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IL MAGISTRATO “FUORI RUOLO” RESTA SEMPRE UN MAGISTRATO – DI DANIELA CAVALLINI

IL MAGISTRATO “FUORI RUOLO” RESTA SEMPRE UN MAGISTRATO – DI DANIELA CAVALLINI

CAVALLINI – IL MAGISTRATO “FUORI RUOLO” RESTA SEMPRE UN MAGISTRATO.PDF
IL MAGISTRATO “FUORI RUOLO” RESTA SEMPRE UN MAGISTRATO, ANCHE QUANDO È IMPEGNATO IN POLITICA, E NON VIENE MENO IL SUO DOVERE DI PRESERVARE L’IMMAGINE PUBBLICA DI IMPARZIALITÀ

(Nota a Cass., sezioni unite, 14 maggio 2020, n. 8906).

di Daniela Cavallini*

La Corte suprema (sezioni unite, 14 maggio 2020, n. 8906) chiarisce le condotte sanzionabili, alla luce della giurisprudenza già maturata, e riafferma i valori dell’indipendenza e imparzialità del magistrato, anche come apparenza, che sono alla base della fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie. Tali valori, conclude, impediscono a un magistrato, anche se fuori ruolo, che aspira a incarichi con valenza politica, di essere iscritto a un partito politico e/o di svolgere in modo continuativo per conto di un partito attività di “militanza attiva”.  Nota a sentenza.

La vicenda in esame.

La sentenza della Cassazione, sezioni unite, n. 8906 del 14 maggio 2020 riapre la questione degli incarichi politici dei magistrati in un momento particolarmente critico per il potere giudiziario, al centro di alcune vicende di cronaca (in primis il “caso Palamara”) che destano non poche preoccupazioni sul corretto funzionamento delle istituzioni giudiziarie[1].

La ragione di tale sentenza è probabilmente data dal fatto che la soluzione adottata dal nostro ordinamento in materia di incarichi politici dei magistrati lascia irrisolte varie ambiguità e contraddizioni che alimentano ricorsi sia alla Corte suprema, nella sua veste di giudice disciplinare di ultima istanza, sia alla Corte cost., come dimostrano le recenti pronunce del 2009 e del 2018 (v. oltre nel testo).

La Corte suprema chiarisce le condotte sanzionabili, alla luce della giurisprudenza già maturata, e riafferma i valori dell’indipendenza e imparzialità del magistrato, anche come apparenza, che sono alla base della fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie. Tali valori, conclude, impediscono a un magistrato, anche se fuori ruolo, che aspira a incarichi con valenza politica, di essere iscritto a un partito politico e/o di svolgere in modo continuativo per conto di un partito attività di “militanza attiva”. Dietro questa affermazione, come già anticipato, si nascondono diverse problematiche.

La vicenda che è giunta all’attenzione della Corte suprema può essere così sintetizzata. Un magistrato, da tempo fuori ruolo e titolare di diversi incarichi dirigenziali all’interno di un partito politico (nonché candidatosi nel 2017 a segretario nazionale del medesimo partito), riceve una condanna disciplinare (ammonimento) dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura in base all’art. 3, comma 1, lett. h) del d.lgs. n. 109/2006. Tale articolo vieta non solo l’iscrizione dei magistrati a un partito politico, ma anche la partecipazione sistematica e continuativa all’attività di un partito[2]. Durante il giudizio disciplinare viene rimessa alla Corte cost. una questione di legittimità costituzionale, dubitandosi del fatto che la norma censurata possa estendersi anche ai magistrati fuori ruolo collocati in aspettativa per motivi elettorali (cioè fuori dal ruolo organico della magistratura e temporaneamente sospesi dall’esercizio di funzioni giudiziarie). Dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, il giudizio disciplinare riprende e giunge alla condanna. Il magistrato condannato impugna la sentenza della sezione disciplinare davanti alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, sulla base di sei motivi di ricorso, tutti successivamente dichiarati infondati o inammissibili. Durante il giudizio di legittimità viene sollevata dal magistrato ricorrente una nuova questione di legittimità costituzionale, che non supera però il vaglio della Corte suprema, la quale ne dichiara la manifesta infondatezza.

Le principali censure formulate dal ricorrente avverso la sentenza di condanna della sezione disciplinare riguardano l’erronea applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. h) cit., sul piano sia temporale che sostanziale, nonché l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata. Il ricorso offre l’occasione al giudice di legittimità per chiarire l’àmbito di applicazione della fattispecie illecita, così come introdotta nel 2006 (dal d.lgs. n. 109/2006) e ulteriormente delineata dagli interventi della Consulta.

In primo luogo, afferma la Cassazione, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la sezione disciplinare ha correttamente sanzionato il magistrato solo con riferimento alle condotte poste in essere successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 109/2006, tralasciando quindi quelle pregresse, iniziate già nel 2004. Infatti, è soltanto nel 2006 che il legislatore, in attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., ha introdotto espressamente per i magistrati i divieti di iscrizione e di partecipazione sistematica e continuativa a un partito politico.

La questione di fondo è però un’altra e riguarda la possibilità di conciliare tali divieti, posti a tutela dell’indipendenza e imparzialità della magistratura, con i diritti fondamentali di cui tutti i cittadini, magistrati inclusi, devono godere per dettato costituzionale, con particolare riguardo ai diritti di elettorato passivo alle cariche elettive (art. 51 Cost.), associazione in partiti politici (art. 49 Cost.), uguaglianza (art. 3 Cost.), libertà di opinione e associazione (artt. 21 e 18 Cost.).

A tal proposito, il ricorrente sostiene che l’art. 3 comma 1, lett. h) cit. dovrebbe essere interpretato in senso “costituzionalmente orientato” e cioè tenendo conto delle previsioni specifiche dello statuto e del regolamento-quadro del partito che configurano l’iscrizione al partito e la disponibilità a far parte degli organi direttivi come presupposti per la candidabilità alle cariche politico-istituzionali. In definitiva, secondo il ricorrente, per poter assumere tali cariche elettive, e quindi esercitare un diritto fondamentale, era necessario – per lo meno in via di fatto – essere iscritto e partecipare alla vita del partito stesso.

In aggiunta a ciò, il ricorrente ritiene, in base a una lettura non solo costituzionalmente ma anche convenzionalmente orientata (con riferimento all’art. 7, Cedu) che soltanto con la sentenza della Corte cost. n. 170 del 2018[3] (pronunciata nel corso del giudizio disciplinare) il divieto di iscrizione e/o partecipazione continuativa a partiti politici sarebbe stato esteso ai magistrati “fuori ruolo” e quindi tale interpretazione innovativa in malam partem non potrebbe avere effetti retroattivi e riferirsi a condotte commesse anteriormente al 2018.

Nel dichiarare infondate tali censure, la Corte di cassazione precisa innanzitutto che, considerata la natura privatistica dei partiti, la loro normativa interna (lo statuto, il codice etico, i regolamenti) non può costituire fonte del diritto, essendo invece mera espressione dell’autonomia privata. Non può dunque integrare il precetto disciplinare, immettendovi “nozioni che la legge non prevede” e arrivando in tal modo a “scriminare, rendendole lecite, condotte che la legge vieta e configura come illeciti disciplinari”. In ogni caso, ribadisce la Corte, richiamando la sentenza n. 170 del 2018, pur ammettendo che la candidatura a un incarico o mandato di natura politica presupponga assai spesso contatti di varia natura con i partiti e i movimenti politici, per il magistrato ciò non può tradursi nella sua iscrizione né nella stabile partecipazione all’attività del partito. Il magistrato può dunque esercitare i diritti di elettorato passivo e può partecipare all’attività di partiti politici purché in maniera non sistematica né continuativa. Egli, infatti, finché rimane magistrato, non può sottrarsi ai doveri inerenti alla sua posizione istituzionale e, anche se collocato fuori ruolo, “è tenuto a salvaguardare la propria indipendenza e la propria imparzialità, nonché la stessa apparenza di quest’ultime”, in modo da non compromettere la fiducia di cui l’ordine giudiziario deve godere presso l’opinione pubblica[4].

Quanto, poi, ai magistrati collocati “fuori ruolo” la Cassazione evidenzia che la pronuncia della Corte cost. del 2018 non ha in alcun modo alterato il senso e la portata della fattispecie disciplinare, il cui àmbito applicativo è rimasto quello che era in precedenza, come già delineato dalla Corte cost. con la sentenza n. 224/2009. Nella pronuncia del 2009 la Corte aveva fatto chiarezza sul punto, precisando che la fattispecie disciplinare si rivolge, indifferentemente a tutti i magistrati, senza eccezioni, e quindi anche ai magistrati fuori ruolo.

Nel caso di specie, la sezione disciplinare ha legittimamente ritenuto che le condotte poste in essere dal magistrato (nello specifico, l’iscrizione a un partito politico e l’avere ricoperto numerosi e importanti incarichi direttivi, culminati nella candidatura a segretario nazionale del medesimo partito, presentata alle elezioni primarie del 2017), abbiano violato i divieti previsti dalla norma disciplinare[5]. Nell’affermare ciò, la Cassazione sottolinea la differenza tra le due condotte sanzionate. Da un lato, infatti, l’iscrizione a un partito politico è un atto formale di significato certo, di per sé rivelatore di una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico e il cui oggettivo disvalore non è suscettibile di attenuazione. Quindi l’illecito disciplinare sussiste per il solo fatto dell’iscrizione. Dall’altro, invece, la partecipazione all’attività di un partito assume rilievo disciplinare solo se sistematica e continuativa ed è rimessa alla valutazione specifica del giudice disciplinare, da effettuarsi caso per caso e senza alcun automatismo sanzionatorio. Spetta dunque al giudice disciplinare accertare, caso per caso, se la partecipazione assume i caratteri della sistematicità e continuità, con ciò integrando gli estremi dell’illecito disciplinare.

La questione di legittimità costituzionale.

Come già anticipato, davanti alla Corte di cassazione viene sollevata dal ricorrente una nuova questione di legittimità costituzionale (la seconda nello stesso giudizio, la prima era stata proposta durante il giudizio disciplinare). Ciò porta la Cassazione a ragionare in modo ampio e diffuso sui presupposti che stanno alla base dei divieti introdotti dalla norma disciplinare e sulla ricerca di un bilanciamento tra i vari interessi in gioco.

Senza ripercorrere ogni singolo passaggio del ragionamento del giudice di legittimità, per il quale si rinvia al testo della sentenza, è sufficiente qui ricordare alcuni punti significativi.

Dalla soggezione del giudice alla legge (art. 102 Cost.) la Cassazione fa discendere il principio di indipendenza del giudice, interna ed esterna (e quindi, rispettivamente, da altri giudici e dagli organi espressione del potere politico). Soggezione alla legge significa anche, superando i dogmi illuministici del giudice come “mera bocca della legge”, che il giudice è chiamato a una complessa attività ermeneutica, ovvero alla “ponderazione dei valori sottesi alle norme giuridiche da applicare e degli scopi perseguiti dal legislatore”, nel rispetto dei fini e dei principi fatti propri dall’ordinamento giuridico. L’autonomia e l’indipendenza del giudice costituiscono quindi le “guarentigie” della sua imparzialità e della sua soggezione alla legge[6]. L’imparzialità, che è il fine ultimo da tutelare, implica che l’attività del giudice deve essere immune da vincoli, preconcetti, interessi personali, forze e interessi esterni e tale deve apparire anche nella percezione della collettività. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al singolo processo, l’apparire imparziale costituisce un “valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana”[7]. L’immagine pubblica di imparzialità costituisce dunque un dovere deontologico fondamentale per il magistrato.

Tali principi, tuttavia, devono essere coniugati con altri valori ugualmente meritevoli di tutela che afferiscono al diritto del magistrato di partecipare alla vita politica del Paese. Secondo la Cassazione un bilanciamento è possibile e si realizza nel seguente modo.

Il magistrato può legittimamente manifestare le proprie idee, anche di natura e valenza politica, pur con l’equilibrio e la misura che devono caratterizzare ogni comportamento di rilevanza pubblica. Più complesso è l’esercizio di quei diritti che pongono il magistrato in rapporto diretto con la politica e con i partiti politici, come ad es. l’art. 49 Cost.[8]. A tal fine, l’art. 98, comma 3, Cost. ha previsto che il legislatore ordinario possa stabilire per i magistrati (e per altre categorie di pubblici funzionari) “limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici” [9], così bilanciando la libertà di associarsi in partiti politici con l’esigenza di assicurare l’indipendente e imparziale esercizio della funzione giudiziaria. Con il d.lgs. n. 109/2006 (art. 3, comma 1, lett. h) il legislatore ha dato attuazione alla previsione costituzionale, vietando ai magistrati l’iscrizione e la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici. Il magistrato dunque non può avere tessera di partito e non deve essere percepito come “uomo di parte”, soprattutto in uno Stato di diritto in cui la magistratura è chiamata a controllare i pubblici poteri e la legalità della loro azione. Ciò contrasterebbe con il dovere del magistrato di assicurare la propria “immagine pubblica di imparzialità”. Un conto è, dunque, la “politica delle idee” (come libertà di espressione dei propri valori, con il necessario equilibrio e moderazione), altra questione è invece la “politica partitica”, come lotta tra gruppi contrapposti per la supremazia di uno sugli altri. Vanno dunque visti con sfavore i comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile.

Questi limiti si ripercuotono anche sul diritto all’elettorato passivo (art. 51 Cost.[10]). La Cassazione sottolinea che il mandato elettorale non libera il magistrato dai doveri e dai vincoli che incombono sugli appartenenti all’ordine giudiziario, nemmeno temporaneamente, poiché il magistrato non cessa mai di essere tale, tant’è che al termine del mandato può tornare a esercitare le funzioni giudiziarie[11]. Può dunque accedere alle cariche elettive solo a determinate condizioni e con modalità tali da non compromettere i beni primari della indipendenza e imparzialità (e della loro apparenza). In ciò consiste, ancora una volta, il bilanciamento che trova il suo punto di equilibrio proprio nell’art. 98, comma 3, cit.

Infine, la Cassazione contesta l’affermazione del ricorrente, in base alla quale il divieto di iscrizione e partecipazione sistematica e continuativa all’attività dei partiti renderebbe più difficoltosa per il magistrato la possibilità di essere eletto, rispetto a un candidato strutturato nel partito, in violazione degli artt. 3 e dell’eguaglianza di voto del singolo elettore (art. 48, comma 2, Cost.). Oltre a essere indimostrata, tale affermazione tralascia il fatto che il divieto introdotto dal legislatore rientra tra le limitazioni consentite dall’art. 98, comma 3, Cost. e non viola affatto il principio di uguaglianza. Né risulta violato l’art. 67 Cost., poiché non vi è alcuna limitazione della libertà del magistrato-parlamentare nello svolgimento delle sue funzioni di rappresentanza politica della nazione, che vanno esercitate “senza vincolo di mandato” ossia in modo indipendente dai legami del partito.

Tutto ciò considerato, la Cassazione dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale proposta.

Le problematiche poste dalla disciplina attuale.

Come già detto, il legislatore ha dato attuazione all’art. 98, comma 3, Cost. introducendo la fattispecie disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 109 del 2006. Tale fattispecie vieta espressamente ai magistrati sia l’iscrizione a partiti politici sia il coinvolgimento stabile e continuativo nell’attività di un partito. Con tale intervento il legislatore ha inteso limitare la partecipazione dei magistrati alle attività dei partiti politici e ne ha affidato il controllo alla sezione disciplinare del Csm (nonché alla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, come giudice di ultima istanza).

La sentenza delle sezioni unite della Cassazione qui in commento, sulla scia della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, mantiene fermo il senso e la portata della fattispecie disciplinare, confermando i divieti in questione e la loro applicazione generalizzata a tutti i magistrati, inclusi quelli collocati fuori ruolo, ai quali, non meno degli altri, spetta preservare l’immagine di imparzialità.

La questione è però più complessa e la pronuncia della Cassazione offre diversi spunti di riflessione.

Innanzitutto, la Corte suprema distingue tra la partecipazione alla “politica partitica” e la partecipazione alla “politica delle idee”. La prima è una condotta da evitare, soprattutto quando porta all’instaurazione di legami stabili e duraturi con un partito politico che pregiudicano l’immagine di imparzialità del magistrato (anche solo come apparenza) che è alla base della fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie. La seconda è consentita perché al magistrato non si chiede “un’irrealistica neutralità ideologica”, ragion per cui il magistrato può, entro certi limiti e con alcune cautele previste dalla legge, partecipare alla vita politica del Paese, anche candidandosi alle elezioni politiche e amministrative.

Per quanto riguarda il primo punto (la politica partitica), il d.lgs. n. 109/2006 rappresenta uno spartiacque perché, introducendo i due nuovi divieti di cui all’art. 3, comma 1, lett. h), rende illeciti, in modo esplicito, dei comportamenti che in precedenza non lo erano e avevano dato luogo a interpretazioni variegate[12]. La Corte cost. ha inoltre precisato che: “per tutti i magistrati, non ogni partecipazione a manifestazioni politiche o ad iniziative di partito assume significato disciplinarmente rilevante. Lo stesso tenore della disposizione contestata si sottrae a censure d’illegittimità costituzionale proprio perché consente al giudice disciplinare le ragionevoli distinzioni richieste dalla varietà delle situazioni che la vita politico-istituzionale presenta. In disparte l’iscrizione al partito politico – fattispecie rivelatrice, come si è detto, di una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico e il cui oggettivo disvalore non è suscettibile di attenuazioni – la valutazione sui requisiti di sistematicità e continuatività della partecipazione del magistrato alla vita di un partito esclude ogni automatismo sanzionatorio permettendo, al contrario, soluzioni adeguate alle peculiarità dei singoli casi”[13]. E se tale rilievo vale, in generale, per tutti i magistrati, vale particolarmente per coloro, tra di essi, che siano collocati in aspettativa per soddisfare i diritti fondamentali garantiti dall’art. 51 Cost.

Viene dunque sanzionata non solo l’iscrizione a un partito politico (fatto, appunto, di per sé illecito) ma anche la condotta che, al di là dell’iscrizione formale, si traduce in una partecipazione sostanziale, sistematica e continuativa, all’attività del partito. In questo modo, diventa a tutti gli effetti sanzionabile anche il comportamento del magistrato che, come nel caso in esame, ha svolto importanti incarichi direttivi all’interno di un partito politico, poiché tali incarichi sono indice evidente di un coinvolgimento stabile e continuativo nella vita del partito. Comportamenti di questo tipo (verificatisi anche in passato, si ricorda ad es. il caso di un magistrato nominato segretario nazionale del partito Social-Democratico[14]) sono dunque censurabili, similmente a quanto avviene per i magistrati onorari, per i quali l’aver ricoperto incarichi direttivi o esecutivi in un partito politico costituisce una causa di incompatibilità con la funzione giudiziaria[15].

Infine, essendo la partecipazione sistematica e continuativa una fattispecie aperta, valutabile caso per caso dal giudice disciplinare secondo la propria discrezionalità, la sua applicazione può essere estesa anche ad altre forme di impegno politico del magistrato che comportino l’assunzione di vincoli, legami o obblighi con un partito, compromettendo l’immagine pubblica di imparzialità. Questa fattispecie diventa quindi lo strumento attraverso cui la sezione disciplinare può responsabilizzare maggiormente i magistrati in tal senso, a tutela del loro dovere di imparzialità. Sarà interessante monitorare la giurisprudenza disciplinare sul punto.

Per quanto riguarda il secondo punto (la “politica delle idee”), il discorso è più complesso. Come noto, e come ribadito dalle sentenze della Corte cost. n. 224/2009 e n. 170/2018, il nostro ordinamento ha adottato una soluzione di bilanciamento tra i principi di autonomia, indipendenza e imparzialità e i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (in primis il libero accesso alle cariche elettive ex art. 51 Cost.) di cui il magistrato, come ogni altro cittadino, deve godere. E a tal fine, la Cassazione precisa che il mandato elettorale non libera il magistrato dai doveri e dai vincoli che incombono sugli appartenenti all’ordine giudiziario, nemmeno temporaneamente, poiché il magistrato non cessa mai di essere tale. Può dunque accedere alle cariche elettive solo a determinate condizioni e con modalità tali da non compromettere i beni primari della indipendenza e imparzialità (e della loro apparenza).

In realtà è difficile non vedere una contraddizione in questo ragionamento, al di là di quanto afferma la Corte cost. Le norme sulla responsabilità disciplinare vietano ai magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici. Di contro, ai magistrati è riconosciuto il diritto all’elettorato passivo, cioè il diritto di accedere alle cariche pubbliche elettive (art. 51 cost.), fatte salve alcune cautele previste dalla legge[16], e pertanto essi possono presentarsi alle elezioni politiche o amministrative nelle liste di un determinato partito. Né sono loro preclusi gli incarichi di nomina politica. Quindi i magistrati, pur non potendo appartenere a un partito o partecipare alla sua attività, possono svolgere per conto di un partito incarichi di deputato, senatore, ministro, sottosegretario, sindaco, consigliere, assessore, ecc. Per di più, ai fini dell’anzianità di servizio e della carriera, il periodo trascorso fuori dal ruolo organico è equiparato all’esercizio delle ultime funzioni giudiziarie svolte e quindi è computabile per la progressione nelle funzioni e nella classe stipendiale. La Corte cost. ignora questa contraddizione che invece pregiudica sotto molti aspetti l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura (anche solo come immagine), l’efficienza della giustizia e il principio della separazione dei poteri[17]. Le conseguenze disfunzionali di tale fenomeno emergono soprattutto nel momento in cui si considera che quando il magistrato termina il suo impegno nella politica attiva, e “quindi dopo aver praticato per anni orientamenti di parte e instaurato relazioni e legami con soggetti politici, torna a svolgere le funzioni giudiziarie, senza che ci si ponga il dubbio sulla sua effettiva imparzialità nel giudizio”[18].

Il caso oggetto della sentenza qui in commento è esemplificativo. Il magistrato viene sanzionato dalla sezione disciplinare perché, iscrivendosi a un partito politico e avendo ricoperto numerosi incarichi direttivi, ha violato i divieti di cui all’art. 3, comma 1, lett. h) cit., con ciò pregiudicando la propria “immagine pubblica di imparzialità”. Nulla viene detto, non essendo questo l’oggetto del giudizio, sugli incarichi politici svolti dal magistrato in questione (persona nota sulla scena pubblica anche e soprattutto per questi incarichi): due mandati amministrativi consecutivi di Sindaco, incarico di assessore comunale, mandato elettivo di Presidente di una Regione. Ci si può legittimamente domandare se tali incarichi, svolti per conto di uno schieramento politico, non siano da considerare altrettanto (o più) lesivi dell’immagine di imparzialità dell’iscrizione al partito stesso. È evidente che incarichi di questo tipo non sono immuni dalle logiche e dalle influenze partitiche, soprattutto quando si tratta di competizioni elettorali, a prescindere dalla formale iscrizione o meno del candidato al partito nelle cui liste viene eletto. È la stessa Corte cost. ad ammettere che “si è eletti o designati a una carica politica perché si condivide il programma politico di uno o più partiti” (sentenza n. 170/2018). Se, dunque, i magistrati devono sempre preservare la loro immagine di imparzialità, anche se fuori ruolo, bisognerebbe impedire le cariche politiche elettive che tale immagine non garantiscono.

In definitiva, nel nostro sistema resta irrisolta la problematica di fondo e cioè come sia possibile garantire l’immagine pubblica di imparzialità del magistrato consentendo allo stesso di svolgere incarichi politici elettivi per conto di un partito, o altre cariche di nomina politica, per poi eventualmente tornare a esercitare le funzioni giudiziarie.

Una soluzione diversa era stata suggerita dalla Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario, nominata con d.m. 8 febbraio 1993, di cui facevano parte anche autorevoli personalità come Vincenzo Carbone e Gustavo Zagrebelsky. La sua proposta, decisamente restrittiva, introduceva l’ineleggibilità dei magistrati a qualsiasi carica politica o amministrativa in enti territoriali, evidenziando come la limitazione fosse pienamente compatibile con i precetti costituzionali, potendosi legittimamente inquadrare nell’art. 98, comma 3, Cost. (il che dimostra come l’interpretazione dell’art. 98 Cost. sia tutt’altro che scontata). Una disciplina che si limitasse a rendere più rigorosi i limiti di eleggibilità già previsti dalle leggi elettorali, senza escludere del tutto i magistrati dalle cariche elettive, non sarebbe sufficiente a parere della Commissione, considerato il ruolo di così ampia portata, sul piano politico e sociale, che i magistrati sono venuti ad assumere e visto che nella società il potere giudiziario è percepito come prioritario, se non addirittura esclusivo, punto di riferimento per il recupero della legalità nel sistema politico-amministrativo[19]. Ciò che bisognerebbe valutare, dunque, è l’introduzione di un’incompatibilità tra l’assunzione di uffici politici elettivi e la permanenza nell’ordine giudiziario e, allo stesso tempo, bisognerebbe vietare gli incarichi extragiudiziari che abbiano implicazioni con il mondo politico[20].

Effetti meno dirompenti, ma comunque positivi, potrebbero derivare dalla proposta avanzata dall’On. Ministro Bonafede, attualmente in discussione, che in vario modo rafforza e amplia le limitazioni alle “carriere politiche” dei magistrati delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa, contabile e militare (v. d.d.l. Bonafede, art. 8, Assunzione di cariche politiche e di incarichi presso organi politici da parte dei magistrati[21]).

Il d.d.l. Bonafede introduce dei limiti particolarmente stringenti per i magistrati che hanno ricoperto determinati incarichi elettivi o di governo. Il magistrato, infatti, può accedere alle cariche elettive, ma per alcune di esse (le più importanti)[22] vige una preclusione che gli impedisce di rientrare nel ruolo organico della magistratura. Alla cessazione del mandato, il magistrato viene collocato nei ruoli amministrativi della propria o di altra amministrazione conservando il suo trattamento economico (e senza tener conto del periodo trascorso fuori ruolo). A tali cariche, inoltre, viene esteso il regime di ineleggibilità dei magistrati già previsto dal d.p.r. n. 361/1957 (art. 8) per le elezioni alla Camera, ma applicabile anche al Senato, aumentando però da 6 mesi a due anni il periodo considerato ai fini della eleggibilità. Ciò significa che i magistrati non sono eleggibili nelle circoscrizioni sottoposte, in tutto o in parte, alla giurisdizione degli uffici ai quali si sono trovati assegnati o presso i quali hanno esercitato le loro funzioni in un periodo compreso nei 2 anni antecedenti alla data di accettazione della candidatura[23]. E, in ogni caso, all’atto dell’accettazione della candidatura devono essere in aspettativa.

Diverso il regime per coloro che si sono candidati ma non sono stati eletti, per i quali sono previsti alcuni limiti territoriali e divieti, volti a evitare possibili collegamenti tra l’attività elettorale e le funzioni giudiziarie. Essi rientrano nel ruolo della magistratura ma non possono essere ricollocati in un ufficio la cui competenza si estende “sul territorio di una regione compresa in tutto o in parte nella circoscrizione elettorale in cui hanno presentato la candidatura o in una regione limitrofa”, ovvero in un ufficio “del distretto nel quale esercitavano le funzioni al momento della candidatura”. In ogni caso, vige il divieto di esercizio delle funzioni monocratiche penali e il divieto di ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi. Tutti i limiti e i divieti sopracitati non possono avere una durata inferiore a cinque anni.

Per tutti gli altri incarichi elettivi o di governo (art. 8, lett. d, cit.) è previsto un regime di aspettativa obbligatoria senza assegni e, alla scadenza del mandato, il magistrato (per almeno 5 anni) è ricollocato in ruolo in ufficio appartenente a distretto diverso da quello nel quale ha esercitato il mandato amministrativo.

Del tutto inadeguata, stante comunque la connotazione fortemente politica degli incarichi in questione, appare la disposizione che riguarda i magistrati collocati fuori ruolo per l’assunzione di incarichi apicali, inclusi quelli di diretta collaborazione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e i Ministeri, nonché presso le giunte regionali. Dal giorno di cessazione dell’incarico e per i successivi due anni tali magistrati non possono fare domanda per accedere a incarichi direttivi.

La disposizione più significativa è – di fatto – quella che preclude il rientro nel ruolo organico dei magistrati che hanno ricoperto importanti cariche elettive o di governo (anche nelle amministrazioni locali). Ciò significa che, nel momento in cui il magistrato inizia un’attività politica di una certa rilevanza deve interrompere quella giudiziaria. Ciò dovrebbe comportare il venir meno a tutti gli effetti della permanenza nell’ordine giudiziario. Tale disposizione introdurrebbe, in effetti, una maggiore cesura tra l’attività giudiziaria e l’attività politica, senza pregiudicare il diritto all’elettorato passivo, né la libera scelta del magistrato. Il magistrato infatti è fin da subito consapevole che, accettando un incarico di un certo tipo, non potrà più tornare a svolgere le funzioni giudiziarie. Il rientro nei ruoli dell’amministrazione consente inoltre al magistrato di conservare il posto di lavoro, in ossequio all’art. 51, comma 3, Cost.[24], e all’amministrazione di utilizzare le competenze del magistrato per le proprie esigenze e necessità.

Considerando gli attuali orientamenti della Corte cost. e della Cassazione (come sopra illustrati), il d.d.l. Bonafede costituisce un apprezzabile tentativo di arginare il fenomeno delle attività politiche e di militanza partitica dei magistrati, senza tuttavia eliminarlo in radice. Tuttavia, per migliorare davvero la fiducia dei cittadini nella magistratura e la credibilità dell’intero corpo giudiziario sarebbe necessario un intervento più ampio che introducesse una vera e propria incompatibilità degli appartenenti all’ordine giudiziario con qualsiasi carica politica o amministrativa in enti territoriali.

* Professoressa associata dell’Università di Bologna.

[1] Preoccupazioni che lo stesso Capo dello Stato ha rivolto al Csm durante il plenum straordinario dello scorso 21 giugno, a seguito della nota “vicenda Palamara”, pronunciando le seguenti parole: “Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma dell’intero ordine giudiziario, la cui credibilità e capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”.

[2] Per la precisione, in base all’art. 3, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 109/2006, costituisce illecito disciplinare: “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato”.

[3] V. www.cortecostituzionale.it.

[4] Cass., sez. un., n. 8906/2020, cit., par. 3.3.

[5] Altrettanto legittimamente la sezione disciplinare ha escluso la buona fede dell’incolpato e l’applicazione dell’esimente della “scarsa rilevanza del fatto” di cui all’art. 3-bis, d.lgs. n. 109/2006, in considerazione della chiarezza e inequivocità del precetto disciplinare che vieta l’iscrizione a partiti politici, nonché della pluralità e dell’importanza degli incarichi ricoperti dal magistrato incolpato; così afferma la Cass., sez. un., n. 8906/2020, parr. 5 e 6.

[6] Cass., sez. un., n. 8906/2020, cit., p. 27.

[7] Cass., sez. un., n. 8906/2020, cit., p. 29.

[8] Ai sensi del quale: “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

[9] L’art. 98 così dispone: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità. Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”.

[10] Che garantisce a tutti i cittadini il diritto di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive “in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

[11] Viene così garantito il diritto di conservazione del posto di lavoro, di cui al comma 3, dell’art. 51 Cost. Il contesto normativo, infatti, consente al magistrato di tornare a esercitare le funzioni giurisdizionali in caso di mancata elezione oppure al termine del mandato. Non vi è quindi nessuna scelta irreversibile e il magistrato non è costretto ad abbandonare la giurisdizione; Cass., sez. un., n. 8906/2020, cit.

[12] Fino alla riforma del 2006, mancando una norma simile, il problema del coinvolgimento dei magistrati in attività politiche era stato trattato dal giudice disciplinare in termini più generali, e cioè come possibile violazione dell’obbligo di correttezza e di riserbo nell’esprimere le proprie opinioni politiche o di violazione del dovere di imparzialità per aver strumentalizzato l’attività giudiziaria a fini politici (per approfondimenti v. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati prima e dopo la riforma del 2006, Padova, 2011, cap. VI).

[13] Corte cost. n. 170 del 2018.

[14] Di Federico, Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati: una grave minaccia per l’indipendenza ed imparzialità del giudice, una grave violazione del principio della divisione dei poteri, in Di Federico (a cura di), Manuale di ordinamento giudiziario, Padova, 2004, p. 582 ss.; v. anche Di Federico, Quella commistione tra magistratura e politica molto appetita dai giudici italiani e che il ministro Flick fa finta di voler cancellare, Il Foglio Quotidiano, 8 aprile 1997.

[15] Per i magistrati onorari l’aver ricoperto “nei tre anni precedenti alla domanda, incarichi direttivi o esecutivi nei partiti e movimenti politici o nelle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative” costituisce una causa di incompatibilità assoluta con l’incarico di magistrato onorario (art. 5. D.lgs. n. 111 del 2017); una disposizione simile era già prevista anche prima della riforma della magistratura onoraria del 2016/2017.

[16] Per approfondimenti sulla disciplina che regola, ponendo alcuni limiti e condizioni, la partecipazione del magistrato alle elezioni politiche e amministrative e il ritorno in servizio una volta espletato il mandato politico, v., tra i molti contributi, Curreri, Le “convergenze parallele” tra diritto del magistrato ad assumere cariche politiche e divieto di iscrizione e militanza partitica, in Studium Iuris, 2/2019, p. 147 ss.

[17] Tali fenomeni negli altri paesi dell’Europa continentale sono assolutamente marginali, e nei paesi di tradizione giuridica anglosassone sarebbero anche considerati come una violazione del principio della divisione dei poteri, Di Federico, Manuale di Ordinamento giudiziario, Bologna, 2019.

[18] Di Federico, Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, cit., p. 537 ss.

[19] Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario, Lavori della commissione al 30 aprile 1994, in Doc. giust., 1994, 5, c. 1105 ss. In ogni modo, “sebbene non sia vietato alla legge stabilire in linea generale e astratta cause di ineleggibilità per categorie di soggetti, rigorosa deve essere la prova della indispensabilità della restrizione, poiché dall’art. 51 Cost. discende che l’eleggibilità è la norma e l’ineleggibilità l’eccezione” (Corte cost., 11 giugno 1993, n. 344, in Giust. civ., 1993, I, p. 2596 ss.).

[20] Ivi, c. 1105 ss.

[21] Disegno di legge recante delega al governo per la riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e della disciplina su eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati nonché disposizioni sulla costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in https://www.affaritaliani.it/static/upl2020/rifo/riforma-giustizia-csm-bonafede.pdf (consultato in data 17 luglio 2020).

[22] E, in particolare, quelle di parlamentare nazionale o europeo, componente del Governo, consigliere regionale o provinciale nelle Province autonome di Trento e Bolzano, Presidente o assessore nelle giunte delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, sindaco in comuni con più di centomila abitanti (art. 8, lett. b, cit.).

[23] D.p.r. 30 marzo 1957, n. 361, art. 8, riguardante le elezioni alla Camera, ma applicabile anche alle elezioni al Senato, in forza dell’art. 2, l. n. 64 del 1958.

[24] Tale espressione implica infatti il diritto di mantenere il rapporto di lavoro o di impiego, non già di continuare nell’esercizio delle stesse attività o funzioni in cui si concreta la prestazione del lavoratore o dell’impiegato; per approfondimenti v. Curreri, op. cit.