I. Il doppio grado di giurisdizione, p. 275 e ss.
[16] Cfr. Corte cost., sent. n. 85/2008.
[17] Si rammenta che le sentenze di assoluzione con tale formula sono inappellabili ai sensi dell’art. 593, comma 2, c.p.p. Nondimeno, ponendo mente a quella giurisprudenza delle sezioni civili di legittimità, secondo cui la sentenza di assoluzione ex art. 530, comma 2, c.p.p., non dispiega effetti extrapenali, ben potrebbe ritenersi che financo in tali casi ricorra un interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso (ex plurimis, Cass. civ., sez. VI, ud. 14/12/2017, dep. 15/05/2018, n.11791). In tema, le considerazioni de iure condendo di E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, cit., p. 242, e relativi richiami giurisprudenziali e dottrinari.
[18] Cfr. Corte cost., sent. n. 85/2008, nonché Corte cost., sent. n. 34/2020, secondo cui «il potere di impugnazione dell’imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso (sentenze n. 274 del 2009, n. 26 del 2007 e n. 98 del 1994)».
[19] Nell’occasione la Corte, per converso, ritenne che la declaratoria, in via conseguenziale, di incostituzionalità anche della norma che precludeva l’appello avverso la pronuncia di condanna alla sola pena dell’ammenda avrebbe assunto carattere marcatamente creativo.
[20] Corte cost., sent. n. 26/2007 ha rilevato come il rimedio del ricorso per cassazione non attinga alla pienezza del riesame di merito consentito dall’appello. La diversa latitudine dei mezzi impugnatori rende non condivisibile l’assunto di legittimità secondo cui l’intervento riformatore del 2022 «impone una rimeditazione dei confini dell’impugnazione di secondo grado, tenendo conto che la conclusione, nel senso dell’inappellabilità, non priva comunque la parte di uno strumento di controllo della decisione giurisdizionale, alla luce della persistente possibilità di proporre ricorso per cassazione» (Cass., sez. V, 22/03/2024, n. 14370).
[21] Cfr. Corte cost., sent. n. 85/2008.
[22] La disparità di trattamento tra imputati è stata stigmatizzata da Corte cost., sent. n. 363/1991 nel dichiarare l’illegittimità della norma che non consentiva al solo imputato condannato con rito abbreviato per una pena da non eseguire di proporre appello.
[23] Anche successivamente alla soppressione, ex art. 6 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, dell’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” contenuto nell’art. 576 c.p.p., la Corte di legittimità ha ritenuto che la parte civile abbia conservato la facoltà di proporre appello (cfr. Cass., SS.UU., 29/03/2007, Lista, rv. 236539 – 01 e più recentemente Cass., sez. II, ord. n. 12993/2024).
[24] Della ragionevolezza di tale sistema dubita anche Cass. pen., sez. V, 22/03/2024, n. 14370, sebbene il punto di riferimento della Corte, nel caso da essa scrutinato, non fosse l’imputato, ma il Pubblico ministero e la stessa parte civile che abbia chiesto la citazione a giudizio dell’imputato, a norma dell’art. 21 d.lgs. n. 274/2000.
[25] Cass., sez. V, ud. 22/03/2024, dep. 08/04/2024, n.14370
[26] Si noti che da una risalente pronuncia del Giudice delle leggi si ricava che anche in tema di giudizio abbreviato il potere di impugnazione dell’imputato, in quanto esplicazione di valori fondamentali, quali il diritto di difesa e l’interesse a far valere la propria innocenza, non potrebbe essere sacrificato in vista delle finalità di speditezza del procedimento (cfr. Corte cost., sent. n. 363/1991).
[27] Cfr. ex multis Corte cost., sent. n. 274/2009.
[28] Al riguardo si rammenti che Corte cost. n. 274/2009 denegò, proprio sulla scorta di tale argomento, la possibilità di estendere al giudizio abbreviato la illegittimità costituzionale già ritenuta da Corte cost., sent. n. 85/2008 in tema di limiti alla facoltà di appellare per l’imputato prosciolto.
[29] Invero la norma allora vigente faceva eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, c.p.p. se la nuova prova era decisiva.
[30] Cfr. Corte cost., sent. n. 26/2007.
[31] Cfr. Corte cost., sent. n. 85/2008.
[32] Invero a tale sperequazione aveva concorso la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 26/2007, la quale aveva rimosso gli ostacoli all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, di talché la parte pubblica poteva appellare tanto le sentenze di condanna, quanto quelle di proscioglimento.
[33] Cfr. Corte cost., sent. n. 85/2008.