IL MURO TORTO. BARLUMI DI INCOSTITUZIONALITÀ DELL’ERGASTOLO OSTATIVO – DI MICHELE PASSIONE
PASSIONE – IL MURO TORTO – BARLUMI DI INCOSTITUZIONALITÀ DELL’ERGASTOLO OSTATIVO.PDF
di Michele Passione
L’ergastolo è più della morte.
La morte dura un attimo e richiede un coraggio momentaneo.
L’ergastolo è un’esistenza[1]
Con ordinanza pubblicata su G.U. n.34/2020 la Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale (est. Santalucia) ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 4 bis, comma 1, e 58 ter della legge n.354 del 1975, e dell’art.2 del decreto legge n.152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n.203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale
In data 23 marzo 2021 la Corte costituzionale ha esaminato la questione sopra indicata; all’esito dell’udienza svoltasi l’Ufficio stampa comunicava il giorno seguente che la discussione sulle questioni di legittimità costituzionale sarebbe proseguita “nella prossima settimana di lavori”. In data 15 aprile veniva emesso un comunicato con il quale, in sostanza, si dava atto che la Corte ha rilevato la natura assoluta della preclusione all’accesso alla liberazione condizionale per l’ergastolano non collaborante, “anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. Nell’occorso, “ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia [poiché] l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata, la Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”.
Sommario: 1 Premessa. – 2. Cambi di stagione (vecchie e nuove incoerenze) – 3. Harmonia mundi. – 4. Che fare? – 5. Quel che resta del giorno
- Premessa.
Il tema che ci occupa ha costituito negli ultimi anni oggetto di così tanti interventi che è impossibile riassumerli qui. Mi scuseranno dunque coloro che non ritroveranno in questo scritto traccia del loro impegno.
Scelgo volutamente la prima persona singolare, cui normalmente non ricorro, per evidenziare come le parole che seguono costituiscono il frutto di una prima lettura del tutto personale, che non pretende adesioni e/o condivisioni ed impegna solo me stesso. Cercherò qui di svolgere alcune riflessioni su questioni apparentemente periferiche, senza esimermi dall’analisi tecnica della quaestio e delle norme sospette di contrasto con la Carta. Mi interessa analizzare le ragioni di un diverso argomentare della Presidenza del Consiglio dei Ministri rispetto a quanto sostenuto nella prodromica causa costituzionale che ha portato alla pronuncia n.253/2019, e al contempo le aporie (interne ed esterne) contenute nell’ordinanza della Corte.
- Cambi di stagione (vecchie e nuove incoerenze).
22 ottobre 2019, udienza pubblica[2]. L’Avvocatura dello Stato invitava a rifuggire dalla “suggestione della funzione rieducativa della pena, che non costituisce un dogma”. Si rilevava che “il mafioso non cessa mai di appartenere all’associazione mafiosa”, e dunque sebbene venisse in discussione l’importanza (in quel caso) del permesso premio, anche per il mantenimento dei rapporti con la famiglia, rivolgendosi al giudice relatore (che aveva posto in rilievo anche questa finalità dell’istituto) si osservava che “bisogna vedere di quale famiglia si tratta”. Rispetto al compito della magistratura, impedita nello svolgimento del suo ruolo[3], si riteneva opportuno l’invito alla cautela, poiché “i magistrati di sorveglianza sono atterriti” (citando Giancarlo Caselli) “dall’esser responsabilizzati” Proseguendo, si rilevava come fossero oltre seimila i programmi di protezione, negando perciò che il non collaborante potesse avere timori per sé o i suoi familiari, citandosi a tal proposito “un documento ufficiale che mi hanno mandato” (al Giudice relatore, interloquente sul punto, si rispondeva “glielo faccio avere”…). Censurandosi la pronuncia Viola n.2 c. Italia, definita “una sola pronuncia, piuttosto dubbia”, si invitava la Corte ad erigere “la barriera dei controlimiti”. Per parte sua l’altro rappresentante del Governo affermava che non bisognasse tanto soffermarsi sul condannato, “un soggetto nell’ambito del quale…”, quanto tener conto che “questa è legislazione di sicurezza”. Ancora; “ci dimentichiamo, mi si passi il termine terminologico amministrativo, i terzi interessati del processo e della pena, che sono le vittime del reato…la pena ha anche un connotato che guarda alla vittima del reato”, con l’immancabile richiamo a “quanto successo due giorni fa, e al padre della figlia uccisa intervistato in tv…non cito il caso dell’altro giorno di Torino…io non vi voglio fare questi esempi suggestivamente”.
Cose così; conosciamo l’esito.
Due anni dopo, udienza pubblica del 23 marzo 2021. Dopo essersi costituiti in giudizio con atto di intervento composto di nove pagine (sette delle quali contenenti l’esposizione della quaestio), la difesa dello Stato ha sostenuto l’infondatezza delle ragioni del remittente, “posto che le disposizioni censurate sono pienamente giustificate alla luce della assai rilevante gravità dei reati per i quali è stata comminata la più grave delle pene, determinanti contesti di consistente allarme sociale che impongono l’adozione di misure adeguate e corrispondenti alla importanza dei beni tutelati dal legislatore, misure quindi rientranti nell’alveo della discrezionalità legislativa”. Oltre a ciò, l’oscuro preambolo era accompagnato dai soliti richiami alle insindacabili “scelte legislative di politica criminale” dalla “particolare oggettiva gravità delle personalità criminali dei soggetti interessati”, dal significato del rifiuto a collaborare come espressione della mancata rescissione di “quei collegamenti che sono stati provati nel corso del processo penale”. Questo accadeva il sette settembre 2020.
All’udienza pubblica l’Avvocatura dello Stato proponeva una possibile interpretazione adeguatrice della disciplina sub iudice; incidentalmente, si osserva, a Via Arenula c’era già un altro inquilino, fortunatamente aduso alla lettura dei precetti costituzionali. E così, veniva affermato che già ora sarebbe possibile “verificare uno spazio di discrezionalità piuttosto consistente da parte del giudice [e…] si potrebbe seguire in qualche modo l’interpretazione che sta seguendo la Cassazione”. Con riferimento a pronunce successive a quelle del giudice a quo (venivano citate le sentt. 2593/21, 7452/21 e 35251/20, tutte assolutamente inconferenti rispetto al tema che ci occupa) si sosteneva che il giudice di sorveglianza avrebbe oggi la possibilità di verificare in concreto le ragioni del silenzio del condannato, potendo e dovendo distinguere tra quelle “oggettive o soggettive”. Per questa ragione, dopo aver dichiarato che “il Governo non può che rimettersi alle valutazioni della Corte, condividendo senz’altro i principi affermati nella sent. 253 del 2019 e nella decisione della Corte di Strasburgo”, si sosteneva la tesi (perplessa; essendo accompagnata da non pochi “mi pare”) dell’interpretativa di rigetto.
- Harmonia mundi
“E per quanto riguarda questa richiesta della pena, di come debba essere la pena, un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale, che istantaneamente, puntualmente, elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte…quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile….ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”[4]
“Io sono contro l’ergastolo, prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo”[5]
Fa impressione rileggere queste parole di due Uomini politici che, pur militanti in diversi schieramenti, hanno condiviso una certa idea della pena che rifugge(va) dagli assolutismi.
Più di recente si è scritto che “il diritto alla speranza, ora davanti alle Corti, è la misura della dignità del detenuto, anche quando condannato a vita. Negare l’uno significa annullare l’altra”[6]
Nella relazione introduttiva presentata ai nuovi seminari ferraresi Amicus Curiae del 25 settembre 2020[7], ancora, Marco Ruotolo ha concluso il suo intervento affermando che “l’ergastolo ostativo è costituzionalmente, convenzionalmente e umanamente intollerabile”; un punto di non ritorno, si direbbe, con il quale ha fatto i conti la Corte costituzionale.
Lo dico subito, lo dico chiaro; le aspettative che hanno accompagnato l’attesa dell’ordinanza n.97, depositata l’11 maggio u.s., preceduta dall’emissione del Comunicato stampa del 15 aprile, non hanno trovato conforto dalla lettura del testo.
Al contempo, e altrettanto chiaramente: la Corte è, e deve restare, custode insostituibile del controllo di legalità costituzionale e va protetta sempre da qualunque attacco preconcetto, volto a introdurre, prima e dopo il suo dire, elementi di disturbo o, peggio ancora, capovolgimenti di rotta.
Allora vediamola l’ordinanza.
Come nel dipinto del pittore surrealista René Magritte[8] il quadro che ne esce rappresenta l’immagine decostituzionalizzata di un istituto, l’attuale liberazione condizionale (da sempre ritenuto l’ancora di salvataggio dell’ergastolo tout court, ciò che lo rende-rebbe compatibile con l’art.27 comma 3 Cost.[9]), che come la pipa dell’artista belga sembra distaccarsi dalla realtà.
Così, leggendo l’ordinanza n.97, non è possibile non prendere atto di una cesura tra i §§ 2 – 7 e quelli che seguono; si ha quasi l’impressione di un conflitto interiore, come se l’analisi del testo smentisse, appunto, la realtà e la cosa guardata, l’Uomo e il suo futuro possibile.
Ecco qualche esempio: la Corte riconosce “come possa essere dubbia la libertà della scelta [se collaborare o meno], su cui insisteva la sentenza n.135 del 2003” (§ 6 Considerato in diritto).
A questa affermazione, che spazza via la tesi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato nel 2019, la Corte aggiunge anche l’ulteriore (impegnativa) presa d’atto, secondo la quale “la disciplina ostativa prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario”, che già al § 8.1 del Considerato in diritto della sent.n.253/2019 era stato ritenuto costituzionalmente impraticabile. Qui la Corte non usa mezzi termini: messa così, “lo scambio può assumere una portata drammatica”, e “in casi limiti può trattarsi di una scelta tragica”. Per questo motivo, sul punto la Corte replica i rilievi contenuti nella sent. n.253 del 2019, evidenziando come “quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati”.
Si tratta di affermazione importante che però non stupisce, sol che si tenga conto del rinvio pregiudiziale[10] della stessa Corte costituzionale in materia di diritto al silenzio dinanzi alla CONSOB (per illeciti puniti con sanzioni amministrative di natura “punitiva”) e della conseguente pronuncia del 2 febbraio 2021 (in causa C-481/19, D.B. contro Consob).
Con quella sentenza la Corte di giustizia ha statuito che “l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE […], e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di una indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale”.
Da ultimo, proprio con riferimento alla decisione della Corte di Lussemburgo, con sentenza n.84 del 2021 la Corte costituzionale ha ribadito i rilievi della sua precedente ordinanza emessa ex art.267 TFUE, secondo la quale “il diritto al silenzio dell’imputato, pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale, costituisce un corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art.24 Cost”, estendendo la dichiarazione di incostituzionalità anche ai casi di responsabilità per illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato, dovuto a mancata collaborazione con la Banca d’Italia.
Si direbbe la quadratura del cerchio, in tema di diritto al silenzio (più volte definito inalienabile – sentt. n.238 del 2014, 323 del 1989, 18 del 1982) ; ma su questo si tornerà nel prosieguo.
Procedendo nell’analisi, ed ancora condividendo le argomentazioni della Corte, occorre salutare con favore quanto stabilito al § 7 del Considerato in diritto, laddove si afferma che “il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce […] alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n.149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art.27, terzo comma, Cost”. Subito dopo, tuttavia, ecco la prima pietra d’inciampo.
Al successivo paragrafo, richiamando di nuovo il suo precedente del 2019, la Corte osserva infatti come “rispetto al caso precedente la posta in gioco è ancora più radicale […] è qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo della libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli”. Ma è proprio in virtù della matrice comune degli ostacoli frapposti al godimento dei due benefici (derivante dal “carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata” che si trarrebbe dalla mancata collaborazione) che il giudice a quo prendeva le mosse nell’incidente di costituzionalità[11]; nel caso di specie, invece, la Corte non valorizza nei termini richiesti i lamentati vulnera, ed anche il maggior peso che può trarsi da una carcerazione assai più prolungata[12] (26 anni, e non 10, per accedere al beneficio della liberazione condizionale), né tantomeno il diverso presupposto (il sicuro ravvedimento, e non solo l’assenza di pericolosità sociale) richiesto dall’art.176 c.p.
La Corte è infatti di diversa opinione, e ritiene di dover “a maggior ragione” […] richiama[re] profili costituzionalmente necessari di natura probatoria” (di nuovo volti ad escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed il rischio del loro futuro ripristino).
Solo un accenno; come nel caso “Cappato”, da tanti evocato per ritenute analogie procedimentali, anche in questo caso la Corte suggerisce interventi ortopedici di natura probatoria, piuttosto che sostanziali.
Di più; come dovesse tranquillizzare il lettore e l’interprete la Corte si affretta a “ribadire che, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art.41 bis […]. In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di sicuro ravvedimento ex art.176 cod. pen.”.
A ben vedere, per quanto il tema fosse estraneo al perimetro del devoluto, anche i soggetti sottoposti al regime differenziato (con provvedimento ministeriale) dovrebbero invece poter sottoporsi al vaglio giurisdizionale, una volta trasformata da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità, posto che per chi non collabora, qualunque sia il regime cui è sottoposto, “è necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza”[13].
Con una nuova avvertenza (e qui davvero la Corte sembra rivolgersi al legislatore), si evidenziano “aspetti apicali della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali”, vuoi per le fattispecie di reato in discussione, sia per l’entità della pena (l’ergastolo), sia per il beneficio richiesto, “che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena”.
Per questi motivi (come già anticipato nel comunicato del 15 aprile) la Corte rifiuta “un intervento meramente demolitorio” che “potrebbe mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame, e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa”.
Si tratta di un punto centrale, che maggiormente evidenzia la presa di distanza dai precedenti arresti costituzionali[14].
Per puntellare l’assunto, la Corte ritiene di evidenziare la normativa di risulta che deriverebbe dal suo intervento demolitorio in relazione all’equiparazione “per le condizioni di accesso alla libertà condizionale tra il condannato all’ergastolo per delitti commessi alla criminalità organizzata che non abbia collaborato con la giustizia e gli ergastolani per delitti di contesto mafioso collaboranti”.
Non è così, stanti le differenze de iure condito tra le due posizioni raffrontate, che già consentono diverse modalità di accesso ai benefici (si pensi al disposto di cui al comma 1 bis dell’art. 4 bis o.p.), oltre a sensibili sconti di pena per chi presti collaborazione in fase di cognizione, ex art.16 nonies DL n. 8/1991, convertito in L. n. 82/1991, così come le posizioni non risultano equiparabili (per ciò che attiene al permesso premio), tenuto conto del combinato disposto di cui agli artt.58 ter, 30 ter, comma 4, o.p.[15].
Ma ancora non basta.
Rinviando ad “opportune scelte” del legislatore “per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani”, il Giudice delle leggi evoca la possibilità di “emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. L’assunto non è condivisibile.
Quanto al primo tema, valgono le considerazioni già spese dalla Corte nelle sue decisioni citate (sent. 253/2019, ord. 117/2019, sent. 84/2021) e, per quel che vale, quanto qui sostenuto in precedenza. Deve solo aggiungersi che nello stesso perimetro conchiuso dell’ordinanza il passaggio sopra indicato appare in tensione con quanto rilevato al § 6.7 del Considerato in diritto.
Per ciò che concerne la libertà vigilata[16], non è davvero possibile ritenere che detto istituto (com’è noto della durata di anni cinque – essa stessa sospetta di incostituzionalità per la sua natura fissa) per i condannati all’ergastolo che vengano ammessi alla liberazione condizionale possa servire a distinguere i casi che la Corte pone a raffronto; venendo dopo la concessione del beneficio non si comprende come potrebbe tornare utile a tal proposito[17].
In disparte il merito delle considerazioni svolte dalla Corte, sia consentito un rilievo sul metodo.
Si afferma la necessità di un self restraint, venendo in gioco “tipiche scelte di politica criminale […] non vincolate nei contenuti, che eccedono perciò i poteri di questa Corte”, e tuttavia non ci si esime da un’indicazione di rotta (come sopra descritta) che non appare sintonica con la premessa. Eppure, nel caso risolto con la sentenza n.253 del 2019, la Corte non si era certo astenuta da un intervento proprio del legislatore[18].
Neppure condivisibile appare il paventato rischio che una pronuncia di accoglimento immediato della quaestio avrebbe minato “il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema”. Le ragioni sono note, sono state scritte, e non occorre ripeterle.
Vero che la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola c. Italia, aveva indicato una preferenza per l’iniziativa legislativa per risolvere “un problema strutturale”, ma non si può certo convenire con la Corte laddove si afferma che “lo stesso legislatore […] si è attivato in direzione di una disciplina di assestamento del sistema”.
Ed infatti, occorre in primo luogo rilevare che lo Stato italiano risulta inadempiente ex art.46 della Convenzione rispetto all’affaire Viola. Sono ormai decorsi due anni da quella decisione, e tutto quanto comunicato dal Governo al Comitato dei Ministri l’8 settembre 2020 e il 15 marzo 2021 fa riferimento alle iniziative personali assunte dal ricorrente presso il suo giudice aquilano (che ha respinto la richiesta di permesso), al rapporto della Commissione Antimafia (di cui si dirà qui di seguito), e alla fissazione dell’udienza davanti alla Corte costituzionale. Un po’ poco, per definirla “una situazione dinamica della disciplina in questione”.
Ancor “meno di poco” il riferimento alle “intenzioni di riforma maturate” per quanto attiene alla “Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4 bis della legge n.354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n.253 del 2019 della Corte costituzionale”, rassegnata in data 20 maggio 2020.
Innanzitutto, occorre rilevare che la Commissione non dispone di autonomi poteri di iniziativa legislativa, di talché appare improprio ritenere che la citata relazione possa soddisfare gli interventi richiesti dal giudice alsaziano “de préférence par initiative législative”, tanto che la stessa Commissione afferma che la trasformazione della presunzione, da assoluta a relativa, “non può che essere supportata da nuove soluzioni normative”.
In ogni caso, in disparte il riferimento alla proposta di legge (ferma) A.C. n.1951, alla quale la Corte accenna senza dettagli, la relazione della Commissione citata oggi è accompagnata (non a caso) dalla proposta di legge d’iniziativa dei deputati Ferraresi, Bonafede (a volte ritornano!), Ascari, Sarti, Cataldi, Di Sarno, D’Orso, Giuliano, Perantoni, Saitta, Salafia, Scutellà, Aiello, Baldino, Caso, Migliorino, Palmisano, recante “disposizioni urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni gravi delitti, nonché delega al Governo in materia di accentramento dei giudizi riguardanti detenuti o internati per i delitti previsti dall’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater del codice di procedura penale”.
Tali e tante le prefigurate ipotesi di controriforma (altro che “ponderata e coordinata valutazione legislativa”) che ove mai queste trovassero un conforto parlamentare si porrebbe il problema del controllo della Corte (anche ex art.117/1 Cost., in relazione all’art.7 Cedu), stante le incongruenze con quanto prospettato. In particolare, la competenza giurisdizionale in capo al Tribunale di Sorveglianza romano (oltre che eccentrica rispetto alle sollecitazioni della Consulta) si rivelerebbe al contempo impraticabile all’atto pratico e in aperta violazione col principio di prossimità del detenuto al suo giudice naturale. Incidentalmente, viene da chiedersi perché mai i giudici romani non dovrebbero sentirsi “atterriti” nel decidere sul punto (come sostenuto nel 2019 dall’Avvocatura dello Stato), a meno di dover immaginare l’istituzione di un Tribunale speciale, argine invalicabile al Diritto alla Speranza.
Da ultimo, l’ordinanza rileva due ulteriori argomenti a giustificazione del suo colpo di freno[19], tenuto conto che il giudice rimettente ha chiesto “che l’illegittimità costituzionale delle norme censurate sia dichiarata con stretta aderenza al caso di specie” (involgenti reati, pena e benefici apicali), ciò che renderebbe di “incerta coerenza [la] disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata”.
Detto della discrasia “orizzontale”, per così dire, la Corte lamenta analogo pericolo di “effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame” laddove l’intervento avesse esteso ai condannati non collaboranti la possibilità di accedere alla liberazione condizionale, inibendo loro l’accesso al lavoro all’esterno e alla semilibertà (discrasia “verticale”).
Sul punto, è innanzitutto agevole replicare con le parole della Corte[20], secondo la quale “anche se qualunque decisione di accoglimento produce effetti sistemici, questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale nell’ambito del sistema (sentenza n.317 del 2009). Spetterà al legislatore individuare gli opportuni rimedi alle eventuali disparità di trattamento che si dovessero produrre in conseguenza della presente pronuncia”. Ancor più incisivo era stato un precedente intervento[21], con il quale la Corte (l’estensore era l’attuale Ministra della Giustizia), intervenendo sulla disciplina degli stupefacenti, aveva dichiarato (com’è noto) l’incostituzionalità delle disposizioni censurate affermando che “quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo”.
Ed ancora, la stessa Corte costituzionale, nella sua sentenza n.253, si è pronunciata in via consequenziale, ex art.27 L. n. 87/’53, estendendo a tutti i detenuti condannati per i delitti contemplati nell’art. 4 bis, comma 1, o.p. la possibilità di richiedere il permesso premio, sebbene anche in quel caso venissero in discussione i soli delitti di mafia e la pena dell’ergastolo.
Ma vi è di più; l’accertata violazione costituzionale del finalismo della pena, della quale già recava traccia evidente il comunicato (“tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”), per come già evidenziata, non consente di arrestare l’esame al profilo dedotto, e la Corte avrebbe potuto “liberare” ogni momento del percorso trattamentale da ostacoli connotati da identica ratio preclusiva, fermo il necessario controllo di adeguatezza da parte del giudice del merito, analogamente a quanto già deciso in precedenza[22].
Del resto, e non a caso, gli amici curiae presentati (e ammessi) dal GNPL, dal centro studi giuridici europei sulla grande criminalità-Macrocrimes e dal centro di documentazione L’Altro diritto avevano sostenuto la possibilità di una pronuncia consequenziale, sia per linea orizzontale (per tutti i condannati) che per linea verticale (per il lavoro all’esterno e la semilibertà).
Per quel che vale, anche noi[23] ci eravamo espressi negli stessi termini con l’atto di intervento depositato in Corte per l’udienza del 22 ottobre 2019, che ha condotto alla sentenza n.253.
Per restare fedeli a noi stessi, diversamente da Flaiano, Woody Allen e Altan[24], non abbiamo cambiato idea.
Un ultima considerazione, sul punto, che col sapore delle mestizia e dell’auspicio tradito riporto testualmente con le parole di una delle persone che più si è battuta in questi anni per questa battaglia di scopo[25]: adottare “un’ordinanza interlocutoria che, accertata l’illegittimità dell’attuale assetto normativo, ne rinvii la formale dichiarazione ad una successiva udienza, concedendo così altro tempo al Parlamento per riformare il regime dell’ergastolo ostativo”, considerata la renitenza del legislatore, sarebbe sbagliato. La ragione è chiarissima. La tecnica decisoria adottata dalla Corte in tema di agevolazione al suicidio (ord. n. 207 del 2018) e di diffamazione a mezzo stampa (ord.n.132 del 2020) non si misura con la galera. In quei casi, si doveva decidere se occorresse aprire virtualmente la porta del carcere per favorirne l’ingresso, mentre qui invece il battente è montato a rovescio. “Assistere a un simile surplace da dietro le sbarre, oltre che scomodo, è ingiusto, a fronte di un diritto inesigibile solo perché la Corte, invece di rimuovere subito, per tutti, e con efficacia retroattiva, la sua causa ostativa, preferisce accertarne l’incostituzionalità, rinviandone la dichiarazione formale” (al 10 maggio 2022).
Fa dunque una certa impressione leggere che spetti “in primo luogo al legislatore […] ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”. Tra esse, l’esibizione concerne l’art.3 della Cedu, uno dei quattro core rights inderogabile sempre, a mente di quanto previsto dall’art.15, § 2, della Convenzione.
- Che fare?
Non è domanda da poco. Avanzo un’ipotesi, che naturalmente potrà essere smentita dai fatti. Chiunque si fosse azzardato a prender posizione sul da farsi rispetto ai temi etici agitati dall’ordinanza Cappato non avrebbe tratto alcun vantaggio politico, se è vero com’è vero che rispetto ad essi (e ad altri; si pensi a quanto animata sia oggi la discussione sul ddl Zan) sembra esserci una scollatura tra elettori ed eletti (peraltro anch’essi divisi al loro interno). Così, analogamente, sulla materia del “carcere per i giornalisti”. Così invece non sembra essere per l’ergastolo ostativo, piatto appetibile per fare la faccia feroce e accontentare tutti i desiderata populisti, sapientemente alimentati da una campagna mediatica già oliata a dovere. Staremo a vedere.
Nel frattempo, e il tempo qui non è galantuomo, “rimarrà […] sospeso anche il giudizio a quo”.
Al dunque, la parte privata attenderà gli esiti della possibile riforma, e se del caso di un nuovo giudizio costituzionale (la Corte potrebbe restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza, laddove il Parlamento intervenisse), ma formalmente l’ordinanza 97 del 2021 impegna il legislatore, non i giudici. Potranno costoro, ove nuovamente investiti di analoga richiesta, astenersi dal decidere, a fronte di una esibita incostituzionalità della normativa? Nella consapevolezza che la risposta resti confinata nel campo delle ipotesi, propenderei per il no. Vero che, a differenza che nei precedenti casi citati (“Cappato” e “carcere a giornalisti”) la Corte non si esprime apertamente rispetto al giudizio di rilevanza e non manifesta infondatezza in altri procedimenti analoghi, ma il silenzio non può impedire una valutazione sul punto, e dunque una decisione in proposito[26]. Certo, occorrerebbe un giudice a Berlino (un nomadland) disposto a infilarsi nella buia terra di nessuno e rischiarare la notte[27]. Ovviamente, rifuggendo da illegittime prassi (il rinvio a dopo il 10 maggio 2022), sarà possibile sollevare nuovi incidenti di costituzionalità, sia in materia di liberazione condizionale (per qualsivoglia delitto tra quelli di prima fascia) sia per le misure alternative della semilibertà e dell’affidamento in prova (non così per la detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 bis o.p., atteso il rigetto della quaestio sollevata in proposito, con sent. n.50 del 2020).
- Quel che resta del giorno
Un gusto amaro, un’occasione persa; la sensazione agrodolce di chi vede affermarsi un principio (“l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione”) che resta evanescente. Il diritto si nutre dei diritti; senza questi è un legno storto.
La sensazione che la Corte avverta non solo il bisogno di parlare più chiaramente e di spiegare il suo incedere[28], ma anche di cercare una costante rilegittimazione[29]. Forse cambierà ancora, e dopo gli amici curiae, gli esperti, i comunicati, ci saranno le dissenting, e poi chissà[30]. Ma è un fatto che la Corte attraversa lo spirito del tempo e quello attuale non ha il cielo luminoso delle primavera.
A Roma c’è il Muro Torto, alle spalle del Pincio e al confine con Villa Borghese; di epoca tardo repubblicana, venne successivamente inglobato nelle mura Aureliane. Il tratto di muro, per l’appunto torto, si trova in corrispondenza del ponte che collega due lati della Villa. Se ne sta lì, tutto curvo da venti secoli, e la sua storia è accompagnata da leggende di morti in terra sconsacrata e di spiriti in pena.
Penso a quel muro della pena perpetua nel quale il 22/23 ottobre del 2019 si è aperto un buco, una breccia, che oggi lo rende più instabile di quello torto. Penso al ponte del muro torto, che unisce due punti nel verde. Penso al fatto che il muro torto è anche un viale, un passante, che spesso si fa per cercare di evitare il traffico, e invece si resta intrappolati.
Questo mi viene a mente, mentre alla fine raccolgo le carte e i pensieri: “tutto oscilla assieme al tempo”[31]
*Avvocato del Foro di Firenze
[1] I. Silone, Il segreto di Luca, Mondadori, 2011
[2] Il podcast dell’udienza è tuttora visibile sul sito della Corte costituzionale
[3] Di “conflitto mascherato da quaestio”, non a caso, ha parlato a tal proposito A. Pugiotto, in Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in www.rivistaaic.it, 4/2017
[4] A. Moro, La funzione della pena, Lezione del 13 gennaio 1976 nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Roma.
[5] P. Ingrao, Eterno e impossibile, in Ora d’Aria, 1989
[6] E. Dolcini – F. Fiorentin – D.Galliani – R. Magi – A. Pugiotto, Il diritto alla speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41 bis, G. Giappichelli Editore, 2020
[7] Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo e la liberazione condizionale, in www.amicuscuriae.it
[8] R. Magritte, La trahison des images, olio su tela, 1928-1929, Los Angeles County Museum of art.
[9] Sentt. Corte cost.n.264 del 1974 e 161 del 1997
[10] Ord. Corte cost n.117 del 2019
[11] Di “obbligo di coerenza giurisprudenziale” scriveva A. Pugiotto, L’ergastolo ostativo al capolinea? Una mappa per orientarsi, in attesa della sentenza costituzionale, in Studium Iuris, 2/2021
[12] Secondo H. J. Woodcock, Qualche considerazione sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di “ergastolo ostativo”, in Questione Giustizia, 26 maggio 2021, “il legislatore del rinvio dovrà oltremodo valorizzare, come fondamentale parametro da utilizzare ai fini di tale delibazione, l’aspetto rappresentato dal tempo trascorso in espiazione della pena. Come anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare in passato, il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa, purtroppo o per fortuna, da tutti i punti di vista; in oltre un quarto di secolo tutto cambia, dalla natura del vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali”.
[13] Secondo F. Gianfilippi, La esibita incostituzionalità della preclusione assoluta all’accesso alla liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo per reati di mafia non collaborante e il ritardo già cumulato dal legislatore nel porvi rimedio, in Questione Giustizia, 27 maggio 2021, non si possono ritenere inammissibili istanze di benefici penitenziari da parte di condannati ristretti al 41 bis, atteso che “per antica giurisprudenza della stessa Corte costituzionale deve escludersi che le limitazioni possano attingere le misure che incidono sulla qualità e quantità della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali) – sent. 349/1993. Si tratta di un insegnamento che appare confermato per altro dalle decisioni della Suprema Corte che hanno censurato i provvedimenti della sorveglianza che, invece che valutare sul piano del merito le istanze pervenutele da condannati in 41 bis, opportunamente valorizzando gli elementi posti a base del decreto ministeriale nel confronto con l’intero compendio istruttorio a disposizione e con l’istanza dell’interessato, abbiano invece arrestato all’inammissibilità il proprio esame (Cass. 21946/2020 e 9669/2016, non mass.)”. Analogamente cfr. M. Bortolato, in Webinar su L’orientamento penitenziario al vaglio della Corte costituzionale, www.camerepenali.it, 14 maggio 2021
[14] Cfr. sent. Corte cost. n.313 del 1990, § 8 Considerato in diritto : “se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri” [reintegrazione, intimidazione, difesa sociale] anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione”; cfr. anche sent. n. 149 del 2018, § 7 Considerato in diritto, secondo la quale “la finalità di rieducazione del condannato [è] ineliminabile (sentenza n.189 del 2010), [e] deve essere garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi, condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento, l’ergastolo (sentenza n.274 del 1983)”. Cfr. anche sent. Corte cost n.40 del 2019, § 5.2 Considerato in diritto, ove si afferma che “i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale (sentenza n.179 del 2017), in vista del progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa della pena (da ultimo, sentenza n.149 del 2018)”. Non rileva sul punto che il caso scrutinato nell’occorso fosse il trattamento sanzionatorio previsto nel minimo edittale per il delitto di cui all’art.73 DPR n.309/’90, quanto piuttosto l’evidenziata funzione primaria della pena, che qui risulta invece piegata a esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, quasi a voler contrapporre (e assegnare preminenza) a queste ultime rispetto alla funzione rieducativa. Sul punto, quanto alle finalità della pena perpetua, cfr. Corte EDU, Viola n.2 c. Italia, § 130, 13 giugno 2019, ove si afferma che “la funzione risocializzativa mira, in ultima istanza, ad evitare la recidiva e a proteggere la società”; cfr. anche Corte EDU, GC, Murray c. Paesi Bassi, 26 aprile 2016 (sia pure in relazione alle peculiari condizioni di salute dell’interessato).
[15] F. Gianfilippi, cit. Cfr. anche D. Galliani, Il chiaro e lo scuro. Primo commento all’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in Giustizia Insieme, 20 maggio 2021
[16] N. Valentino, L’ergastolo, dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009, nel quale si racconta (anche) degli equilibrismi degli ergastolani per rispettare le prescrizioni della libertà vigilata; un’altra pena
[17] Secondo S. Carnevale, in Video del Webinar Giustizia penale e Costituzione- esecuzione penale, Sistema Penale, 17 maggio 2021, “la corsa al sempre di più porta la Corte nel vicolo cieco”
[18] E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n.97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema Penale, 25 maggio 2021
[19] E. Dolcini, cit
[20] Sent. Corte cost. n. 149 del 2018, § 10 Considerato in diritto
[21] Sent. Corte cost. n. 32 del 2014, § 6 Considerato in diritto
[22] Cfr. sentt. Corte cost. n. 357 del 1994 e 68 del 1995.
[23] In questo caso è d’obbligo la prima persona plurale, giacché l’impegno è stato condiviso con la Collega Mirna Raschi.
[24] “A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido”
[25] A. Pugiotto, cit.
[26] D. Galliani, cit
[27] Sul difficile compito del giudice comune, impegnato “nell’opera di inveramento delle promesse costituzionali [e a ] dare voce alla Costituzione nell’esegesi della legge”, A. Natale, Il giudice comune, servitore di più padroni, in Questione Giustizia, Trim. 4/20
[28] D. Stasio, Il senso della Corte per la comunicazione, in Questione Giustizia, Trim. 4/20
[29] D. Tega, La Corte nel contesto, in Questione Giustizia, Trim. 4/20, afferma che “nella stagione del cd ri-accentramento il Collegio sembra aver rafforzato ancor di più le basi della propria legittimazione: quella a priori che si fonda sulla Costituzione (nonostante la richiamata confusione che pesa sul periodo costituente) e sull’esigenza della sua difesa (la Costituzione come limite al potere); quella a posteriori che le deriva da come esercita i suoi poteri, da come motiva le sue decisioni e dal rispetto dei limiti che la Corte stessa incontra (compreso anche il limite del cd self restraint); quella che si costruisce attraverso rapporti diretti con l’opinione pubblica e grazie al consenso sociale; quella che si è andata sviluppando nel rapporto con l’altra grande istituzione deputata alla garanzia del sistema costituzionale, la Presidenza della Repubblica” Nonostante ciò, l’Autrice sostiene che “le differenti stagioni giurisprudenziali attraversate dalla Corte corrispondono alla sua ricerca di legittimazione in un contesto istituzionale e sociale in cambiamento”. Non si può non condividere l’assunto secondo cui “non ci si può aspettare che la Corte arretri, che ingrani la retromarcia: la sua colpa, se così ci si può esprimere, è di compiere la propria funzione in modo molto efficace in un contesto nel quale non fanno altrettanto gli organi rappresentativi. E’ la debolezza della politica a evocare la forza del giudice, non il contrario”. Per quanto il tema sia enorme, mi limito qui a rilevare che l’intervento della Corte, come tratteggiato, non è stato questa volta dispiegato com’era lecito attendersi proprio per le premesse argomentative da cui muove il ragionamento
[30] L. Ferrarella, Prove di comunicazione della Corte costituzionale, in Questione Giustizia, 26 maggio 2021, nella composizione a più voci tra chi plaude alle nuove aperture della Corte e chi ne evidenzia rischi ed eterogenesi dei fini ricorda “quel bisogno di legittimazione che ossessiona qualunque tribunale costituzionale”. L’Autore non sostiene questa tesi, ma la polifonia sul punto testimonia di come sia vivace il dibattito in materia.
[31] Pascal, Pensieri, Mondadori, 1999.