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Il DELITTO DI PARTECIPAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE – DI SEBASTIAN CIANCIO E TOMMASO PASSARELLI

Il DELITTO DI PARTECIPAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE – DI SEBASTIAN CIANCIO E TOMMASO PASSARELLI

CIANCIO-PASSARELLI – Il DELITTO DI PARTECIPAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE.PDF

Il DELITTO DI PARTECIPAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE.

THE CRIME OF PARTICIPATION IN THE MAFIA ASSOCIATION UNDER CONSIDERATION BY THE JOINT SECTIONS.

di Sebastian Ciancio* e Tommaso Passarelli**

Cass. Pen. S. U. del 27/05/2021 (dep. 11/10/2021) n. 36958, Pres. Margherita Cassano – Est. Andrea Pellegrino.

Reato – Associazione mafiosa – Partecipazione – Rituale – Affiliazione.

(Art. 416 bis c.p.)

La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.

Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione.

 

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Abstract. Il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, introdotto con la Legge n. 646/1982, è stato interpretato, negli anni, in modo eterogeneo dalla giurisprudenza. Ad un orientamento che, in un primo momento, ha fatto coincidere la commissione del reato con il giuramento mafioso, se ne è contrapposto uno più garantista, che ha richiesto la prova di un’attività causalmente rilevante ai fini del perseguimento del programma associativo. Le due interpretazioni hanno presentato alcune criticità: mentre la prima ha palesato limiti con riferimento al rispetto delle garanzie costituzionali, la seconda ha “invaso” lo spazio giuridico riservato al concorso esterno. Nella sentenza in commento, Le Sezioni unite hanno cercato di superare tali limiti, valorizzando gli aspetti probatori connessi alla fattispecie.

Abstract. The crime of participation in mafia-type associations, introduced with Law no. 646/1982, has been interpreted, over the years, in a heterogeneous way by the jurisprudence. An orientation that, at first, made the commission of the crime coincide with the mafia oath, was contrasted by a more guaranteeing one, which required proof of a causally relevant activity for the purposes of prosecuting the association program. The two interpretations presented some critical issues: while the first revealed limits with reference to compliance with constitutional guarantees, the second “invaded” the legal space reserved for external competition. In the ruling in question, the Joint Sections tried to overcome these limits, enhancing the probative aspects connected to the case in point.

Sommario: 1. Brevi cenni introduttivi – 2. La partecipazione associativa nel “Maxi Processo” a Cosa nostra – 3. I successivi orientamenti delle Sezioni unite – 4. Tra la messa a disposizione e il modello causale – 5. La sentenza Cass. Pen. Sez. Un. 36958/2021 – 5.1 La ricostruzione in punto di fatto – 5.2 L’analisi giurisprudenziale delle Sezioni unite – 6. Conclusioni.

  1. Brevi cenni introduttivi.

Il reato di associazione di tipo mafioso è figlio dello sforzo prodotto dal legislatore del 1982, in termini di tipizzazione normativa. Introdotto nell’ordinamento giuridico italiano a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 646/1982 “Rognoni – La Torre”, esso è contemplato nel Codice penale all’art. 416 bis[1], che si apre con la locuzione «Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso…», ricalcando il modello dell’associazione per delinquere “semplice”, di cui all’art. 416 c.p. . La specificazione normativa si è resa necessaria al fine di offrire una differenziazione, in termini di disvalore penale, tra gli associati di basso rango e i soggetti apicali dell’organizzazione criminosa. L’art. 416 bis c.p., infatti, contempla al secondo comma la disciplina e il trattamento sanzionatorio – inasprito – per i promotori, i dirigenti e gli organizzatori dell’associazione mafiosa, in ragione del maggior peso specifico connesso alle condotte dei soggetti apicali[2]. Tale distinguo è proprio dei reati associativi e si ritrova expressis verbis anche in seno all’art. 416 c.p., laddove i commi 1 e 3 prevedono una pena maggiore – per i promotori e i capi – rispetto a quella prevista al comma 2 per il semplice partecipe.

  1. La partecipazione associativa nel “Maxi Processo” a Cosa nostra.

Nel delineare i tratti caratteristici della condotta di partecipazione all’associazione ex art. 416 bis c.p., pare opportuno muovere i passi dal lavoro del pool antimafia della Procura di Palermo, che a metà degli anni ottanta del secolo scorso ha istruito il primo maxiprocesso contro la mafia siciliana. Il procedimento “Abbate Giovanni + 706” si è concluso con le condanne di numerosi appartenenti all’associazione mafiosa “Cosa nostra” e i risultati di quella storica inchiesta sono stati infirmati anche dalla Corte di cassazione, che con la sentenza n. 80/1992 ha reso il giusto ossequio al lavoro svolto dalla magistratura inquirente e giudicante nei precedenti gradi di giudizio. In particolare, i giudici di merito avevano messo in luce come lo status di “uomo d’onore” andava ben oltre una semplice adesione morale – penalmente irrilevante -, integrando invece il modello delittuoso ex art. 416 bis c.p.[3] . Nello specifico, alla partecipazione associativa faceva da prodromo un rituale di affiliazione, a seguito del quale il partecipe era a disposizione del sodalizio mafioso in vista del perseguimento del programma criminoso[4].

La sentenza d’appello aveva precisato poi come lo status di “uomo d’onore” sottendesse la rituale affiliazione e una messa a disposizione toto corde in vista del perseguimento degli scopi associativi. Proprio l’incondizionata disponibilità, ad avviso della Corte, assumeva rilevanza causale riguardo all’incremento delle potenzialità operative e delle capacità di espansione e prevaricazione sociale dell’organizzazione mafiosa, determinandone un tangibile accrescimento numerico. Con riferimento ai delitti scopo e al ruolo del partecipe nei medesimi[5], la Corte d’appello aveva inoltre sottolineato la necessità di accertare, in concreto, quantomeno la partecipazione dell’affiliato al momento deliberativo di un dato delitto, escludendo la rilevanza penale in re ipsa del preventivo assenso[6].

Come più sopra accennato, la Corte di legittimità ha sostanzialmente confermato gli esiti dei precedenti gradi processuali. In quella sede è stata vagliata anche la distinzione tra “appartenenza” e “partecipazione”, riconducendo la prima ad una dimensione “ideale”, slegata da apporti concreti al programma delittuoso dell’associazione e la seconda, invece, ad un apporto empirico alla vita associativa, successivo all’inserimento del partecipe nei gangli della societas sceleris.

  1. I successivi orientamenti delle Sezioni unite.

In seguito, la condotta di partecipazione all’associazione mafiosa ha vissuto un lungo travaglio giurisprudenziale[7]. I suoi confini sono stati di volta in volta ridefiniti, anche ad opera della giurisprudenza di legittimità che ha tracciato i contorni della fattispecie di “concorso esterno”.

Il primo di tali arresti è rappresentato dalla sentenza Demitry[8], con cui le Sezioni unite hanno individuato il concorrente necessario in colui che agisce nella fisiologia dell’associazione, quotidianamente, costituendo una figura «senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza»; di contro, il concorrente eventuale è stato individuato in un soggetto che non intende associarsi e non è invitato a farlo, ma sopperisce a vuoti temporanei di potere in un dato ruolo e, soprattutto, fronteggia una fase patologica dell’associazione, ove la sua fisiologia entri in fibrillazione[9].

Qualche anno dopo, la sentenza Mannino bis[10] ha compiuto un passo in avanti, inquadrando il partecipe in colui che è inserito in modo stabile ed organico in seno all’associazione, specificando come il “far parte” vada declinato in senso dinamico e funzionale, con l’assunzione di un ruolo effettivo, connesso allo svolgimento di ben individuate attività. Così ricostruita, la condotta di partecipazione sottende una stabile messa a disposizione verso il sodalizio criminoso[11]. In punto di elemento soggettivo, le S. U. hanno poi ritenuto che il partecipe sia provvisto di affectio societatis, elemento psicologico che funge da trait d’union tra l’agire del singolo e le finalità criminose dell’associazione[12].

  1. Tra la messa a disposizione e il modello causale.

L’ermeneusi giurisprudenziale ho prodotto negli ultimi anni un duplice filone interpretativo (“organizzatorio” e “causale”) sulla condotta di partecipazione.

La tesi del c.d. “modello organizzatorio”[13] si impernia sulla totale ed incondizionata disponibilità del partecipe a soddisfare le esigenze del sodalizio mafioso, accrescendone le potenzialità e la pervasività, al netto del compimento di specifiche ed ulteriori attività[14].

La giurisprudenza ha valorizzato per tale via il requisito dell’affectio societatis, onde sopperire alle carenze palesate dal criterio della mera disponibilità[15]. Quest’ultima, infatti, è stata ben presto ritenuta insufficiente ad integrare, sul piano oggettivo, la fattispecie ex art. 416 bis c.p., in quanto criterio evanescente e, pertanto, antitetico al principio di materialità penale[16]. Assume rilevanza oggettiva, in questo senso, il fattivo inserimento del partecipe nelle dinamiche e nella struttura dell’organizzazione, a prescindere da formali riti di iniziazione[17].

Questa ricostruzione, dunque, pone in rilievo il contributo fornito all’associazione mafiosa factum concludens, caratterizzato da una compenetrazione organica stabile e permanente, che prescinde dal possesso di eventuali status che, in concreto, possono anche mancare[18]. Così declinata, la fattispecie si affranca pure dal paradigma eziologico, dal momento che la partecipazione può sostanziarsi anche in un contributo di tipo morale o psichico[19].

In seguito, la giurisprudenza ha mutato indirizzo, richiedendo un quid pluris apprezzabile sul piano condizionalistico, in termini di apporto alla vita associativa[20]. Su questo punto, l’ermeneusi della Cassazione ha preso spunto dal dato normativo del “far parte”, ritenuto «laconico» sul piano descrittivo e, di conseguenza, bisognoso di integrazione per via interpretativa. Secondo questo orientamento, la condotta di partecipazione si articola in due momenti distinti: l’ingresso nel sodalizio e, successivamente, l’attivo e concreto svolgimento delle funzioni criminali[21].

Richiamando il precedente arresto delle S. U. Mannino bis, i giudici di legittimità hanno ritenuto non punibile l’accordo d’ingresso nel sodalizio mafioso in assenza di riscontri indiziari circa le condotte esecutive dell’avvenuta affiliazione, dovendo la partecipazione mafiosa consistere in un apporto concreto e riconoscibile, sintomatico di un inserimento attivo e stabile. In altre parole, ad avviso della Corte la partecipazione punibile non consiste in un mero status, bensì in una permanente ed incondizionata disponibilità verso l’organizzazione criminosa, ciò che dà luogo ad un apporto dinamico e funzionale. In quest’ottica, la condotta partecipativa si riverbera sulle attività ordinarie dell’associazione, distinguendosi così da quella concorsuale, volta a realizzare l’evento del rafforzamento[22].

La tesi della “messa a disposizione”, inoltre, trova un ulteriore ostacolo nel principio di proporzionalità, poiché il solo accrescimento delle potenzialità operative della consorteria mal si concilia col carico sanzionatorio di cui al comma 1 dell’art. 416 bis c.p.[23]. Ad avviso del Supremo consesso, poi, la prova dell’effettivo contributo del partecipe è necessaria non solo alla luce dei principi (e dei corollari) di cui all’art. 25, c. 2 Cost., ma anche delle disposizioni sovranazionali[24]. In ultima analisi, la condotta de qua «deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento…», senza risolversi in un accordo manchevole di una – pur minima – attività empirica[25].

Una parte della giurisprudenza[26], in seguito, ha prodotto un orientamento antitetico a quello appena esposto, ritenendo che il contributo morale apportato all’associazione mafiosa rappresentasse ex se l’inizio della partecipazione punibile, declinando il “far parte di un’associazione di tipo mafioso” alla stregua di un reato di mera condotta e a forma libera. Secondo questo indirizzo interpretativo, il legislatore avrebbe delineato una fattispecie delittuosa di pericolo presunto[27], che non richiede la prova del nesso eziologico tra la condotta di partecipazione e l’evento naturalistico del rafforzamento del sodalizio, ciò che trasformerebbe la fattispecie in un reato d’evento[28].

La commissione dei reati – scopo, inoltre, viene imputata all’associazione nel suo complesso e non ai singoli affiliati, sicché essa rappresenta un fatto giuridicamente separato rispetto a quello – prodromico – dell’associarsi[29]. Da ciò si evince, secondo la Cassazione, come la stabile e permanente messa a disposizione comporta, in ossequio al principio dell’id quod plerumque accidit, che gli associati sappiano in ogni momento di poter contare sull’apporto del partecipe e ciò sarebbe causa di rafforzamento, in termini di capacità intimidatoria, dell’organizzazione mafiosa.

Tale orientamento si armonizza anche col precedente illustre rappresentato dalle S. U. Mannino bis che, consapevoli del carattere mutevole delle associazioni mafiose, avevano messo in evidenza come fosse impresa vana quella di tratteggiare i connotati della partecipazione delittuosa servendosi di stereotipi mutuati aliunde. Quello che rileva, ai fini dell’integrazione del modello criminoso, è la profonda compenetrazione del partecipe nell’apparato criminale e la sua consapevolezza di fornire il proprio contributo ad un agglomerato che utilizza i metodi descritti in seno all’art. 416 bis, c. 3, c.p.[30] .

Non è trascurabile, inoltre, il dato di realtà che mette in evidenza il forte carattere simbolico connesso all’affiliarsi, a cui consegue il riconoscimento dello status di “uomo d’onore”. In questo caso, l’affiliazione assume i connotati di un pactum sceleris, con oneri bilaterali che si ripartono equamente tanto in capo all’affiliato, quanto in capo all’associazione.

La Corte di legittimità, pertanto, individua il momento iniziale della partecipazione associativa in ogni indicatore di stabile “intraneità” del soggetto, a prescindere dal compimento di un’attività delittuosa apprezzabile dal punto di vista condizionalistico. Secondo questo orientamento, può anche mancare la prova della rituale affiliazione del partecipe, mentre va sempre dimostrata la sua organicità, l’essere intraneus al sodalizio mafioso. Non è necessario, pertanto, il compimento di concreti atti esecutivi del programma criminoso, in quanto il rafforzamento dell’apparato criminale si registra mediante la messa a disposizione, permanente ed incondizionata, che conferisce maggiore prestigio criminale all’associazione, rendendola più temibile[31].

La Cassazione, nel 2019, ha prodotto due nuove sentenze sulla vexata quaestio, aderendo al modello “organizzatorio”. La prima pronuncia[32] ha ritenuto sufficiente ai fini della consumazione del reato l’assunzione, ovvero il riconoscimento, di un ruolo in seno all’associazione. Secondo questo indirizzo, il compimento di specifiche attività rappresenta una mera eventualità e viene in rilievo solo nel caso in cui manchi la prova dell’avvenuto inserimento del partecipe nell’apparato mafioso. La seconda pronuncia ha ancorato la partecipazione punibile al dato formale dell’affiliazione, sulla premessa che la permanente disponibilità del soggetto verso il sodalizio sottenda l’inserimento strutturale dell’affiliato, seppure ad uno stadio base, inferiore a quello di “uomo d’onore”. Ricostruendo la fattispecie in termini di pericolo presunto, la Suprema corte ha ritenuto sufficiente ai fini della sua integrazione la “messa a disposizione” del partecipe, che accresce il potenziale criminogeno dell’associazione mafiosa[33]. Il modello “causale”, in quest’ottica, registra una contraddizione, in quanto sovrappone e lascia coincidere la condotta di partecipazione con le attività associative[34].

  1. La sentenza Cass. Pen. SS. UU. 36958/2021.

La sentenza depositata l’11 ottobre u.s. si è posta l’obiettivo di dirimere il contrasto giurisprudenziale esposto nei precedenti paragrafi. A tal uopo, ha offerto un’approfondita ricostruzione in punto di fatto[35], ripercorrendo poi il lungo excursus giurisprudenziale che ha contrassegnato la fattispecie in parola. Di tali passaggi argomentativi pare opportuno fornire una breve sintesi, per meglio esporre ed analizzare il risultato escatologico a cui le Sezioni unite sono pervenute.

5.1 La ricostruzione in punto di fatto.

Emerge già nelle prime battute come il rituale di affiliazione sia affare assai serio nell’ambito delle dinamiche di criminalità organizzata, in particolar modo per quel che attiene alle c.d. “mafie storiche”. La vicenda sottesa alla sentenza in commento, infatti, getta luce sul modo di atteggiarsi delle ‘ndrine calabresi e sui rapporti di forza intercorrenti tra le stesse, che fanno del numero degli adepti una delle loro colonne portanti. In siffatto contesto, il “battesimo” gioca un ruolo determinante e non soltanto simbolico, costituendo la tradizionale porta d’ingresso per i nuovi sodali[36].

5.2 L’analisi giurisprudenziale delle Sezioni unite.

L’analisi storico-giurisprudenziale proposta dalle Sezioni unite risulta di gran pregio e costituisce il sostrato argomentativo della pronuncia de qua, prendendo le mosse dalla ricerca dell’intentio legis sottesa alla fattispecie incriminatrice.

A questo proposito, viene evidenziato come il legislatore del 1982 ha tenuto in considerazione non soltanto la pericolosità astratta del fenomeno mafioso, ma anche la concreta esperienza nella quale lo stesso è maturato. A caratterizzare le mafie, infatti, è la forza intimidatrice che promana dal vincolo associativo, la quale non necessita di un’estrinsecazione empirica di atti minacciosi e violenti. Da principio questo fattore indebolisce la tesi causale, poiché quel che caratterizza l’associazione di tipo mafioso (la sua tipicità) e la distingue dalla semplice associazione per delinquere è il metodo utilizzato e non già gli scopi perseguiti, alla luce del fatto che questi ultimi possono essere anche di natura lecita, oltre che delittuosa.

Per una parte della giurisprudenza più risalente, l’utilizzo del metodo mafioso, percepibile ab externo e verificabile in concreto, assurgeva ex se ad evento dannoso. Altro orientamento propendeva, invece, per una declinazione della fattispecie in termini di pericolo presunto, ritenendo pericoloso per l’ordine pubblico la semplice esistenza dell’associazione, poiché la capacità criminale della stessa si manifestava con l’intimidazione perpetrata ai danni di chiunque vi veniva in contatto[37]. Un ulteriore indirizzo ermeneutico, poi, considerava l’organizzazione mafiosa come associazione che delinque e non per delinquere, sicché la mera adesione risultava insufficiente ad integrare il reato de quo. In particolare, si riteneva che la capacità intimidatrice dovesse essere riscontrabile, attuale, concreta e non meramente potenziale, richiedendo il compimento di concreti atti di violenza[38].

Esaurita questa breve ricognizione[39], i giudici delle Sezioni unite passano in rassegna il metodo mafioso, ritenendo che «sia necessario prendere le mosse da una corretta ermeneusi della locuzione normativa “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo”», in quanto, come detto, è in tale concetto che alberga il concreto manifestarsi del reato, piuttosto che negli scopi perseguiti dall’associazione.

Nello specifico, osservano le S.U. come l’estrinsecazione di specifici atti di violenza sia un momento separato, ritenendo che «ai fini della consumazione del reato, non è necessario che i suddetti strumenti siano utilizzati in concreto dai singoli associati, ma si chiede tuttavia che costoro siano effettivamente nelle condizioni e nella consapevolezza di poterne disporre. La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, ma nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione che rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione»[40].

Il clima intimidatorio indotto dall’apparato mafioso, pertanto, induce in soggezione tanto i terzi che vengono a contatto con essa, quanto gli stessi appartenenti all’associazione. Fine precipuo di quest’ultima, infatti, è scoraggiare forme di collaborazione con gli apparati istituzionali dello Stato, inducendo a credere che, in tale eventualità, nessuna misura di protezione metterebbe al riparo – tanto gli eventuali collaboratori, quanto le persone a loro vicine –da efferate ritorsioni.

Con specifico riferimento al rituale di affiliazione, poi, le Sezioni unite evidenziano come già nella giurisprudenza degli anni ’70 esso rappresentasse un passaggio obbligato al fine di acquisire la qualifica di uomo d’onore, che, ben lungi dall’essere uno status passivo, si sostanziava in una permanente ed incondizionata messa a disposizione del partecipe nei confronti del sodalizio, funzionale al perseguimento degli affari criminosi[41]. È bene precisare, sotto questo aspetto, come in epoca più recente la Cassazione ha sostenuto, riguardo alla condotta partecipativa, che la medesima può essere anche di tipo non appariscente[42], poiché la semplice adesione eleva ex se il potenziale criminogeno dell’organizzazione mafiosa[43]. In tal senso giova poi osservare come al “battesimo” presenzia, di solito, il gotha criminale e lo stesso rituale è caratterizzato da aspetti sacramentali, sovente finalizzati a rendere pregno di significato il ruolo che l’affiliando va ad assumere[44]. Diventando “uomo d’onore”, il partecipe prende conoscenza della realtà mafiosa in cui viene inserito e assume un ruolo che richiede obbedienza, silenzio e convivenza con gli altri associati, beneficiando al contempo dei vantaggi che l’associazione gli garantisce[45].

Le critiche a questo orientamento sono pervenute da quella parte della giurisprudenza che ha ritenuto il rituale inidoneo ad integrare il principio di materialità penale. Ebbene, seppure questa ricostruzione promani da uno sforzo ermeneutico di non poco momento, essa non risulta tuttavia condivisibile, alla luce della serietà e dell’importanza che il rituale riveste. A parere di chi scrive, infatti, l’affiliazione rappresenta il prius logico dell’agire mafioso, mentre il compimento di attività materiali, nella veste di uomo d’onore, costituisce un necessario posterius[46].

Non trova inoltre accoglimento in questa sede la tesi che promuove un netto distinguo, sul piano semantico, tra le condotte di cui al comma 2 dell’art. 416 bis (permeate da un alto grado di tassatività descrittiva) e quelle di cui al comma 1 (assai carenti e, pertanto, da integrare in sede ermeneutica), in quanto l’affiliazione rappresenta un prodromo spesso indispensabile – salvo i rari casi di attività non precedute da affiliazione – allo svolgimento delle attività mafiose[47].

Non convince neanche la ricostruzione avanzata da una parte della giurisprudenza volta a discernere tra rituale di affiliazione (monco di significato concreto) e qualifica di “uomo d’onore” (sintomatica di un percorso criminale). Tale orientamento ritiene, con elevato grado di approssimazione, che potendo il partecipe espletare un ruolo funzionale anche factum concludens e senza la necessità della rituale affiliazione, quest’ultima perda per ciò solo ogni apprezzabile significato in termini di disvalore giuridico[48]. Al fine di superare tali difficoltà interpretative, già in passato la Cassazione aveva cercato un approdo intermedio, sostenendo che il rituale di affiliazione comportasse in re ipsa l’assunzione del ruolo di “uomo d’onore”, capace di “assorbire” la causalità materiale sulla scorta della dichiarata volontà del partecipe di voler agire in favore della consorteria, dell’accrescimento numerico del sodalizio, della soggezione alle regole mafiose e dell’obbedienza prestata all’apparato criminale[49].

I giudici delle Sezioni unite non hanno condiviso, dal canto loro, i precedenti orientamenti poiché, da un lato, il modello organizzatorio risulta insufficiente, tramite la valorizzazione di un mero status, ad integrare la fattispecie delittuosa; il modello causale, invece, finisce col sovrapporre la condotta di partecipazione a quella di concorso esterno[50]. Orbene, in aderenza a quanto affermato dalle Sezioni unite Mannino bis, il collegio ha ritenuto che la condotta di partecipazione debba declinarsi in senso dinamico, concreto e riconoscibile, fornendo un contributo che può essere tanto di carattere materiale, quanto morale[51]. In questo senso, può aversi partecipazione delittuosa tanto con la rituale messa a disposizione, che factum concludens. Indici sintomatici della partecipazione mafiosa, in quest’ottica, sono: il rispetto delle regole gerarchiche e comportamentali, l’adempimento degli ordini ricevuti e la fedeltà dimostrata all’organizzazione. È importante sottolineare poi come gli elementi della condotta partecipativa possano rivestire anche carattere immateriale. Pertanto, sarà necessaria una loro valutazione secondo la rilevanza in concreto degli stessi e non già alla stregua del parametro condizionalistico.

Pregna di significato è sicuramente l’elencazione degli “indici di mafiosità” che il Collegio individua come affidabili parametri di valutazione della fattispecie delittuosa, specificando che «potranno venire in rilievo, oltre all’accertamento della comprovata mafiosità del gruppo associante, la “qualità” dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la “serietà” del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei “poteri” di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti, la tipologia del reciproco impegno preso, la misura della disponibilità pretesa e/o offerta ed ogni altro elemento di fatto che, sulla base di tutte le fonti di prova utilizzabili e di comprovate massime di esperienza, costituisca circostanza concreta, capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa: gli indici rivelatori del fatto punibile devono essere tratti da elementi oggettivi e soggettivi di contesto, capaci di fungere nell’irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria, da criterio metodologico di verifica processuale, da calibrare caso per caso, in ragione della situazione concretamente considerata»[52].

  1. Conclusioni.

Di primo acchito, emerge come il rituale di affiliazione non perda la propria rilevanza con riferimento all’integrazione della fattispecie ex art. 416 bis, co. 1 c.p. [53] . Invero, il suo peso specifico viene traslato sul versante probatorio, da soddisfare con ogni elemento utile onde dimostrare la concreta attitudine dello stesso ad integrare il modello delittuoso, per via della caratura criminale dei soggetti che vi partecipano, del contesto ambientale in cui si manifesta e dei reciproci accordi che in quella sede vengono contratti[54].

Il collegio si premura di scongiurare incriminazioni da mero status, a cui non faccia seguito l’assunzione di un ruolo concreto e fattivo nell’associazione mafiosa[55]. In questo caso l’affiliando, a seguito del rituale, non verrebbe investito della qualifica di uomo d’onore e, pertanto, non assumerebbe un ruolo dinamico e funzionale in seno all’organizzazione. A smentire la valenza del rituale di affiliazione possono valere, in tali casi, una serie di «condotte del soggetto dettate da scelte volontarie (disobbedienza, allontanamento fisico, disinteresse) o da oggettive circostanze di segno contrario o fortemente equivoche, tali da contrastare con l’impegno preso di messa a disposizione e far escludere a priori o far ritenere venuta meno la volontà dello stesso di contribuire alla vita dell’associazione»; a tal uopo, «la chiave ermeneutica fornita dalle massime di esperienza, quali generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, tratte con procedimento induttivo dall’esperienza comune e fondate su ripetute osservazioni e conoscenze acquisite, assume una notevole rilevanza a fini interpretativi»[56].

Così declinata, la messa a disposizione diviene elemento oggettivo e attuale della fattispecie delittuosa, dando luogo ad una partecipazione effettiva, ove l’associato è pronto ad adoperarsi in ogni circostanza e senza riserve. Il patto – sinallagmatico e permanente – tra affiliato e associazione integra, dunque, la partecipazione associativa[57].

Da ultimo, non trova condivisione la tesi – invero prevalente in giurisprudenza – volta ad assimilare la partecipazione mafiosa a quella terroristica di cui all’art. 270 quater c.p. [58]: seppure risulti apprezzabile lo sforzo ermeneutico profuso nella comparazione delle due disposizioni, le stesse sono monche di eadem ratio e tanto osta alla loro lettura congiunta. Il riferimento, nello specifico, è alla profonda diversità tra metodo terroristico e metodo mafioso (la cui analisi di dettaglio richiederebbe un apposito spazio di trattazione), come declinati in seno agli artt. 270 bis e 416 bis c.p., che non consente un’equiparazione, in termini di disciplina, tra le due disposizioni.

*Avvocato e Dottorando di ricerca presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.

**Dottore in giurisprudenza e specializzando in Professioni legali presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.

[1] Per una disamina dell’intentio legis sottesa alla disposizione si vedano G. Insolera e T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 67 e G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, pp. 23 ss.

[2] Si rinvia su questo punto all’analisi di G. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, pp. 87-89.

[3] Sull’inidoneità di tale qualifica ad integrare una condotta materialmente apprezzabile sul piano della legalità penalistica cfr. G. Di Vetta, Tipicità e prova. Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen. 1, 2017, pp. 31-32; contrario alla rilevanza penale di un’adesione meramente formale al sodalizio mafioso è anche A. Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 96.

[4] Sulla valenza probatoria del rituale di affiliazione vedi quanto sostenuto di recente da S. Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, in www.penaledp.it, 27/07/2021, pp. 13-18.

[5] Cfr. G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 398; sulla necessaria distinzione tra condotta partecipativa e realizzazione dei delitti-scopo vedi G. De Francesco, Societas sceleris, tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. It. Dir. proc. Pen., 1, 1992, pp. 145-147 e G. De Francesco, voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1987, pp. 293-297.

[6] Cfr. Cass. Pen. n. 80/1992, in www.csm.it, pp. 102-128 e 145, ove si evince anche che il requisito della mera adesione, come declinato dalle sentenze di primo e secondo grado, fosse stato censurato dagli imputati in sede di ricorso per Cassazione, poiché ritenuto inidoneo ad integrare la condotta di partecipazione al reato associativo. Ad avviso dei ricorrenti, tale imputazione non poteva prescindere dall’apporto di un concreto contributo, eziologicamente rilevante, al perseguimento del programma criminoso dell’associazione.

[7] Di pregio la ricostruzione offerta su questo punto da S. Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, cit., pp. 7-13; cfr. anche Cfr. F. Barbato, Associazione mafiosa: depositata la sentenza delle sezioni unite (36958/2021) sulla valenza del rituale di affiliazione, p. 3, in discrimen.it, 13/10/2021.

[8] Cass. Pen. S. U. 05/10/1994, in www.dejure.it.

[9] Il concorrente eventuale, estraneo alla vita associativa, viene invece inserito in uno spazio emergenziale, di difficoltà per la vita associativa, quanto meno di anormalità o anche solo di straordinarietà, in contrapposizione alla normalità in cui si trova ad operare il soggetto facente parte dell’associazione, il concorrente necessario. Per una disamina dettagliata si rinvia a G. Turone, op. cit., pp. 430-446.

[10] Cass. Pen S. U. n. 33748/2005, in www.dejure.it.

[11] In quel fondamentale arresto, le Sezioni Unite si mostrarono particolarmente attente alla necessità di fornire una interpretazione tassativizzante della nozione di partecipazione associativa, rivalutando il cd. modello organizzatorio, sviluppato in adesione a una tesi già sviluppata dalla migliore e più attenta dottrina (V. Maiello, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra crisi del principio di legalità e diritto penale del fatto, in Patalano (a cura di), Nuove strategie per la lotta al cri- mine organizzato transnazionale, Torino, 2003, pp. 277 ss.; Id., Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafioso e del c.d. concorso esterno, oggi anche in V. Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, II Ed., Torino, 2019,, pp. 159 ss.) nella sua formulazione integrata, o mista “nella cui sintassi la dimensione strutturale dell’inserimento associativo si combina con l’agire della caratterizzazione (sia pure lato sensu) causale dell’apporto individuale”. Così, da ultimo, V. Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle sezioni unite, in Sistema penale, 2021, 5, pp. 10), Segue questa tesi anche G. De Francesco, Societas sceleris, tecniche repressive delle associazioni criminali, cit., pp. 139-142, ove l’autore è critico su quella ermeneusi che vorrebbe la partecipazione punibile integrata da un’adesione soltanto psicologica.

[12] Cass. Pen. S. U. n. 33748/2005, cit., 16-17; si vedano su questo punto anche le considerazioni di I. Merenda e C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in www.dirittopenalecintemporaneo.it, 24 gennaio 2019, pp. 20-21; sull’idoneità dell’affectio societatis a fungere da collante, in termini di «stabilità e di continuità» del contributo apprestato dal partecipe all’organizzazione mafiosa, cfr. M. Ronco, L’art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Il diritto penale della criminalità organizzata, a cura di B. Romano e G. Tinebra, Milano, 2013, p. 67; la giurisprudenza che ha valorizzato il requisito dell’elemento soggettivo della fattispecie è ben rappresentata, in sintesi, da A. Onore, Partecipazione di stampo mafioso, in Il sistema del diritto penale, 5/2021, pp. 82-84; autorevole dottrina, riconducibile a G. Insolera e T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 93, sottolinea inoltre come la mancata conoscenza dell’utilizzo in concreto delle metodologie mafiose sia sintomatica del mancato inserimento del soggetto nei gangli associativi, ciò che impedisce al sedicente partecipe di apportare un contributo tangibile alla vita associativa.

[13] Per una ricostruzione dei diversi orientamenti ermeneutici sulla condotta di partecipazione si veda G. Fornasari e S. Riondato, Reati contro l’ordine pubblico, Torino, 2017, pp. 86-88; nonché G. Di Vetta, op. cit., pp. 35-37, che, riprendendo osservazioni già autorevolmente espresse dalla più attenta dottrina (V. Maiello, Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafioso e del c.d. concorso esterno, in I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, a cura di Picotti-Fornasari-Viganò-Melchionda, Padova, 2005, oggi anche in V. Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, II Ed., Torino, 2019, 111) evidenzia la tendenza giurisprudenziale a creare una «crasi» tra il modello “organizzatorio” e quello “causale”. Ciò accade, in particolar modo, nel caso dell’associazione c.d. “aperta”, laddove l’adesione dei nuovi adepti può prescindere dal rituale di affiliazione. In questo caso, il recupero della materiale offensività della condotta avviene sul piano probatorio, ricercando la prova del «concreto espletamento del ruolo associativo». In questo caso, non solo evapora l’alterità tra i due modelli ermeneutici, ma si giunge alla ridefinizione sostanziale del perimetro della condotta delittuosa in sede processuale.

[14] Sul punto si vedano le analisi di I. Merenda e C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, cit., pp. 16 ss.; cfr. anche G. Turone, op. cit., pp. 386 ss.

[15] Cfr. G. Insolera e T. Guerini, op. cit., p. 23, che sottolineano come i reati associativi siano caratterizzati da un netto abbassamento della soglia di rilevanza penale, caratteristica ancor più evidente nelle associazioni “specializzate”, come quelle mafiose, da cui promana «un pericolo immanente e diffuso di realizzazione di tipologie criminose proprie della criminalità organizzata».

[16] Sul difficile inquadramento giuridico delle condotte di criminalità organizzata si veda G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 20, 45-47, 56-57 e 60-61, ove gli autori analizzano il difficile rapporto tra fattispecie associative e principi costituzionali in materia penale, rimarcando come, in tali casi, occorra un’ermeneusi costituzionalmente orientata, alla luce del principio di necessaria offensività, quale parametro idoneo a selezionare le condotte punibili; cfr. anche G. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, cit., p. 86, ove l’autore ribadisce la necessità che la condotta partecipativa assuma aspetti di tipo materiale, svolgendo o impegnandosi a svolgere un certo ruolo in seno all’associazione.

[17] Cass. Pen. n. 39543/2013, in www.dejure.it.

[18] Si veda in dottrina G. Fornasari e S. Riondato, Reati contro l’ordine pubblico, cit., pp. 89-90; cfr. anche Turone, op. cit., pp. 400-403; sul momento iniziale della partecipazione punibile cfr. G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 49-51, ove si riassumono i tratti principali dei progetti di riforma del codice penale e, con riferimento ai lavori della sottocommissione “Pisapia”, si evince come fosse emersa in quella sede la proposta di configurare il reato sulla scorta della realizzazione, almeno a titolo di tentativo, dei reati fine dell’associazione; in giurisprudenza vedi anche Cass. Pen. Sez. II, n. 34147 del 30 aprile 2015 “Bandiera”, ove si ribadisce la rilevanza della stabile messa a disposizione, pur in assenza di un’affiliazione ritualmente formalizzata.

[19] Cass. Pen. n. 39543/2013, pp. 13-15; cfr. anche Cass. Pen. Sez. VI n. 46070/2015 “Alcaro”, par. 8, in www.dejure.it, ove si segnala che il ricorso al criterio causale è necessario al fine di evitare derive formalistiche, fondate su dati indiziari di mera disponibilità; sul punto è critico in dottrina G. Di Vetta, op. cit., pp. 43-44, ove l’autore ammonisce contro l’utilizzo di automatismi probatori, soprattutto in realtà caratterizzate da dinamiche familiari di stampo arcaico. Richiamando il precedente giurisprudenziale rappresentato dalla sentenza “Cataldo” Cass. Pen. sez. VI del 20/05/2015, ove si era affermato che la prova dell’avvenuto inserimento del partecipe potesse prescindere dal paradigma eziologico, potendo consistere anche «in un contributo di carattere meramente morale o psichico, se oggettivamente apprezzabile», l’Autore sottolinea che la “causalità da rafforzamento” è un criterio “evanescente”, che finisce col dilatare i contorni sostanziali della fattispecie.

[20] Cfr. Cass. Pen. Sez. VI n. 46070/2015 “Alcaro” e in particolare Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016 “Pesce”, in www.dejure.it ; si analizza la valenza del contributo causale apportato all’associazione criminosa, seppure nell’ambito circoscritto alla fattispecie ex art. 4, legge n. 146/2006, in G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 34-40, ove si osserva come il modello causale offra garanzie sul piano ermeneutico, ma al contempo lo stesso mal si attagli all’incriminazione delle fattispecie associative, come evidenziato dall’excursus giurisprudenziale degli ultimi anni. Una tesi, del resto, già espressa in altra sede da G. Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, pp. 203-204.

[21] Sul punto si veda l’analisi di M. Ronco, L’art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, cit., p. 69, secondo il quale la messa a disposizione va rivolta all’associazione e non ai singoli associati, al fine di risultare idonea onde integrare il modello delittuoso di cui all’art. 416 bis c.p.; in giurisprudenza si veda Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, cit., pp. 301 ss. .

[22] Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., p. 319; per una visione d’assieme degli orientamenti giurisprudenziali su questo punto cfr. la relazione dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Criminalità organizzata: punti fermi, questioni aperte e linee evolutive alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, pp. 34-35.

[23] Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., p. 320; cfr. anche G. Insolera e T. Guerini, op. cit., p. 64, che esprimono una visione critica sulla rilevanza penale della mera disponibilità potenziale, seppur qualificata, dovendo la partecipazione punibile rivestire un carattere materiale, in ogni caso funzionale all’associazione.

[24] Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., p. 321, ove, in merito all’integrazione probatoria, la Corte evidenzia che la stessa possa evincersi da una serie di indici indiziari, come già esposti nel precedente arresto delle S.U. “Mannino”; il riferimento alle fonti sovranazionali concerne la Decisione quadro GAI n. 2008/841 del Consiglio, sulla quale, in dottrina, esprime dubbi circa l’effettiva incidenza della stessa C. Visconti, Sui modelli di incriminazione della contiguità alle organizzazioni criminali nel panorama europeo: appunti per un’auspicabile (ma improbabile?) riforma possibile, in Scenari di mafia, orizzonte criminologico e innovazioni normative, a cura di G. Fiandaca e C. Visconti, Torino, pp. 195-196, che vi intravede, soprattutto, un tentativo di contemperamento tra la disciplina afferente la criminalità organizzata e quella in materia di terrorismo; su questo punto è bene citare anche la Convenzione ONU adottata a Palermo nel 2000, sul cui ruolo si rinvia a G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 31-39.

[25] Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., pp. 322-323, ove i giudici della I Sezione ritengono il rituale di affiliazione e la qualifica di uomo d’onore pregni di significato solo ove sorretti da un consistente sostrato probatorio.

[26] Cass. Pen. n. 27394/2017, in www.dejure.it.

[27] Cfr. F. Barbato, Associazione mafiosa: depositata la sentenza delle sezioni unite (36958/2021) sulla valenza del rituale di affiliazione, cit., p. 5, ove si evidenzia la necessità di ricostruire la fattispecie in termini di pericolo concreto ed effettivo, accertando l’utilizzo del metodo mafioso; in dottrina si veda G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 57-70, con riguardo alla storica debolezza del bene giuridico dell’ordine pubblico, che ha dato luogo alla declinazione della fattispecie associativa in termini di pericolo presunto. La rilettura – costituzionalmente orientata – dell’ordine pubblico in senso materiale, come fornita dagli autori, si attaglia invece in modo congruo al carattere stabile e permanente della criminalità organizzata, data la costanza del pericolo recato al quieto vivere. Nello specifico, sarebbe l’avvalersi del metodo mafioso a recare nocumento alla collettività, in termini di libertà e sicurezza; sul ruolo giocato dal principio di offensività nelle fattispecie di pericolo si vedano le riflessioni di M. Miceli, Principio di necessaria offensività e reati di mera condotta, con particolare riguardo alle fattispecie di pericolo astratto e presunto, in www.forogiurisprudenzacptp.blogspot.com , 14 gennaio 2022.

[28] Su questo punto cfr. A. Onore, Partecipazione di stampo mafioso, cit., pp. 81-82, ad avviso della quale la condotta partecipativa deve presentare profili di incidenza causale. L’autrice evidenzia anche la natura “mista” della fattispecie, determinata dalla rilevanza in concreto del metodo mafioso, declinando il modello delittuoso di cui all’art. 416 bis in termini di pericolo concreto.

[29] In dottrina si apprezzano sul punto le osservazioni di G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 45-64.

[30] Su questo punto si veda diffusamente A. Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, cit., pp. 93-98.

[31] Cass. Pen. Sez. II n. 27394/2017, cit., pp. 9-18.

[32] Cass. Pen. Sez. II n. 18559/2019, in www.dejure.it ; sulla necessità che il partecipe venga come tale riconosciuto in seno al sodalizio mafioso vedi G. De Francesco, op. cit., pp. 142-143.

[33] Tanto si evince anche dalla relazione dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Criminalità organizzata: punti fermi, questioni aperte e linee evolutive alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, p. 34, che richiama sul punto anche la pronuncia della Sez. I n. 6992 del 30/01/1992, a conferma di come un tale indirizzo ermeneutico affondi le proprie radici fino «agli albori dell’introduzione dell’art. 416-bis cod. pen.».

[34] Cfr. Cass. Pen. Sez. V n. 27672/2019, in www.dejure.it, pp. 2.3.

[35] In questo senso vedi A. Onore, op. cit., p. 77.

[36] Cass. Pen. S. U. 36958 del 11/10/2021, in www.dejure.it, pp. 3-4, ove si evince come l’importanza rivestita dai rituali di affiliazione emerge allorquando la mancata affiliazione di un dato gruppo di aspiranti ‘ndranghetisti, in favore di un altro, risulta idoneo ad alterare gli equilibri criminali esistenti, provocando un malcontento tale da provocare, ove non tempestivamente intercettato, pericolosi ed efferati conflitti; in dottrina cfr. M. Ronco, op. cit., p. 67, ad avviso del quale il rituale di affiliazione, ex se considerato, non è sufficiente ad integrare la fattispecie delittuosa della partecipazione associativa.

[37] Sul carattere plurioffensivo della fattispecie vedi A. Onore, op. cit., p. 81.

[38] Cfr. F. Barbato, op. cit., p. 2; sul punto si veda anche A. Onore, op. cit., pp. 79-80; sul percorso giurisprudenziale della condotta di partecipazione cfr. anche G. Insolera e T. Guerini, op. cit., p. 63.

[39] Cfr. sul punto A. Onore, op. cit., pp. 85-86.

[40] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., pp. 15-16, ove si evince come, in termini probatori, invece, la forza intimidatrice va desunta «da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale».

[41] Critico nei confronti di questa impostazione è V. Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle sezioni unite, cit., p. 7, il quale ritiene una tale ermeneusi inadeguata al fine di delineare un modello di fattispecie penalistica.

[42] Cass. Pen. n. 6882/2015 del 6 novembre 2015, in www.dejure.it.

[43] Cass. Pen. 27394/2017, in www.dejure.it; in senso critico cfr. I. Merenda e C. Visconti, op. cit., p. 23, i quali mettono in guardia dagli automatismi affiliativi – dovuti a particolari dinamiche sociali e finanche familiari -, propri dei contesti criminosi delle mafie storiche, che non recherebbero seco un apporto concreto alla vita associativa e, di conseguenza, non integrerebbero il modello punitivo di cui all’art. 416 bis, comma I, c.p.

[44] Cass. Pen. S. U. 36958/2021, op. cit., pp. 25-26.

[45] Cfr. G. Fornasari e S. Riondato, op. cit. pp. 88-89; di pregio le riflessioni offerte sul questo punto da G. Insolera e T. Guerini, op. cit., p. 64, secondo i quali la partecipazione attraverso l’assunzione di un dato ruolo nell’associazione non diverge dalla ricostruzione, in apparenza diversa, della messa a disposizione, con l’avvertenza che le attività suscettibili di integrare la partecipazione delittuosa devono essere altro da sé rispetto a quelle afferenti i delitti scopo dell’organizzazione.

[46] Sull’autonoma rilevanza penale della fattispecie associativa, rispetto alla commissione dei reati-scopo, vedi G. Fornasari e S. Riondato, op. cit., pp. 46-47 e 91-92; se ne trova conferma anche nella relazione dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Criminalità organizzata: punti fermi, questioni aperte e linee evolutive alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, p. 33, che richiama sul punto la sentenza “Zindato” n. 18559 del 13/03/2019; l’assunto trova conferma, in dottrina, nell’opera di G. Insolera e T. Guerini, op. cit., pp. 53-55, da cui si evince la necessità di tenere separata la punibilità, “per ciò solo”, del reato associativo da quella afferente la realizzazione dei delitti scopo; in senso contrario si veda l’orientamento della Cassazione riconducibile alla sent. Cass. Pen. n. 55359/2016, op. cit., pp. 323-324, che declina la condotta di partecipazione in senso materiale e la riconduce al compimento di attività causalmente rilevanti, sovrapponendola a quella di “Concorso esterno”. Una posizione del tutto coerente e adesiva alla tesi secondo cui occorre scongiurare il rischio di una ricostruzione della fattispecie basata sulla mera prova della qualifica solo formale (e alla condizione solo statica) di componente della consorteria, tale da ritenere integrata la condotta partecipativa a fronte della prova del solo ingresso cui non segua in alcuna forma l’agire associativo (Cfr. V. Maiello, Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafioso e del c.d. concorso esterno, cit.; Sul punto, si vedano anche le considerazioni di F. Viganò, Riflessioni conclusive in tema di ‘diritto penale giurisprudenziale’, ‘partecipazione’ e ‘concorso esterno’, ivi, 279 ss.).

[47] Se ne trova conferma in Cass. Pen. n. 27394/2017, cit., che ritiene in primo luogo infondata la differenziazione sul piano semantico tra i diversi dati letterali delle fattispecie ex artt. 416 e 416 bis c.p., la quale rappresenta una forzatura sul piano ermeneutico. Rinvenire una condotta dinamica nel “far parte” ed una condotta statica nel “partecipare” va, infatti, ben oltre l’intentio legis, a fronte di una fattispecie di pericolo concreto che è rivolta alla tutela dell’ordine pubblico. La partecipazione contemplata dalle due summenzionate fattispecie non presenta alcuna accezione statica, ovvero di tipo dinamico. Il solo fatto di associarsi va inteso, pertanto, come partecipazione attiva, penalmente rilevante; in senso contrario Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., pp. 316-318; vedi sul punto A. Onore, op. cit., p. 78; in dottrina sottolinea le carenze semantiche del dato normativo G. De Francesco, op. cit., p. 138; sul rapporto tra principio di tassatività e fattispecie delittuosa ex art. 416 bis 1° comma c.p. si vedano le osservazioni di G. Turone, op. cit., pp. 403-407; Il tema della descrizione semantica della condotta di partecipazione è stato affrontato anche in senso comparatistico nell’opera di C. Visconti, Sui modelli di incriminazione della contiguità alle organizzazioni criminali nel panorama europeo: appunti per un’auspicabile (ma improbabile?) riforma possibile, cit., pp. 193-194, che prende a riferimento i modelli legislativi più avanzati in Europa, a partire dal modello belga che, con riferimento all’associazione per delinquere “semplice”, prevede la punibilità di “chiunque ne fa attivamente parte”, mentre il modello spagnolo differenzia la partecipazione alla criminalità organizzata di tipo politico da quella di tipo comune, prevedendo solo per quest’ultima la punibilità dei “membri attivi”, mentre nel primo caso la sola affiliazione integra il modello delittuoso; il modello tedesco di partecipazione associativa è invece analizzato da G. De Francesco, op. cit., p. 144.

[48] Cass. Pen. sez 5, n. 49793 del 5 giugno 2013, in www.dejure.it; la dottrina, tuttavia, osserva, da un lato, come nonostante il rituale rivesta particolare rilievo, al compimento di questo potrebbe non far seguito un’empirica “presa delle funzioni” mafiose da parte dell’affiliato, tale da rendere ingiustificata la comminazione della pena prevista dall’art. 416 bis c.p. (cfr. I. Merenda e C. Visconti, op. cit., p. 22); da un altro angolo prospettico, non manca chi sottolinea il prodromo giuridico essenziale della condotta di partecipazione, vale a dire la reale esistenza di un’associazione mafiosa, la sua organizzazione, il suo programma e il concreto utilizzo del metodo mafioso di cui al terzo comma dell’art. 416 bis c.p. (così G. Insolera e T. Guerini, op. cit., p. 89).

[49] Cfr. Cass. Pen. n. 2040/96 e Cass. Pen. n. 5343/2000, in www.dejure.it; in dettaglio su questo punto si veda G. Turone, op. cit., pp. 386-389; si veda anche I. Merenda e C. Visconti, op. cit., p. 19, i quali evidenziano come tale ricostruzione nulla aggiunga al modello organizzatorio, facendo coincidere l’ingresso associativo col rafforzamento causale.

[50] In dottrina cfr. G. Di Vetta, op. cit., pp. 27-28 e 39-40, che, in modo condivisibile, mette in guardia da un utilizzo disinvolto del paradigma condizionalistico nel tentativo di definire la condotta di partecipazione interna. Un tale schema, ad avviso dell’autore, reca seco un surrettizio richiamo alla giurisprudenza antecedente al 1994, che tendeva ad assorbire la condotta concorsuale in quella partecipativa, rendendo fungibile la qualificazione giuridica delle condotte. L’autore, con lucidità, non manca poi di sottolineare come la confusione in termini di qualificazione giuridica delle condotte sia da ricondurre alla «svalutazione prasseologica» del criterio della compenetrazione organica del partecipe, quale patologica conseguenza dell’espansione del criterio causale.

[51] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., pp. 33-35.

[52] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., p. 36.

[53] Di segno contrario è la voce di A. Aceto, Il rito di affiliazione non integra di per sé il delitto di partecipazione all’associazione mafiosa, in www.quotidianogiuridico.it, 18/10/2021, secondo cui il rituale di affiliazione è da considerarsi ormai insufficiente onde integrare la partecipazione delittuosa; cfr. anche A. Onore, op. cit., p. 87, che mette in risalto il carattere serio ed effettivo del rituale, idoneo a dar luogo ad un patto reciprocamente vincolante, sintomatico di un contributo permanente all’associazione.

[54] Si veda su questo punto F. Barbato, op. cit., p. 7, che sottolinea la necessità di ricostruire la fattispecie partecipativa alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali (art. 49, c. 3, C.D.F.U.E.); nello stesso senso vedi anche A. Onore, op. cit., p. 86.

[55] Lo rileva anche F. Barbato, op. cit., p. 6, che sottolinea l’esigenza di non dilatare i contorni della fattispecie, riconducendola alle sole potenzialità operative del sodalizio.

[56] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., p. 37.

[57] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., p. 43; cfr. A. Onore, op. cit., p. 87, che evidenzia la necessità che siano riscontrati i caratteri di serietà e continuità della messa a disposizione.

[58] Cass. Pen. S. U. n. 36958/2021, op. cit., p. 42; cfr. anche Cass. Pen. sez. I n. 55359/2016, op. cit., pp. 315 ss.; in senso contrario F. Barbato, op. cit., p. 6, che rimarca il primato del legislatore nelle scelte incriminatrici.